ROSSI, Bernardo. –
Nacque il 26 agosto 1468, figlio di Guido e di Ambrogina di Filippo Borromeo, fratello di Bertrando (morto nel 1492) e di Filippo Maria, con i quali seguì le sorti del padre – erede prescelto dal proprio padre Pietro Maria (morto nel 1482) –, che dopo una precaria pace con il duca di Milano aveva ripreso le armi con Venezia (1483).
La Serenissima, con la pace di Bagnolo (1484), non era riuscita a conservargli le avite signorie nel Parmense e si era limitata a garantirgli un’importante condotta, e onorevoli carriere per i figli «ut tota Italia [...] cognoscat nos gratam habuisse fidem maiorum suorum et nolle deserere» (cit. in Liberali, 1963, p. 14), senza impegnarsi quanto all’obiettivo – «tornare in casa» e non rendite o carriere – che i fratelli Rossi perseguirono per tutta la loro vita, cercando a turno l’appoggio delle potenze che si fronteggiavano nelle prime guerre d’Italia.
Giunto a Ravenna nel 1483, Bernardo si trasferì poco dopo a Verona dove la Signoria gli assegnò una provvisione di 55 ducati al mese, ma già nel 1484 cercò per lui una sistemazione «ecclesiastica» con rendita di almeno 1800 ducati, tale da consentirgli una vita «onorevole». La sorella Giovanna sposò Gian Battista Malaspina (con dote di 4000 ducati); il fratello Filippo ottenne una condotta. La designazione a vescovo di Treviso (1485), concordata con Guido ma in contrasto con il papa, che candidava Nicolò Franco, e con la stessa Comunità trevigiana, fu ritirata. Il 4 aprile 1487 Bernardo fu invece nominato vescovo di Belluno.
Nell’agosto del 1499, a nove anni dalla morte del padre, grazie alla campagna franco-veneta contro Ludovico il Moro, i fratelli Rossi potevano far capitale della loro fama di influenza nel Parmense. Pare che il governo provvisorio milanese avesse invitato Bernardo Rossi a far parte dei «9 electi al governo di Milano» (M. Sanuto, I Diarii, 1879-1903, II, col. 1251); ed è probabile che la Signoria, che pure non li aveva inclusi nei patti di alleanza con Luigi XII, vedesse di buon occhio le loro mire, come indica il tentativo, fallito, di ottenere a Rossi il vescovato di Parma e la pronta udienza concessa alle sue richieste: non solo ottenne il passaggio al vescovato di Treviso (16 agosto 1499) ma anche la licenza al fratello Filippo, condottiere della Repubblica, di tentar (vanamente) la riconquista delle signorie rossiane nel Parmense, benché l’alleato Luigi XII si fosse impegnato a favore del cugino di Bernardo, Troilo Rossi. Non sembra che la defezione di Filippo a favore del Moro che tentava la riconquista del Ducato (1500) avesse contraccolpi su Bernardo, come invece accadde nel 1509: allora, sospettato di intese con l’imperatore per il quale militava il fratello preso prigioniero dai veneziani, venne allontanato da Treviso e confinato a Venezia.
L’episcopio bellunese fruttava 700 ducati, quello di Treviso il doppio, ma gravato da una pensione di 500 ducati istituita da Franco a vantaggio del futuro Giulio II. Venezia gli procurò anche la commenda dell’abbazia di S. Crisogono di Zara (1488) e la ricca prebenda dell’arcidiaconato del Capitolo della cattedrale di Padova (1491) che valeva oltre 400 ducati, e gliele mantenne, contro le intenzioni del papa, anche dopo il passaggio a Treviso. A questi si aggiunsero vari benefici bellunesi e trevigiani.
Rossi rappresentava un caso particolare del predominio di Venezia sulle istituzioni ecclesiastiche locali: a Belluno collaborò senza contrasti con la Comunità pur soggiornando a lungo fuori sede, a Venezia e a Padova, dove ricevette nel 1487 gli ordini maggiori e frequentò l’università laureandosi in diritto civile e canonico. A Treviso invece la sua aggressiva politica di riforma disciplinare, di recupero dei diritti patrimoniali della mensa vescovile e di occupazione di cariche a favore di parmigiani ed extradiocesani, generò un serio conflitto con la società locale (specie con una famiglia eminente, gli Onigo) e con lo stesso podestà veneziano Gerolamo Contarini, con il quale si scontrò duramente anche in materia giurisdizionale. Secondo testimonianze raccolte da Rossi nel 1503, Onigo e Contarini si unirono in una «congiura» per farlo assassinare insieme ai suoi più stretti collaboratori, ma i presunti mandanti processati dai magistrati veneziani furono assolti.
Non sembra che l’antagonismo dei locali venisse meno con il tempo, se qualche ignoto trevigiano sfregiò (1526) l’immagine del committente nell’Annunciazione di Tiziano posta nella fastosa cappella fatta costruire e decorare – con profusione di insegne araldiche e raffigurazioni proprie e di Rossi – dal vicario, Broccardo Malchiostro originario di Berceto. Bernardo Rossi aveva fatto costruire (1500-14) l’altra cappella absidale del duomo, ed era entrato in stretto rapporto con Lorenzo Lotto, che per lui dipinse, forse a celebrare il conseguimento della sede di Treviso, almeno la tavola della Madonna col Bambino e san Pietro Martire, in cui in origine era raffigurato anche il committente, e il ritratto del 1505, di cui firmò il coperto protettivo con l’Allegoria degli appetiti dell’Anima razionale, esaltazione della nobiltà dei molteplici interessi culturali di Rossi, che a Padova aveva frequentato le lezioni di latino e greco di Giovanni Antonio Panteo e conosciuto Galeazzo Facino, detto il Pontico, che lo seguì a Treviso come segretario e tramite con il gruppo di umanisti, tra cui Girolamo Bologni, che animavano l’intensa vita culturale trevigiana.
Nel 1510 Filippo Rossi fu liberato dalla prigione e Bernardo dal confino a richiesta di Giulio II, che vedeva in loro utili strumenti per conquistare Parma. Bernardo dovette però impegnare tutti i suoi beni a garanzia della fedeltà del fratello alla Chiesa e a Venezia, e con licenza della Signoria si trasferì in Curia (1511) dove ebbe come primo patrono il cardinale Pietro Isvalies, morto nel 1511. Fu presente, con un seguito di 18 persone, all’apertura del V Concilio Lateranense alle cui sessioni partecipò sempre sino alla conclusione (1517). Sembra che Giulio II evitasse di affidare ai fratelli Rossi cariche ufficiali, pur facendo conto sulla loro influenza a Parma. Nel gennaio del 1512 aveva affiancato Bernardo, insieme a Ottaviano Sforza vescovo di Lodi, al cardinal Matthäus Schiner nominato legato de latere per l’impresa in Lombardia e pare che nel giugno 1512 intendesse farlo governatore di Parma e Piacenza; ma la dedizione di Parma al papa avvenne solo nell’ottobre e senza merito di Bernardo e del fratello, che non riuscirono neppure ad assicurarsi il possesso di Corniglio, castello già rossiano per pochi giorni ricuperato.
Alla morte di Giulio II, Bernardo fu nominato dal collegio cardinalizio governatore di Roma e custode del conclave cum provisionatis suis. «Homo rigoroso et crudele et per questo al popolo formidabile» (M. Alberini, Il diario..., a cura di D. Orano, 1896, p. 220), ricoprì la carica fino al 27 giugno 1514, e ne difese con successo le prerogative contestate dai conservatori romani, ispirando a Leone X una riforma che ampliava la giurisdizione del governatore, facendone la massima autorità di polizia della città (28 giugno 1514). Familiare del papa, nel 1515 lo seguì a Bologna per l’incontro con Francesco I; nel 1517 fu nominato presidente di Romagna – anche della Marca, secondo Vincenzo Carrari (1583), ma non confermato sinora – e nel 1519 vicelegato di Bologna. Nella guerra iniziata nel 1521 le forze pontificie conquistarono per lui e per il fratello Corniglio e Bosco.
Cardinale in pectore nel 1521 (e di nuovo nel 1527), non lo divenne per la morte di Leone X. Si ritiene che Adriano VI lo licenziasse per la sua inazione o piuttosto per il coperto aiuto prestato ai Bentivoglio nel loro estremo tentativo di rientrare a Bologna in sede vacante. Peraltro anche le terre amministrate avevano chiesto la sua rimozione: a Bologna scandalizzava l’imposizione a chi lo avvicinasse di deporre la spada, «la qual cosa non avevano mai usato né con i Legati, né meno con li Pontefici ed Imperatori» (Masini, 1666); in Romagna Bernardo, in risposta all’uccisione del suo predecessore Alessandro Guasco vescovo di Alessandria, aveva istituito una costosa guardia armata e una conseguente gravosa imposta, esiliando i magistrati municipali che si opponevano, ad esempio a Cesena; a Ravenna (dove scampò fortunosamente a un attentato) aveva riformato magistrature e uffici municipali. Malgrado la medaglia celebrativa «ob virtutes in Flaminiam restitutas», estremo rigore e truci giustizie, unite peraltro all’uso strumentale di una parte contro l’altra, non bastarono a reprimere il pubblico disordine delle fazioni, che raggiunse punte estreme, per esempio a Ravenna nel 1522. Un ulteriore motivo per il licenziamento (che fu deplorato dallo stesso imperatore Carlo V) poté essere l’aver provocato (a giudizio del governatore Francesco Guicciardini) un tumulto di tre giorni a Parma, dove la fedeltà dei rossiani si divideva tra i due rami della famiglia, tentando di impadronirsi dei feudi degli eredi di Troilo mediante le risorse militari della legazione bolognese e il favore del cardinal legato, il futuro Clemente VII che, appena eletto papa, lo nominò governatore di Roma.
Nel 1527 nella sua casa vennero censite 40 persone; nonostante la fama di energia e crudeltà risultò impotente, di fronte ai Colonna (1525, 1526), benché il papa il 30 luglio 1526 lo avesse posto a capo di tutte le forze armate nello Stato della Chiesa (Lombardia esclusa; cit. in Liberali, 1963, p. 111). La difesa della città nell’imminenza del sacco del 1527 fu però affidata a Renzo di Ceri: a Bernardo Rossi toccò, nella chiesa di Aracoeli (4 maggio), chiamare alle armi in difesa della patria il popolo romano che proprio lui e i papi Medici avevano voluto disarmare. Rossi approfittò del collasso dello Stato pontificio dopo il sacco per lasciare Roma, con il pontefice in Castel Sant’Angelo, e dirigersi a Corniglio da dove tentò di prendere Basilicanova, scampò a un agguato dei cugini e raggiunse Parma, dove morì forse di veleno il 24 giugno 1527.
Rossi, che era riuscito a impedire che il cugino Giovanni Girolamo diventasse vescovo di Parma ma non a spodestarne la famiglia, era stato molto probabilmente l’ispiratore della politica clementina di sostegno alla città – governata con rigorosa giustizia da Antonio Santi, suo antico collaboratore in Romagna – e di delegittimazione delle fazioni. La Comunità glielo riconobbe decretandogli solenni onori funebri «in aliquale recognitione de benefitii per epsa receputi da la santa sede apostolica per megio et opera sua, quale etiam esercitato in degnissimi offitii e gubernii per suoi optimi portamenti ha de fama decta patria esaltato» (cit. in Liberali, 1963, p. 120).
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