GIUSTINIAN (Giustiniani, Iustiniani, Justinianus, Zustignan, Zustinian), Bernardo
Nacque a Venezia il 6 genn. 1408, da Leonardo di Bernardo e da Lucrezia di Bernardo Da Mula.
Studiò inizialmente con Cristoforo de Scarpis quando questi era a Venezia nel 1416 e dal dicembre 1418 all'estate 1420, con Francesco Filelfo che gli insegnò latino, greco e filosofia morale dal 1417 al 1419, e in seguito anche con Guarino Guarini a Verona nel 1424, avendo a compagno di studi Ermolao Barbaro. Tornato precipitosamente a Venezia, a causa di un'epidemia di peste che aveva colpito Verona a metà di quell'anno, è probabile che si sia recato a Padova intorno al 1425, dove fra l'altro lo zio Marco era podestà, ma non è sufficientemente attestata la notizia che ivi abbia conseguito la laurea. Pure non sicura è la notizia che vi abbia conosciuto Francesco Della Rovere, il futuro papa Sisto IV.
Nel 1427 entrò in Maggior Consiglio, iniziando così la sua lunga carriera politica, durata più di 60 anni.
Lo troviamo ancora a Verona nel 1429, dove ebbe il privilegio di tenere la prolusione a un corso di lezioni di Guarino sul Decivitate Dei di s. Agostino. Il testo guariniano si è conservato, ma quello del G. non ci è pervenuto. Di quest'anno sono probabilmente anche gli unici suoi componimenti poetici a noi noti: un esperimento di versione latina di alcuni versi di Omero e una Pacis congratulatio inter Venetos et Philippum Mariam ad ducem Venetum indirizzata al doge Francesco Foscari, che celebrava in 97 versi latini la pace dell'aprile 1428 fra Venezia e il Visconti (di alcuni terzetti da lui composti in onore di Jacopo Zeno non si ha più notizia). Di poco posteriore è la traduzione latina dell'orazione dell'Isocratis sermo de regno ad Nicoclem regem dedicata a Ludovico Gonzaga. Il breve testo isocrateo fornisce le norme di comportamento da seguire e quelle da evitare per governare nel modo migliore la propria città. La scelta non è casuale, e si inserisce organicamente nel filone umanistico veneto delle traduzioni classiche, volto a fornire alla classe dirigente della Repubblica modelli ideali di pubblica utilità. È una traduzione libera, talvolta lievemente diversa dall'originale, soprattutto a livello stilistico, tendendo il G. ad amplificare e a enfatizzare la tersa prosa isocratea e a spiegarne passi considerati troppo oscuri. La traduzione fu elogiata dal Guarino, dal Gonzaga in una lettera di ringraziamento per la dedica ricevuta (9 genn. 1432) e da A. Traversari in una lettera scritta al padre del G., Leonardo, al quale lo legava sincera amicizia.
Nel 1432 il G. seguì il padre, che dovette recarsi in Friuli quale governatore, e i due rimasero a Udine fino alla primavera dell'anno successivo. Sposò nel 1433 Elisabetta di Giovanni Priuli, dalla quale ebbe sette figli, quattro maschi (Leonardo, Lorenzo, Giovanni e Marco) e tre femmine (una delle quali, Orsa, sposò Andrea Dandolo e fu madre dell'umanista Marco).
Nell'ottobre 1441 alcune merci di proprietà dei Giustinian erano state in parte impropriamente vendute e in parte confiscate, complice il loro agente fiorentino, tale Mariotti, e il G. dovette chiedere a un giurista di tutelare i suoi affari. Si interessarono prima Jacopo Zeno, figlio di Carlo, e poi il dotto giurisperito Francesco Capodilista. È questa una delle poche tracce rimaste dell'attività commerciale della famiglia, che dovette anche essere intensa, in taluni momenti, ma che è tuttora poco nota, probabilmente anche per la quasi contemporanea presenza di un omonimo, importante banchiere e pure lui commerciante, che costituì, dal 1420 circa, una "fraterna" con Polo e Gerolamo Giustinian, suoi fratelli. Come molti altri patrizi, i Giustinian praticavano il commercio internazionale. Il G. fu altre volte distratto dai suoi impegni commerciali, per esempio quando (nel novembre 1463) chiese e ottenne il permesso di lasciare Roma, dove si trovava presso il papa Pio II, per affari urgenti che lo chiamavano a Venezia; e di nuovo quando chiese di essere dispensato, per ragioni personali, da un'ambasceria a Roma l'anno seguente, per festeggiare il nuovo papa Paolo II. Da alcune lettere del Filelfo si capisce inoltre che la caduta di Costantinopoli danneggiò anche gli affari dei Giustinian, fra il 1453 e il 1454.
Nel 1442 ricoprì la carica di savio agli Ordini, e già in una lettera di quest'anno, scritta da Venezia il 14 aprile a Giorgio da Trebisonda, il G. si lamentava (come aveva fatto spesso anche il padre) dei suoi numerosi impegni, che lo assediavano e gli impedivano di leggere e di scrivere. Nel 1443 assistette all'ultima visita a Venezia di Bernardino da Siena, che in quell'occasione andò a trovare Lorenzo Giustinian, allora vescovo di Castello. La conoscenza del frate colpì profondamente il G., che in una lettera a Leonardo Vittorio scritta nel 1444 sottolinea come quella visita influenzò profondamente la sua vita.
L'attività politico-diplomatica del G. iniziò in occasione del viaggio in Italia di Federico d'Asburgo, re di Germania, che si recava a Roma per cingere la corona imperiale. Il 5 genn. 1452 il G., inviato della Repubblica con altri tre nobili veneziani, tenne il discorso di benvenuto, Oratio ad Fridericum III imperatorem ad coronas et nuptias Romam proficiscentem, nel quale invitò l'imperatore a guidare le forze cristiane in una crociata antiturca, la cui necessità si faceva sempre più impellente, e sottolineò con enfasi la lealtà e la reverenza che Venezia aveva sempre nutrito verso l'Impero. Nel maggio dell'anno seguente, quando Maometto II conquistò Costantinopoli, la necessità di un'azione militare comune contro il Turco divenne più urgente. Il G., in questa occasione, fu tra coloro che non approvarono il trattato che Venezia stipulò poi col sovrano turco il 18 apr. 1454.
Avrebbe preferito, e in questo era appoggiato da Ludovico Foscarini e Paolo Morosini, che Venezia avesse scelto una politica più aggressiva. Come savio di Terraferma, nel 1456 si unì a una proposta che caldeggiava un'azione unificata contro i Turchi, e alla fine dello stesso anno, non essendo andata a effetto la precedente proposizione, suggerì di negoziare col sultano l'acquisto delle importanti isole di Lemno e Imbro, ma il Senato non accettò. Come non accettò neppure la sua nuova proposta, del dicembre 1457, di mandare una legazione al papa per indurlo a bandire una crociata.
Intanto, nell'ottobre 1457, si era consumata la personale vicenda del doge Foscari, che subito dopo la forzata abdicazione morì, il 1° novembre di quell'anno. Al G. fu dato l'incarico di tenere l'orazione funebre, Oratio funebris habita in obitu Francisci Fuscari ducis, nella quale il proposito principale dell'oratore veneziano fu quello di difendere l'onore della sua patria, unitamente a quello del doge stesso, dimostrando che Venezia e il Foscari avevano intrapreso una politica aggressiva non per ambizione e avidità di guadagno, ma per proteggere la libertà propria e altrui ("pro tuenda libertate", "pro eorum libertate", "pro Italiae libertate" sono le espressioni più ricorrenti in questa famosa orazione).
La seconda importante missione politico-diplomatica del G. maturò nel 1458: il 21 luglio i senatori Matteo Vitturi e Vitale Lando, unitamente al G., proposero di inviare al nuovo re di Napoli Ferdinando I, figlio illegittimo di Alfonso d'Aragona, non solo una lettera di congratulazioni, per cui si era già deciso in Senato l'8 luglio, ma anche due ambasciatori. La proposta fu considerata per il momento imprudente, visto che il papa Callisto III non aveva riconosciuto il nuovo re, e il voto per l'ambasciata fu sospeso, e quando fu riproposto il 12 agosto, nuovamente rinviato. Con l'avvento al soglio pontificio di Pio II, tuttavia, vi fu (con bolla papale del 17 ottobre) il riconoscimento ufficiale del re. Allora Venezia decise l'invio di due suoi legati, il G. e Leone Viaro, che erano i rappresentanti delle opposte fazioni nel dibattito precedentemente svoltosi sull'opportunità dell'ambasceria a Napoli. Con istruzioni votate dal Senato il 16 novembre, i due partirono in quei giorni e fecero una sosta a Roma ai primi di dicembre. Qui il G. rivolse al papa l'Oratio ad Pium pontificem, e il Piccolomini dimostrò di gradire molto l'oratoria del Giustinian. Il 12 dicembre gli inviati veneziani lasciarono Roma e giunsero, verso la fine dell'anno, ad Andria. Il 28 dicembre il G. tenne l'Oratio ad serenissimum regem Ferdinandum Siciliae regem in legatione habita.
Si doveva cercare di raggiungere un accordo fra il re Ferdinando e il principe di Taranto, Gian Antonio Orsini Del Balzo, che i Veneziani erano sospettati di favorire anche militarmente. Nell'orazione il G. offrì invece proprio al re l'aiuto finanziario e militare della Serenissima. Questa volta la fluente arte retorica del G. non ottenne l'effetto sperato. Il re non apparve interamente convinto, e mantenne il dubbio sulla duplicità dell'atteggiamento veneziano. I rapporti con il principe di Taranto divennero tesi soprattutto nel marzo del 1459, quando si sfiorò lo scontro diretto. Ma il mese successivo la diplomazia riuscì ad avere il sopravvento, e fu raggiunto un accordo. Il 4 maggio il Senato scrisse ai suoi due rappresentanti di evitare accuratamente di essere nominati nel trattato, anche se dovevano dare a vedere il contrario; e soprattutto di preoccuparsi di far ristabilire le immunità e i privilegi che il precedente re aveva concesso ai Veneziani nel Regno, specialmente riguardo al monopolio del sale. Infatti, nel discorso che il G. tenne il 1° ag. 1459, l'Oratio ad serenissimum regem Ferdinandum pro discessione, l'argomento principale fu quello dei privilegi, per la cui prodiga e amichevole concessione venne ringraziato il sovrano. Dopo aver ottenuto la felice soluzione della parte commerciale dell'accordo, la Serenissima si disinteressò di quella più strettamente politica, e quando (poco dopo) la pace fra i due contendenti fu infranta, Venezia mantenne una rigorosa neutralità, non concedendo affatto quegli aiuti militari che il G. aveva assicurato nel suo primo discorso.
Nel marzo di quell'anno intanto il papa si era recato a Mantova, dove si doveva tenere la Dieta che si sarebbe occupata della questione turca. L'11 ottobre il G. propose una mozione, accettata dal Senato, nella quale si invitava il papa a coinvolgere nel successo di una missione così importante non solo le forze veneziane, ma anche gli altri eserciti cristiani. Uno dei delegati veneziani a Mantova, Ludovico Foscarini, avvertiva però che la Dieta manifestava una forte tendenza antiveneziana, che sembrò attenuarsi nel dicembre, grazie agli sforzi diplomatici del delegato e alle risposte del G. a Pio II, che (scriveva il Foscarini il 5 dicembre al G.) avevano migliorato l'opinione del papa al punto da rendere possibile l'avvio della causa di santificazione di Lorenzo Giustinian, di cui il G. si stava cominciando a occupare. Alla fine del 1459 Venezia promise al papa di allestire la flotta per la crociata antiturca, ma gli altri Stati italiani sembravano riluttanti ad accettare una spedizione nella quale i Veneziani potessero gestire armate così numerose.
Fra il 1459 e il 1460 il G. fu eletto al Consiglio dei dieci.
Nel 1460 favorì la carriera del figlio del Filelfo, Giovanni Mario, al quale fece ottenere la docenza alla scuola della Cancelleria ducale. Il Filelfo lo ringraziò con lettera del 1° maggio di quell'anno. Ma nell'ottobre fu necessario procurare un altro docente per la stessa scuola, dopo la partenza dell'irrequieto figlio del Filelfo, e anche qui il G., che era allora savio di Terraferma, favorì l'elezione di Giorgio da Trebisonda, che conosceva fin dagli anni dei suoi primi studi umanistici. E anni dopo, nel 1468, continuando a dimostrare lo stesso interesse del padre Leonardo nel preoccuparsi della qualità dell'istruzione superiore a Venezia, patrocinò la scelta di Giorgio Merula per la cattedra di retorica lasciata vacante dal Trebisonda.
Nel 1461, alla morte di Carlo VII, divenne re di Francia Luigi XI, e il 28 agosto vennero scelti, quali ambasciatori veneziani, il G. e Paolo Barbo, fratello del futuro papa Paolo II. In ottobre partirono per la Francia, fermandosi il 23 a Milano per incontrare Francesco Sforza, con la duchessa e il figlio Galeazzo Maria.
In quest'occasione il G. sperò di risolvere anche problemi personali. Avanzava infatti alcuni crediti da due milanesi, 200 ducati da Paolo da Castignollo e 1500 da Pietro del Conte, e l'ambasciatore a Venezia Antonio Guidobono chiese allo Sforza, con lettere del 7 e 8 ott. 1461, di aiutare l'importante ambasciatore veneziano, sottolineando che "la sua conditione de presente è uno poco streta".
Le istruzioni date dal Senato ai suoi due rappresentanti erano chiare: bisognava capire esattamente quali fossero le mire del re su Genova e Napoli e manifestargli, a tal proposito, la benevola neutralità di Venezia; inoltre si doveva portare il discorso sul tema della crociata antiturca. Arrivati a Tours agli inizi di dicembre con largo seguito, dopo un'orazione di saluto al re tenuta dal Barbo l'8 dicembre, i due legati cercarono di sapere, dagli ambasciatori milanesi, quali fossero le entrate e le spese del sovrano francese, il quale intanto cercava di trarre dalla sua lo Sforza per la progettata conquista di Genova. Il 6 genn. 1462 il G. tenne l' Oratio ad serenissimum regem Franciae Ludovicum, dove disse di accettare il cavalierato offertogli dal re, dopo aver ricordato di aver già rifiutato tre volte tale onorificenza, quando gli era stata offerta dall'imperatore, dal papa e dal re di Napoli, e dicendo che sperava di indossare quest'insegna in occasione della prossima crociata contro i Turchi. Ciò posto, diede l'avvio a un'appassionata esortazione al re affinché si ponesse alla testa degli eserciti cristiani contro gli infedeli. Ma il re era interessato solo a scendere in Italia e manifestò un certo disinteresse per la questione della crociata, tanto che lasciò Tours per Bordeaux, senza invitare gli ambasciatori veneziani a seguirlo. A questo punto il governo veneziano ordinò ai suoi rappresentanti, l'8 febbraio, di tornare indietro. Passando per Parigi, il G. ricevette a nome della locale Università un discorso di benvenuto (tenuto da Giovanni Giulierio), al quale il G. rispose con l'Oratio responsiva ad Universitatem Parisiensem. La missione era sostanzialmente fallita e l'8 maggio i due erano di nuovo a Venezia, dove il G. fu tra gli elettori del doge Cristoforo Moro e, in seguito, ancora membro del Consiglio dei dieci.
Verso la fine dello stesso anno fu chiamato a un altro importante compito di fine diplomazia: si trattava di recarsi a Roma presso papa Pio II, apparentemente per cercare di portare a un accordo il papa e Sigismondo Malatesta, signore di Rimini (operare "pro pace et quiete totius Italiae", come scrissero i senatori veneziani nelle istruzioni date al Giustinian). Ma gli ambasciatori milanesi a Roma scrivevano allo Sforza, il 28 ottobre, che il motivo reale nascosto dietro la questione malatestiana era la crociata antiturca, e dello stesso avviso era anche Cosimo de' Medici, che il 13 genn. 1463 informava della copertura il suo ambasciatore a Roma. Questa missione occupò il G. per più di un anno, ma il suo esito fu sostanzialmente positivo.
Partito da Venezia il 29 ott. 1462, attraverso Ferrara, Bologna e Firenze giunse ai Bagni di Petriolo, presso Siena, dove il papa si trovava per curarsi (8 novembre). Qui iniziò a richiedere che si avviasse la pacificazione col Malatesta, ma nel corso del novembre e del dicembre, seguito il pontefice a Todi, il G. cominciò a perorare con minor energia la causa del Malatesta, suscitando sospetti negli altri ambasciatori. Nel gennaio 1463, seguendo ordini arrivatigli da Venezia, il G. chiese ripetutamente al papa di mandare un legato in Ungheria, per sollecitare la pace fra il re Mattia Corvino e l'imperatore, in modo che le forze ungheresi potessero occuparsi solo della difesa contro i Turchi (la pace effettivamente seguì, il 24 luglio 1463). Nel maggio la tensione aumentò vertiginosamente, quando Venezia concluse l'acquisto della città e delle saline di Cervia dal fratello del Malatesta, Domenico Malatesta Novello, signore di Cesena, per 4000 ducati. Il pontefice si adirò e convocò con urgenza il G., ma questi riuscì in seguito a recuperare il credito presso Pio II, se poco più tardi (estate o primo autunno: il discorso non porta data precisa) tenne l'Oratio ad Pium summum pontificem in consistorium, caratterizzata da una particolare attenzione agli aspetti organizzativi dell'imminente crociata antiturca, dalla strategia da adottare alle forze militari da impiegare, a un'attenta disamina dei contributi finanziari necessari all'impresa. Il 4 nov. 1463 il G. poté tornare a Venezia, su sua richiesta, per certi affari che avevano bisogno della sua presenza in città; fu sostituito, come ambasciatore presso il papa, da Ludovico Foscarini (nominato l'8 dicembre).
Il successo di questa missione fece sì che nell'ottobre 1464 gli fosse assegnato anche l'incarico di andare a congratularsi col nuovo papa Paolo II, il veneziano Pietro Barbo, col quale Venezia aveva avuto in precedenza fieri contrasti per la questione della sua elezione a vescovo di Padova. Il contingente veneziano fu particolarmente nutrito (dieci ambasciatori al posto degli usuali quattro), ma il G. chiese e ottenne di esserne dispensato, causa importanti affari pendenti. Non poté però esimersi l'anno seguente, quando, rieletto come ambasciatore al papa, si imbarcò alla fine dell'anno e, navigando lungo la costa adriatica, subì un naufragio presso Rimini, nel quale perse tutto il suo bagaglio. Chiese di essere dispensato dalla missione, ma la Signoria gli fece avere un compenso di 1000 ducati e gli ordinò di raggiungere Roma al più presto (ordine del 16 genn. 1466). Il 30 gennaio il G. tenne davanti al papa l'Oratio habita apud Paulum secundum summum pontificem.
Il principale obiettivo di questa missione era finanziario: visto il fallimento della crociata voluta da Pio II, i Veneziani avevano compreso che avrebbero dovuto affrontare da soli il nemico, e il G. doveva ottenere il permesso di imporre nuove tasse al clero. Ma Paolo II non concesse quasi nulla, e soprattutto nel giugno di quell'anno corsero "grosse parole" fra il papa e il G., a detta degli ambasciatori milanesi a Roma. Il G. criticò l'enorme sfarzo della corte papale e l'avidità di denaro del pontefice, che continuava a negare a Venezia qualsiasi aiuto.
Dopo il fallimento di questa sua missione, il G. tornò a Venezia e qui fu eletto, nell'ottobre, membro del Consiglio dei dieci. Nel 1467 ricoprì la carica di savio grande del Consiglio e nel maggio di quell'anno venne eletto capitano di Padova, dove trovò come podestà Ludovico Foscarini, che inviò al G. una lettera di benvenuto. L'umanista Gian Jacopo Cane scrisse per l'occasione un poema di elogio per i due magistrati.
Alla fine di questo incarico fu inviato (ottobre 1468) nei territori lombardi come provveditore, per controllare le attività e le spese delle milizie mercenarie al soldo della Serenissima. Dopo un mese, portata a termine la sua missione, tornò a Venezia. Nell'agosto 1469 fu ancora membro del Consiglio dei dieci, e fra il 1469 e il 1470 ancora savio grande del Consiglio. Nel giugno del 1470 il G. dovette raggiungere Napoli, per rilevare l'ambasciatore veneziano Filippo Correr, che non aveva rispettato appieno i precisi ordini del Senato veneziano in relazione al trattato che rinnovava il patto fra le potenze italiane stretto a Lodi nel 1454. Il Correr tornò immediatamente a Venezia, dove fu giudicato dagli avogadori di Comun per la sua imperizia e insubordinazione, mentre il G. cercava di sistemare le divergenze sorte col re di Napoli per le variazioni al trattato che la Serenissima imponeva. Il Senato veneziano contava sulla "prudentia", sulla "dexteritate", sulla "intelligentia et experientia" del G., che con lettere al Senato del 9 e 10 luglio di quell'anno informò di avere concluso la sua missione. Il trattato fu effettivamente firmato il 22 dicembre. Nell'estate di quell'anno il G., tornato a Venezia, continuò a occuparsi della vicenda come consulente ai dispacci che il Senato inviava a Vittorio Soranzo. Fra il 1470 e il 1471 fu ancora del Consiglio dei dieci, e poi savio grande del Consiglio.
Nel luglio del 1471 criticò la dura condanna inflitta a Bartolomeo Memmo, che aveva tramato per uccidere il doge Moro, sostenendo che si trattava di un gesto incosciente di un giovane sconsiderato, e che non aveva avuto alcun effetto. Ma il 13 luglio il Memmo, che aveva tentato la fuga a Treviso, fu preso e impiccato fra le colonne rosse del palazzo ducale.
Pochi giorni dopo giunse a Venezia la notizia della morte di Paolo II, che non dispiacque affatto alla Serenissima, che decise di inviare al nuovo papa eletto, Sisto IV (Francesco Della Rovere), il G. a capo di una delegazione composta anche da Triadano Gritti, Andrea Leoni e Marco Corner, per felicitarsi col nuovo pontefice e ricordargli l'impegno dei suoi predecessori per la crociata antiturca. A fine novembre i quattro ambasciatori arrivarono a Roma, e il 2 dicembre il G. tenne l'Oratio habita apud Sixtum IV pontificem maximum, uno dei suoi discorsi più noti e diffusi.
L'oratore non è avaro di elogi al nuovo papa, soprattutto per la sua saggezza e la sua profonda cultura letteraria, che gli permetterà di dare lustro al suo pontificato. I paragoni con papi come Alessandro III, Innocenzo III, Urbano II lo portano a concludere che possono rallegrarsi quelle città e quelle nazioni che sono governate da uomini sapienti. Tutti questi doni Dio li ha donati a Sisto IV per prepararlo al suo alto compito di guidare i principi e difendere la gloria di Cristo. I maomettani sono oramai entrati nel cuore dell'Europa cristiana, quell'Europa di cui l'Asia è stata una preda nel passato, e che ora è preda dell'Asia. Nessuna sorpresa se il nemico pensa di poter ormai conquistare l'intero Occidente. Ma il tempo è maturo perché il mondo cristiano combatta per la croce. I Veneziani, che hanno protetto la Cristianità dalla selvaggia furia degli infedeli per più di otto anni, ora offrono di nuovo le loro città, le loro navi, i loro eserciti e le loro ricchezze per la causa comune. L'insistenza di questo discorso sulla crociata antiturca era giustificato dal difficile momento storico: a poco più di un anno dalla caduta di Negroponte, Venezia vedeva il Turco alle porte del Friuli. Il Senato esortò con forza il G., nelle istruzioni, a lavorare per un accordo fra le potenze italiane sotto l'egida del papa. Se ciò non si fosse verificato a breve, il G. doveva ricordare a Sisto IV che per Venezia non sarebbe stato difficile venire a patti col nemico per salvare la sua esistenza e i suoi interessi commerciali. Il G. si occupò inoltre di alcuni dei problemi lasciati aperti dall'atteggiamento antiveneziano di Paolo II e riuscì almeno nell'assicurarsi l'imposizione delle decime sulle proprietà ecclesiastiche, per finanziare la continua lotta antiturca. Inoltre, proprio in questo periodo introdusse il tema della santificazione dello zio Lorenzo. A metà febbraio 1472 la Signoria decise di ritirare l'ambasceria di benvenuto, per sostituirla con un rappresentante fisso che continuasse a seguire queste questioni, e inviò Federico Cornaro. Nel marzo, poco prima della sua partenza, il G. ricevette dal papa una lettera onorifica (Dilecto filio Bernardo Iustiniano), dove si esalta pubblicamente la sua singolare abilità oratoria.
Il 26 giugno 1473 il Senato formulò una petizione a Sisto IV, con cui chiedeva ufficialmente di aprire il processo canonico per la santificazione di Lorenzo Giustinian, petizione non firmata ma sicuramente seguita dal G., che alla fine di ottobre di quell'anno fu inviato a Ferrara con Marco Barbarigo per occuparsi di una falsificazione di monete veneziane. Fra il 1473 e il 1474 fu ancora savio grande del Consiglio ed elettore ducale dei dogi Niccolò Marcello e Pietro Mocenigo.
In questi anni il G. scrisse la Vita beati Laurentii, in dodici capitoli più un prologo indirizzato a una comunità di monaci certosini. Dopo aver delineato nei primi quattro capitoli le virtù di Lorenzo come asceta e nei successivi quattro la sua attività episcopale, il G., dopo un capitolo contenente i detti più significativi dello zio, narra negli ultimi tre della malattia, morte e sepoltura di Lorenzo, in uno stile anche leggermente diverso dal resto, per cui è stato ipotizzato che questa parte (che è stata stampata anche a sé stante) fosse stata composta per prima, in un periodo precedente. Ma il resto dell'opera dovrebbe essere del 1471-74. Il modus narrandi palesa le intenzioni della biografia, che non ha tanto un obiettivo di ricostruzione storica, ma va piuttosto intesa come un "libellus postulatorius" per il processo di canonizzazione. Il 21 dic. 1474 si svolse infatti la solenne cerimonia di apertura del processo, presente il G. (che era appena stato eletto, il 17 dicembre, procuratore di S. Marco de citra, in luogo di Pietro Mocenigo, eletto doge) e le più alte cariche dello Stato, oltre ai due commissari papali designati da Sisto IV e ai rappresentanti della comunità di S. Giorgio in Alga, cui aveva appartenuto Lorenzo. Dalla Vita beati Laurentii si ha notizia di un progetto di altre due biografie, del padre Leonardo e dello zio Marco, che però il G. non ebbe il tempo di scrivere.
Nel 1476, come correttore della promissione ducale, il G. suggerì alcune modifiche restrittive nei confronti dei favoritismi familiari (i figli non dovevano avere né uffici né benefici durante il dogado del padre). Nel novembre 1477, con altri tre commissari, fu inviato in Friuli, a investigare lo stato delle difese militari. Dal 1477 fin quasi alla morte ricoprì molte volte la carica di savio grande del Consiglio, mentre, vista l'età, fu incaricato di continuare a tenere i contatti diplomatici con Roma solo per lettera.
Del 24 genn. 1482 è l'Epistola pro Republica Veneta ad Sixtum IV summum pontificem, dove il G. si occupa dell'acuirsi degli screzi fra Venezia e il duca di Ferrara. Le discussioni dei mesi successivi in Senato furono infatti incentrate sull'eventualità di intraprendere una guerra contro Ferrara, e in questo pare (ma la notizia è attestata solo dal lontano cugino Pietro Giustinian nella sua Rerum Venetarum historia, contro la testimonianza dell'annalista D. Malipiero) che il G. si facesse portavoce dell'intervento armato in polemica opposizione con l'allora doge Giovanni Mocenigo. Il 2 maggio di quell'anno Venezia dichiarò guerra al duca di Ferrara ed ebbe l'appoggio del papa fino al dicembre, quando il pontefice cambiò fronte e si schierò con Napoli, Milano e Firenze. Il G. scrisse al papa, il 12 gennaio dell'anno seguente, la lettera Ad Sixtum IV pontificem maximum responsio, dove rivendicò il diritto di Venezia a non interrompere allora, sul limitare di una sicura vittoria, una guerra giusta. E dovette rispondere ancora a una dura lettera di Sisto IV il 15 marzo, con la Responsio ad eundem summum pontificem, ribadendo che Venezia non era in guerra contro il papa, ma solo contro Ferrara, che aveva mancato ai suoi impegni. Del 28 maggio è poi la Responsio ad Sacrum Collegium cardinalium indirizzata ai cardinali veneziani a Roma, ai quali viene chiesto di sostenere e aiutare Venezia, loro vera madre, e non la Chiesa, loro matrigna. Ma nulla essi poterono per trattenere il papa dal lanciare contro Venezia l'interdetto (22 giugno). Il Senato ne vietò la pubblicazione e lo dichiarò nullo. Infine, la pace di Bagnolo (7 ag. 1484) e la morte di Sisto IV (12 agosto) allentarono la tensione, e permisero al G. di scrivere al successivo papa l'Epistola ad Innocentium octavum pontificem maximum (13 genn. 1485), nella quale chiese che fosse revocato l'interdetto che, pur dopo la pace fra i contendenti, restava ancora in vigore. I nemici di Venezia avevano cercato di trasformare la Serenissima in una ribelle della Chiesa, ma ciò andava contro la storia stessa di Venezia, sempre leale e obbediente nei suoi confronti.
È questo l'ultimo atto politico-diplomatico del G., che d'ora in avanti (eccettuata una breve ambasceria a Milano nel 1485) troviamo ancora impegnato nella politica interna di Venezia, soprattutto come savio grande del Consiglio, e intento a scrivere la sua opera maggiore, il De origine urbis Venetiarum rebusque eius ab ipsa ad quadringentesimum usque annum gestis historia, in 15 libri, che fu pubblicata solo postuma nel 1492.
L'opera storica del G. è conservata nel cod. Cicogna 1809 della Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia, cartaceo di 410 cc., che contiene due versioni dello stesso testo: una completa, pulita, da c. 1r a 212v, e l'altra in forma di abbozzo con molte varianti e aggiunte marginali, contenente solo i libri 1-7 e 10-15, da c. 219r a 401v. Scritta da diverse mani, contiene anche parti autografe del Giustinian. Un appunto manoscritto del possessore ottocentesco del codice, E.A. Cicogna, ci conferma che la seconda versione è la copia di lavoro e la prima quella preparata per la stampa dal figlio Lorenzo e da Domenico Morosini, che la fecero revisionare (secondo precise indicazioni dell'autore contenute nel suo testamento) dai dotti umanisti Benedetto Brognoli e Giovanni Calfurnio. La prima redazione dovrebbe essere stata scritta nel 1477-81.
L'opera, in 15 libri, narra le vicende della città dalle origini alla spedizione di Pipino e al dogado di Agnello Parteciaco. Basata su una vasta conoscenza della letteratura storica classica e di storici contemporanei come L. Valla e Biondo Flavio (che pure il G. critica più volte nel corso dell'opera, ma del quale aveva apprezzato la concezione di una storia come ricerca archeologica e ordinata disposizione delle fonti), l'opera è "il primo esempio nella storiografia veneziana di critica storica approfondita sulla base delle testimonianze superstiti" (Pertusi). Il metodo per valutare l'attendibilità dei testi usati (numerosi e attestanti il possesso di una vasta biblioteca, di cui purtroppo si sono perse le tracce, perché non citata nel testamento, ma che forse diede in lascito al monastero delle monache di S. Croce alla Giudecca) si basa sulla teoria del "probabilius": giudicare i fatti alla luce di una valutazione oggettiva ("sequi probabiliora planioraque reddere"). La stessa scelta dell'excursus temporale da narrare (le origini della città) richiedeva una posizione critica di fronte a documenti antichi e spesso inattendibili (e di fronte a uno dei più famosi, quello della fondazione patavina della città nel 421, non ha esitazioni nel dichiararlo un'invenzione non adatta alla realtà storica dell'epoca). L'obiettivo dello storico non si restringe sulla sola Venezia, ma spazia sul mondo mediterraneo e sull'Europa altomedievale, finendo per tracciare una storia dell'Oriente e dell'Occidente dal V al IX secolo. Nei tre lunghi excursus su Goti (libri IV-VI), Longobardi (VII), Turchi e Saraceni (VIII e XI), inoltre, il G. va alla ricerca delle cause che hanno favorito il nascere e lo svilupparsi della città. L'attenzione al dato storico, pur supportato da un'abitudine retorica che con la storia era ancora strettamente interrelata (e che gli fa intessere la narrazione di umanistiche "orationes"), comprende lo studio della nascita anche della Venezia civile e sociale, e del sorgere delle sue prime strutture costituzionali. Storia tucididea, che tiene conto anche dell'insegnamento erodoteo e di Dionigi d'Alicarnasso, è caratterizzata da attenzioni archeologiche, geografiche e climatiche non comuni all'epoca e da uno spiccato gusto etimologico di origine umanistica. Ma dalla storiografia umanistica lo distanzia una concezione ancora rigorosamente provvidenzialistica della storia.
Il 14 ag. 1486, alla morte del doge Marco Barbarigo, si avviarono le complicate procedure per l'elezione del successore. I candidati erano due, il fratello del defunto, Agostino Barbarigo, e il Giustinian. Per due volte risultarono in parità, e si vociferò che l'eletto sarebbe stato il G., ma il 30 agosto alla quinta ballottazione questi diede il proprio voto all'avversario, che così fu eletto. Il fatto che sulla poltrona ducale si fossero succeduti due membri della stessa famiglia, contrariamente a quanto stabilito dalle leggi, suscitò qualche malumore fra i partigiani delle "case vecchie", le famiglie di più antica data, delle quali il G. faceva parte. Circolò pure la voce che i sostenitori delle case vecchie avevano cercato in tutti i modi di avere un doge del loro partito, per cui seguirono, in Senato, alcune esclusioni di rappresentanti del partito sconfitto. Anche per il G. vi fu un temporaneo accantonamento, ma riapparve assai presto in Senato, continuando a essere consultato anche quando la salute non gli consentiva di recarsi nei Collegi.
Il G. morì a Venezia, il 10 marzo 1489.
Aveva fatto testamento il 5 marzo, notaio Nicolò Rosso, parroco della chiesa di S. Gemignano. Chiese di essere sepolto nella chiesa patriarcale di S. Pietro di Castello, presso la tomba di suo zio Lorenzo, con l'iscrizione "Bernardus Iustinianus Leonardi procuratoris filius Beati Laurentii patriarchae nepos miles orator et procurator", e lasciò istruzioni e denaro affinché si abbellisse la tomba del beato. Devolse il frutto di una sua "apotheca saponarie", officina per la fabbricazione di saponi, e della rendita di alcuni titoli del Monte Vecchio in opere pie, così come 1000 ducati in azioni del Monte Nuovo, che destinò al monastero di S. Croce alla Giudecca, dove aveva parenti (Eufemia Giustinian, futura beata, che ivi era vissuta fino a pochi anni prima in odore di santità, dovrebbe essere stata, secondo le più probabili congetture, sorella del G.; ed è pure probabile che la badessa del monastero fosse una delle sue due figlie monache). Al figlio Lorenzo lasciò la casa di S. Fantin con la fabbrica di saponi e la casa di Murano che era stata del padre Leonardo con i giardini; ai nipoti, invece, la grande casa a S. Moisè, sul Canal Grande, e altre 4 case vicine.
Opere: De divi Marci evangelistae vita, translatione, et sepulturae loco, in J.G. Graeve, Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, V, 1, Lugduni Batavorum 1722, coll. 172-196; De origine urbis Venetiarum rebusque gestis a Venetis libri XV, Venetiis, B. Benali [1492]; ibid. 1534; in J.G. Graeve, Thesaurus, cit., coll. 1-172; trad. ital. di L. Domenichi, Venezia 1545; ibid. 1608; Orationes, nonnullae epistolae, traductio in Isocratis libellum ad Nicoclem regem. Leonardi Iustiniani epistolae, Venetiis [1493]; ibid. 1558; Lutetiae Parisiorum 1577; Vita beati Laurentii Iustiniani Venetiarum protopatriarchae, Venetiis, per Jacobum de Rubeis, 1475; in Opera divi Laurentii Iustiniani protopatriarchae Veneti…, a cura di G. Cavallo, Brixiae 1560, I, cc. II-XIIII; ibid., Basileae 1560, pp. I-XXIV; in D. Rosa, Summorum sanctissimorum pontificum…, Venetiis 1613, pp. 13-31; in Acta sanctorum Ianuarii, I, Antverpiae 1643, pp. 551-564; Romae 1690, Patavii 1691; trad. ital. in Lorenzo Giustiniani, Trattato della disciplina e della perfezione monastica, Venezia 1569; ibid. 1690; a cura di I. Tassi, Roma 1962; la parte finale dell'opera è stata stampata anche a sé stante: De ultimis diebus et obitu b. Laurentii, Venetiis 1622. Le orazioni sono tutte in Orationes, cit., tranne l'Oratio funebris habita in obitu Francisci Fuscari ducis, in Orazioni, elogi e vite scritte da letterati veneti patrizi in lode di dogi, ed altri illustri soggetti, I, Venezia 1789, pp. 21-59 (con trad. ital.). Dell'Oratio habita apud Paulum secundum summum pontificem esiste una trad. ital. in Arch. di Stato di Venezia, Miscellanea di atti diversi manoscritti, filza 81, c. 215. L'Oratio habita apud Sixtum IV pontificem maximum è stata poi ristampata in P. Giustiniani, Rerum Venetarum… historia, Argentorati 1611, pp. 540 s.; ne esistono manoscritti in varie biblioteche d'Italia, per cui cfr. G. Mazzatinti - A. Sorbelli, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, V, p. 196; VIII, p. 64 e A. Beltrami, Index codicum classicorum Latinorum…, in Studi ital. di filologia classica, XIV (1906), p. 72. Le due orazioni a Paolo II e a Sisto IV sono anche in Orationes gratulatoriae in electione, coronatione, nativitatae… habitae a legatis…, Hanoviae 1613, pp. 6-25, 497-515.
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Tasca, Arbori de' patrizi veneti…, c. 454; Indici, 86 ter, 2: G. Giomo, Indice per nome di donna dei matrimoni di patrizi veneti, II, p. 264; Avogaria di Comun, reg. 106/I, c. 78: Matrimoni di nobili veneti, 1400-1560; Procuratori di S. Marco, Misti, b. 91.A; Commissaria Giustinian, f. 7 (libro mastro della "fraterna" dell'0monimo Bernardo Giustinian); Notarile, Testamenti, b. 1203, n. 33 (testamento del 5 marzo 1489; altre copie: Ibid., S. Croce alla Giudecca, b. 6, nn. 338 e 339; Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Mss. P.D., C.751.83, c. 333); Ibid., Bibl. naz. Marciana, Mss. Ital., cl. VII, 794 (9275): Cronaca di Giorgio Dolfin, c. 450; Belluno, Biblioteca Lolliniana, ms. 22, cc. 135-141 (lettera di B. Brognoli al figlio del G. Lorenzo, poi rist. in J. Graeve, Thesaurus, cit., V, 1, coll. 3-4); Brescia, Bibl. civica Queriniana, ms. A.VII.3, cc. 86v-87v; Verona, Bibl. comunale, ms. 68, cc. 131-132v; Vienna, Österreich. Nationalbibl., ms. Lat. 441, cc. 217v-218, 238v-242, 290v-291, 338v-339 (lettere di Ludovico Foscarini); M. Sanuto, Vitae ducum Venetorum…, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXII, Mediolani 1733, coll. 968, 1240 s.; A. Navagero, Historia Veneta… usque ad annum 1498, ibid., XXIII, ibid. 1733, col. 1149; F. Filelfo, Epistolarum familiarum libri XXXVII, Venetiis 1502, cc. 39, 47, 84v-85v, 87, 110rv, 111, 115, 159, 255v; G.F. Foresti, Supplementum chronicarum, Venetiis 1513, p. 269; P. Dolfin, Epistolarum volumen, Venetiis 1524, p. 63; A. Stella, Bernardi Iustiniani patritii Veneti, senatorii, equestris, procuratoriique ordinis viri amplissimi vita, Venetiis 1553; G.B. Egnazio, De exemplis illustrium virorum Venetae civitatis atque aliorum gentium, Lutetiae Parisiorum 1554, pp. 70, 273; P. Manuzio, Commentarius Pauli Manutii in epistolas Ciceronis ad Atticum, Venetiis 1568, pp. 717 s.; G.F. Manfredi, Degnità procuratoria di S. Marco di Venetia, Venetia 1602, pp. 65 s., 68; P. 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