BERNARDO di Stefano
Meglio noto col nome di Gambino d'Arezzo, visse nel sec. XV; il soprannome di Gambino, probabilmente, gli fu dato a causa della piccola statura. Le scarse notizie che abbiamo della sua vita si desumono dal poco che l'autore dice di sé nei suoi versi. Il Gamurrini, il quale pone la data di nascita di B. tra il 1420 e il 1430, ritiene che questi si sia sposato intorno al 1460: ciò in base alla notizia., offerta da B. stesso nel suo poema di maggior impegno, dedicato a Borso d'Este e scritto verso il 1470, secondo la quale egli aveva allora tre figli in tenera età. B. visse, quindi, nel periodo in cui Arezzo era assoggettata a Firenze e al dominio dei suoi capitani di parte guelfa: egli, ghibellino, doveva di necessità espatriare. E tuttavia pare che i motivi dell'esilio non fossero solo di carattere politico, ma dovuti anche alle difficoltà economiche in cui B. e la sua famiglia vennero a trovarsi verso il 1470. Il poeta, infatti, sembra vivesse allora soprattutto delle elargizioni di mecenati. Corto si è che fra il 1470 e il 1477 egli segue le schiere di Carlo Fortebracci, che era al servizio della Repubblica veneta. Nel 1475 è di nuovo ad Arezzo, ma l'anno seguente è nel Friuli sempre al seguito del Fortebracci; non sappiamo, tuttavia, se prese parte anche alle frequenti scorrerie che questi e le sue schiere compirono nel contado senese nel periodo che vide la guerra fra la Chiesa e Firenze, la quale ultima aveva affidato alcondottiero la guidadell'impresa bellica. Del poeta ignoriamo la data dimorte e ogni altro dato biografico dopo il 1477.
Versificatore non privo di una aggressiva vena moralistica e di appassionato senso patriottico, B. non palesa notevoli qualità di poeta. La sua opera, strettamente asservita all'imitazione di Dante, che egli ebbe carissimo, e non priva di echi petrarcheschi, esprime direttive d'arte e un mondo morale simili a quelli presenti nei testi del Finiguerri (detto Za: come Gambino, imitato direttamente da Lorenzo il Magnifico nei suoi Beoni) e a quelli del manipolo di poeti quattrocenteschi che nutrono i loro versi di polemica morale e civile e, talora, di satira e di cruda ironia. Letterati più che poeti, nei quali la cultura, la suggestione letteraria, il gusto dell'imitazione sì trasformano in fredda oratoria; versificatori che la passione politica ed etica precipitano in greve realismo, a tratti in rude aggressione satirica; uomini di mestiere in fatto di computo sillabico e di rime, ai quali sfugge, per ovvia mancanza di qualità native. la realtà stessa del fatto poetico.
I componimenti poetici di B. hanno tutti i limiti appena indicati: l'uggiosa elencazione di nomi condannati o esaltati, la pena amorosa esposta in formule metriche pesanti, etichettate, frigide; l'impegno moralizzatore detto con una certa forza di convincimento, ma senza forza espressiva; il verso inquinato da un angoloso retoricismo che è al fondo stesso della concezione poetica; la parola senza vigore vero, senza sofferenza di poesia. Questi gravi limiti sono appena superati in sparsi e assai rari momenti di buona sincerità lirica: soprattutto in alcuni versi di franco dolore per le sorti patrie, dove, però, si deve riconoscere piuttosto schiettezza di pena morale che non buona marca di scrittura poetica.
La maggiore opera di B. - fra quelle pervenuteci - è un poema diviso in due libri. Il primo di essi, che comprende otto capitoli di diversa ampiezza, ha per titolo Delle genti idiote d'Arezzo: si tratta di una insipida e stucchevole rassegna di plebaglia aretina, contro la quale ci si lancia con foga che appare del tutto superflua. Il secondo libro vuole essere, invece, il contrario: nei ventiquattro capitoli Degli uomini famosi d'Arezzo e d'Italia si esaltano le virtù di tutta un'altra schiera di persone, questa volta meno ignote, ma senza ordine e senza grazia. L'imitazione dantesca è qui assai rigorosa, ma con risultati molto modesti; e gli stessi risultati, entro un'imitazione ancor più chiusa e ferma, si osservano nell'altro poema, la Fantastica visione, di cui possediamo solo la prima parte del quarto libro. Come nelle pagine sugli "idioti d'Arezzo", la polemica (o contro i preti, o contro la Curia romana, o contro singole persone) che B. conduce in questo libro d'infernale (e dantesca) dannazione è fiera, ma insipida, aggressiva, ma inconsistente.
Fra le opere minori sono da considerare la canzone A laude del conte Iacomo Piccinino e a vilipendio de chi lo tradì, che comincia: "Se mai furor di Dio versò sua ira" e che forse ha momenti di più limpida vena; la Morale "O miseria infelice, cieca e frale"; il componimento "Si mai Calliope colla tua lira"; una Lettera d'amore al a sua amorosa; un Ternario de amore; un Carme; due sonetti. A questi testi (riuniti in edizione dal Gamurrini) è da aggiungere un altro componimento, stampato alcuni anni dopo tale edizione in un opuscolo anonimo per nozze: si tratta di trentatré terzine, pur esse ortodossamente dantesche, di carattere amoroso: "L'ingegnio grolioso e quel poema".
Si deve infine ricordare che Sigismondo Tizio, nelle sue Historie senesi (del XVI sec.), attribuisce a B. anche un Poema sull'incoronazione di Cristo e un altro In lode della Santa Vergine.
Bibl.: S. Tizio, Historie senesi, VI, pp. 2-3; O. Gamurrini, Versi di Gambino d'Arezzo, Bologna 1878; Lettera d'amore d'anonimo senese scritta nel 1555… e Terzine d'amore di Gambino d'Arezzo quattrocentista, nozze Lunghetti-Mazzi, Siena 1880, pp. 13 ss.; F. Flammini, Studi distoria letter. ital. e straniera, Livorno 1895, p. 69; V. Cian, La satira, Milano 1945, I, pp. 311 e 317-18; V. Rossi, Il Quattrocento, Milano 1960, p. 263 e 345.