BINI, Bernardo
Figlio di Piero di Giovanni di Iacopo, nacque in Firenze nel 1461 da una famiglia di popolo immigrata dal contado alla fine del Duecento e ascesa per la prima volta al priorato nel 1352. Lo stesso padre del B. era stato priore nel 1462 e nel 1468, ed aveva fatto parte delle balìe del 1466, del 1471 e del 1480. Il B., avviatosi alle attività mercantili, si portò a Roma fin dal pontificato di Alessandro VI, introducendosi nell'ambiente di corte grazie ai rapporti di parentela e d'amicizia con la casa dei Pucci.
La faticosa e paziente trafila dell'apprendistato cortigiano del B. può ben cogliersi di scorcio in un gruppo di lettere dell'ottobre 1493 indirizzate al cognato, Giannozzo d'Antonio Pucci. Si trattava di ottenere diversi benefizi ecclesiastici per Lorenzo Pucci, più tardi cardinale, e il B. venne avviato ai Farnese (essi stessi imparentati coi Pucci) e in particolare a Giulia Orsini Farnese, sorella del futuro Paolo III e vicinissima ad Alessandro VI. Vivacemente descritte sono in queste lettere le alterne fortune del postulante, che cerca di non lasciarsi sfuggire l'occasione di legarsi agli influenti personaggi con cui viene in contatto, affrettandosi a procurare le più varie mercanzie richiestegli: così giustificherà le sue premure per la Farnese ricordando che "se non la servissi sarei in disghratia, che ò chominciato a esser di chasa più che 'lla ghranata".
Fedele alla parte medicea (il cognato Giannozzo fu impiccato nel 1495 sotto accusa di aver tramato il rientro di Piero de' Medici), il B. rimase a Roma durante il pontificato di Giulio II, di cui fu probabilmente tesoriere. Ma è col regno di Leone X che egli toccò l'apice della sua fortuna, appoggiandosi ancora una volta ai Pucci, con cui rinsaldò i legami di parentela ottenendo in sposa per il figlio Piero una nipote del cardinale Lorenzo.
Proprio accanto all'allora datario Pucci, di cui si faceva mallevadore, il 6 maggio 1513 il B. era parte nel contratto (e così sarà per il rinnovo del 1516) per il mausoleo di Giulio II fra Michelangelo Buonarroti e gli esecutori testamentari del papa da poco scomparso. Nello stesso mese, ancora insieme col Pucci, sottoscriveva l'impegno a corrispondere un elevatissimo canone per una tenuta che Leone X intendeva condurre in affitto. Il B. non aveva altra veste che quella del "mercator Florentinus romanam curiam sequens" e in sostanza non la dismise mai, nonostante gli incarichi ufficiali. Impegni come quello cui si è accennato si ripetono negli anni successivi e lo stesso banco Bini sembra non aver avuto altra ragion d'essere se non per provvedere alle spese private di papa Leone X, lucrando poi mediocremente su depositi e cambi per la finanza pontificia.I maggiori lucri del B. passavano in realtà per altre vie, prima fra tutte quella delle cariche curiali e di corte con relativi benefizi: egli stesso fu creato cavaliere di S. Pietro, suo figlio Tommaso fu cameriere segreto e scrittore delle lettere apostoliche, un altro figlio, Giovambattista, fu familiare del papa, sollecitatore, abbreviatore, protonotario, referendario e reggente di Cancelleria, e un nipote, il poeta bernesco Giovan Francesco di Bartolomeo Bini, iniziò col suo appoggio la carriera di Curia che lo porterà più tardi alla segreteria dei Brevi.
Sposato ad una Ricasoli (così come il fratello Niccolò, suo corrispondente in Firenze), il B. tenne con Simone Ricasoli l'amministrazione dei fondi per la costruzione di S. Pietro, e alle sue casse affluivano, tramite i Fugger, "l'entrate toche alla fabbricha... prese dall'indulgentie di Treviri". Per tutto il regno di Leone X fu inoltre "depositarius pecuniarum datariatus", ufficio di recente istituzione.
Console della nazione fiorentina a Roma nel 1519, il B. ebbe in questi anni una vera e propria posizione di privilegio fra i banchieri di Curia, il che non era d'altronde privo di rischi. Fra i suoi collaboratori ebbe i due figli Giovanni e Piero, e sono i loro nomi a comparire nella più clamorosa transazione che sia nota fra il pontefice e il "dilectus filius" Bini.
Con motu proprio del 25 sett. 1521 Leone X, constatato che i Bini gli erano creditori di 156.000 ducati, sia "de propriis pecuniis", sia "pro nobis ad cambium vel alias cum gravi iactura mutuo acceptis", si impegnava a ceder loro tanti uffici di Curia, non appena si fossero resi vacanti, dalla cui vendita si potessero ricavare nel termine di un quadriennio da un minimo di 156.000 ducati a un massimo di 176.000. A garanzia dell'impegno Leone X consegnava ai Bini una notevole quantità di gioielli pontifici, fra cui un triregno che, alla morte del papa, il B. si affrettò a inviare a Firenze, rifiutandosi poi per molto tempo di restituirlo, nonostante le minacciate sanzioni spirituali, e piegandosi infine soltanto alle pressioni della Signoria: il triregno comunque ritornò a Roma privo di molte gemme.
Ma non solo queste promesse e questi pegni il B. attendeva dal papa: la voce pubblica dava infatti per certa la creazione a cardinale di un suo figlio, Giovambattista.
Con la morte improvvisa di Leone X svanirono tutte le speranze dei Bini, anche se il loro scoperto non doveva raggiungere la colossale cifra di 200.000 ducati indicata dai contemporanei. Certo è che il banco del B. subì un tracollo da cui non si riprese: d'altronde il suo raggio d'azione, tutto limitato all'intricata gestione della pubblica e privata finanza pontificia, era troppo ristretto perché si potesse competere con banchi di più ampie dimensioni e di più svariati interessi, come, per fare un esempio, quello dei Chigi. Le fortune private del B. non conobbero comunque un radicale rovesciamento. A Roma egli continuò a mantenere aperto il suo palazzo sulla via del Consolato, costruito in parte sulle case avute in dote da suo figlio Piero, che, morta la Pucci, aveva sposato una nipote del cardinale Cesarini; e con Roma rimasero vivi i contatti suoi e dei discendenti: non con lui ma con l'omonimo nipote dovrebbe ad esempio identificarsi il Bernardo Bini che incontriamo nel 1555 interessato per quasi 8000 ducati ad un acquisto di cereali per l'Abbondanza romana.
Ma dopo il 1521 il B. visse prevalentemente a Firenze, nella casa "magnifichissima" che, insieme con quella di Roma, aveva provveduto a ricostruire e a restaurare; e al B., cui spesso eran ricorsi Leonardo, Michelangelo, Raffaello, il Sangallo, si deve anche, unica traccia oggi rimasta del suo mecenatismo, il fiorentino oratorio di S. Bastiano, detto appunto de' Bini, dove egli stesso fu sepolto. L'oratorio era annesso allo Spedale di S. Spirito che già in commenda al fratello del B., Marlotto, passò successivamente ai figli Tommaso e Giovambattista, che con questa tennero entrambi altre cariche ecclesiastiche fiorentine, perpetuando una già secolare tradizione di influenze nel clero locale, che doveva essere poi rinverdita da un pronipote del B., Pietro, che introdusse in Firenze la Congregazione di s. Filippo Neri.
La lunga fedeltà medicea consentì infine al vecchio banchiere, ritiratosi in Firenze, di intraprendere negli ultimi anni della sua vita la carriera degli onori: nel 1524 fu eletto gonfaloniere ed era fra i Priori nel giugno del 1527, quando fu restaurato il governo repubblicano.
Ben difficilmente rimase in Firenze, se è vero che Malatesta Baglioni abitava, durante l'assedio, le sue case; ma non appena rientrati i Medici, sebbene ormai settantenne, egli era chiamato alla Balìa incaricata di riformare il governo della città: fu questo probabilmente l'ultimo incarico ufficiale. Sulla soglia dei novant'anni lo vediamo ancora rilasciare al Buonarroti, nel 1548, una dichiarazione sulle somme che tanti anni prima gli aveva versato, agli inizi della "tragedia" michelangiolesca della "sepoltura di papa Giulio".
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