SCARDEONE, Bernardino
– Nacque a Padova nel 1482 (non nel 1478, come asserito da vari biografi; Bandini, 1991-1992, pp. 179-182) da Angelo e da Giacoma Nardini, in una famiglia di artigiani di modesta condizione economica, che egli cercò in seguito di nobilitare inventando una discendenza dalla stirpe dei da Carturo (De antiquitate..., 1560, pp. 329 s.).
Fu il secondogenito, e il secondo maschio, di sette tra fratelli e sorelle. Dei suoi fratelli, Giovanni Maria fu monaco olivetano nel monastero padovano di S. Benedetto Novello, mentre Giacomo e Vincenzo si acquistarono solida reputazione, rispettivamente, come medico e come chirurgo.
Nulla è noto della sua prima formazione e poco dei suoi studi universitari, compiuti entro i primi anni del Cinquecento. Egli stesso ricorda di aver avuto maestri in diritto canonico Antonio Francesco Dottori, Alvise Da Ponte, Pietro Can (m. 1505) e Francesco Fazi (m. 1505); seguì anche i corsi di dialettica di Girolamo Malipiero Sassonia (De antiquitate..., cit., pp. 184, 186-188, 226). Non risulta, peraltro, sia mai giunto alla laurea. Era già avviato alla carriera ecclesiastica: promosso ai quattro ordini minori nel 1497, al suddiaconato nel 1501, al diaconato nel 1502, fu consacrato sacerdote nel dicembre del 1505 e il 1° giugno del 1506 il vescovo di Padova Pietro Barozzi lo nominò rettore della chiesa di S. Maria di Murelle (oggi frazione di Villanova di Camposampiero).
Da quel momento, e per decenni, Scardeone risiedette tra Murelle e Padova, dove manteneva la disponibilità della casa paterna e dove rinsaldò vecchi rapporti e ne contrasse di nuovi; tra i suoi amici più stretti si contano i sacerdoti Marco Ungaro, Bartolomeo Callegari e Aurelio Scapin, e il domenicano Desiderio Dal Legname, ma strinse relazioni significative anche con Alvise Cornaro e la sua cerchia di letterati e di artisti (Gualtiero Dall’Arzere gli affrescò la casa a S. Leonardo; De antiquitate..., cit., p. 373), con Francesco Bonafede e con Giovanni Battista Cipelli (Egnazio).
Nel 1519, tra l’8 febbraio e il 24 marzo, fece un viaggio a Roma in compagnia degli amici Scapin, Callegari e Ungaro, per chiudere questioni beneficiali che il primo aveva pendenti in Curia: fu la sola occasione – quanto meno, la sola finora nota – in cui egli si allontanò da Padova e dal Veneto (Padova, Biblioteca civica, B.P. 3159, cc. 122r, 123rv).
Su sollecitazione di Ungaro curò nel 1531 la pubblicazione in un solo volume di alcune opere di Barozzi: De modo bene moriendi; Consolatorii libri III; Officium ad deprecandam pestilentiam; Officium ad impetrandam pluviam; Officium ad aeris serenitatem poscendam (Venezia, G.A. Nicolini da Sabbio e fratelli). Di lì a qualche anno, come mostra la data – 4 ottobre 1538 – dell’epistola dedicatoria al cardinale Giovanni Pietro Carafa (il quale, ricorda l’autore, aveva letto l’opera tempo addietro dandone un giudizio positivo), erano pronti i sette libri De castitate, lo scritto di maggior impegno, tra quelli religiosi, composto da Scardeone. Alla loro edizione a stampa – a Venezia presso Andrea Arrivabene, per i tipi di Giovanni Farri e fratelli – si arrivò tuttavia solo quattro anni dopo, nel 1542: un iter così lento si dovette forse anche allo scrupolo di rifinitura stilistica cui sembra accennare Egnazio nella seconda epistola premessa all’opera, indirizzata al legato pontificio a Venezia Giorgio Andreasi.
Nel frattempo, nel 1540, Scardeone aveva ottenuto l’incarico, che mantenne sino alla morte, di confessore delle monache benedettine di S. Stefano, uno dei maggiori monasteri femminili della città. Analogo ruolo assunse, di lì a circa un decennio (ante 2 febbraio 1551), per le monache illuminate convertite di S. Maria Maddalena, monastero fondato da Francesco Zacco, sacerdote suo amico, per redimere le prostitute; e dal 1570, ormai canonico della cattedrale, fu confessore anche delle monache di S. Biagio.
Connesse a questo ruolo di direzione spirituale sono le altre opere religiose di Scardeone. Alle monache di S. Stefano indirizzò prima il trattato Nave evangelica esposta per la religione (Venezia, G.A. Valvassori, 1551) e poi una «lettera spirituale», datata 29 novembre 1556, alla quale accluse la Sequenza de’ morti, cioè una sua slombata traduzione in endecasillabi del Dies irae; il testo fu pubblicato, postumo, nel 1575, in apertura di una raccolta di Avvertimenti monacali stampata a Venezia da Gabriele Giolito De’ Ferrari; fu in seguito riproposto in appendice al Dialogo spirituale di Bonsignore Cacciaguerra (Padova 1740), per le cure di Gaetano Volpi, che lo intitolò Lettera esortatoria alla monastica perfezione. Per le monache illuminate di S. Maria Maddalena aveva tradotto invece in volgare, entro il 1551, la Regola di santo Agostino [...] posta nel libro delle sue Epistole, nell’epist. CIX [...] insieme con l’espositione di Ugone di S. Vittore (Venezia, G. Giolito, 1564; riedita a Bologna nel 1671).
Il «dotto e piissimo» (Dondi Dall’Orologio, 1805, p. 196) parroco e confessore di monache, che già aveva affidato la stampa del De castitate a un editore, Andrea Arrivabene, vicino al mondo degli eterodossi veneziani, si trovò in seguito implicato nelle vicende di alcune figure del dissenso religioso non proprio tra le minori che allora ospitasse la Terraferma veneta (Francesco Spiera, Pietro Speciale, Bartolomeo Fonzio) e altre, come Pietro Paolo Vergerio e Matteo Gribaldi Mofa, ebbe modo di incontrare. Il solo motivo di questi contatti sembra essere stato, in realtà, lo stretto legame che egli conservava con Cittadella, da cui proveniva la famiglia della madre: cittadellesi erano Spiera e Speciale; a Cittadella si era rifugiato sotto falso nome, esercitando la professione di maestro di grammatica, il minorita Fonzio, perseguitato dall’«inimicizia tenace [...] del Carafa» (Olivieri, 1966-1967b, p. 490).
A Speciale, suo quasi coetaneo e a lungo in stretti rapporti con un altro suo amico come Francesco Bonafede (Zille, 1971, pp. 43, 53), Scardeone fece posto nel De antiquitate... (cit., p. 247), tra i clari grammatici, rhetores, oratores, historici ac poetae Patavini. Scelta che può apparire singolare, se si considera che il biografato aveva trascorso otto anni nelle carceri veneziane, condannato dall’Inquisizione come seguace (ma il cittadellese sosteneva di esserne stato piuttosto, per quel che riguarda la giustificazione sola fide, un precursore) delle dottrine luterane, ma che è motivata dalla morte «sancta et pia» del grammatico dopo la sua abiura.
Assai più delicato, anche per la vasta eco europea che suscitò, il caso di Spiera. L’avvocato cittadellese era infatti imparentato con i Nardini, e proprio nella casa padovana di Giacomo Nardini, cugino di Scardeone, fu ospitato a partire dall’estate del 1548, dopo che aveva pubblicamente abiurato a Venezia e a Cittadella, nel tentativo di curare l’«orrenda disperazione» in cui era caduto per aver rinnegato Dio e di distoglierlo dalla convinzione che il suo gesto lo avrebbe condannato al fuoco eterno. A fargli visita, per cercare di confortarlo o per pura curiosità, si recarono ecclesiastici, come Vergerio (che proprio in seguito alla vicenda di Spiera maturò la definitiva decisione di abbandonare la Chiesa cattolica), giuristi, come Gribaldi Mofa, e studenti di diritto, medici, come Francesco Frigimelica, e tanti altri; tra questi Scardeone, che a quel suo – non solo per lui – ‘indemoniato’ affinis praticò un inutile esorcismo (Francisci Spierae [...] Historia, 1550, pp. 24, 129).
Nonostante queste frequentazioni, Scardeone rimase immune da qualsiasi sospetto di deviazioni eterodosse, come dimostra la svolta clamorosa che la sua carriera ecclesiastica conobbe nel 1556: il 30 luglio di quell’anno, per volontà diretta di Paolo IV che se ne era riservata la collazione, ottenne il canonicato nella cattedrale padovana resosi vacante per la morte di Antonio Roberti. Fu designazione del tutto inattesa, a suo dire, e che fu accolta «non sine magna amicorum et communi totius civitatis nostrae voluptate» (De antiquitate..., cit., p. 145). L’asserita «communis voluptas» della cittadinanza padovana non sembra però fosse condivisa, almeno da una parte della componente veneziana del capitolo. Homo novus, di modeste origini e di intensa religiosità, forse anche troppo legato a Carafa, non incontrò le simpatie proprio di tutti i patrizi veneziani che occupavano una metà degli stalli canonicali padovani; e con due di essi, Girolamo Diedo (che aveva aspirato al canonicato di Roberti; Dondi Dall’Orologio, 1805, p. 73) e Alvise Giustinian, si giunse nel 1562 allo scontro aperto.
Sempre nel 1562 l’età ormai avanzata lo indusse a rinunciare al titolo e alla prebenda canonicale, riservandoseli però in vita, in favore dell’amico padovano Giovanni Battista Rota. Nel 1567 prese parte attiva all’aspro scontro che oppose la componente padovana del capitolo a quella veneziana per l’elezione del nuovo primicerio. Sostenne, come gli altri padovani, la candidatura di Vincenzo Malfatti contro quella di Diedo, che aveva l’appoggio dei suoi colleghi veneziani, del vescovo cardinale Alvise Pisani, del legato pontificio a Venezia Giovanni Antonio Facchinetti e dello stesso pontefice Pio V, e come gli altri ribelli fu colpito dalla scomunica fulminata da Pisani. Alla fine, il partito padovano dovette piegarsi e Diedo fu il nuovo primicerio.
Raggiunto nel 1556 il culmine della sua carriera ecclesiastica, Scardeone di lì a poco si accinse anche a pubblicare l’opera sua maggiore, cui da anni attendeva: i De antiquitate urbis Patavii et claris civibus Patavinis libri tres, in quindecim classes distincti.
Ottenuto il privilegio di stampa da Venezia il 6 settembre 1557 (Bandini, 1991-1992, p. 298), continuò a limare il manoscritto almeno fino al settembre del 1559 (vi si registra infatti la scomparsa, sopraggiunta in quel mese, di Nicolò Trapolin; p. 249); chiuse in quello stesso 1559 l’epistola prefatoria, che indirizzò, non a caso, ad cives suos, e inviò quindi il testo a Basilea, a Nicolaus Episcopius iunior, che lo stampò, piuttosto scorrettamente, nel 1560. Opera orgogliosamente municipale, il De antiquitate ha la struttura di un dizionario biografico dei padovani illustri, dall’età romana al 1559, cui sono premessi alcuni libri che trattano della storia antica e della geografia del territorio, di monumenti epigrafici insigni (alcuni dei quali raccolti da Scardeone), dell’organizzazione religiosa dello spazio urbano (parrocchie, monasteri e conventi, ospedali, luoghi pii). Piuttosto paradossalmente per un’opera che sin dal titolo si presenta come antiquaria, è soprattutto la massa di notizie su personaggi contemporanei all’autore, o di poco a lui anteriori, che ne fa strumento tuttora valido. Dopo l’edizione basileese, il De antiquitate fu ristampato nel Settecento, a Leida, con correzioni e con l’aggiunta di una carta del Padovano (Lugduni Batavorum, sumptibus Petri van der Aa, s.d.); di qui l’anastatica oggi corrente (Sala Bolognese 1979).
Scardeone dettò il testamento il 16 novembre 1572, lasciando erede del suo cospicuo patrimonio il nipote Angelo, figlio del fratello Vincenzo (Archivio di Stato di Padova, Archivio notarile, 3568, cc. 361r-362r).
Si spense il 29 maggio 1574 e fu sepolto nella chiesa del monastero di S. Stefano.
Fonti e Bibl.: Abbondante documentazione inedita d’archivio e di biblioteca è messa a frutto nella tesi di laurea di M. Bandini, B. S. sacerdote e umanista padovano (1482-1574). Relazioni sociali e culturali, biografia, opere religiose, Università di Padova, a.a. 1991-92, che offre a oggi la migliore introduzione alla biografia di Scardeone e ai suoi scritti religiosi. Si vedano inoltre Francisci Spierae [...] Historia, [Basilea, I. Oporinus, 1550], passim; G.F. Tomasini, Illustrium virorum elogia iconibus exornata, Patavii 1630, pp. 128-132 (con ritratto); G. Salomonio, Agri Patavini inscriptiones sacrae et prophanae, Patavii 1696, pp. 258 s.; Id., Urbis Patavinae inscriptiones sacrae et prophanae, Patavii 1701, pp. 320, 435; N. Comneno Papadopoli, Historia Gymnasii Patavini, II, Venetiis 1726, p. 226; F.S. Dondi Dall’Orologio, Serie cronologico-istorica dei canonici di Padova, Padova 1805, pp. 196-198; G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, II, Padova, 1836, pp. 255-259; A. Olivieri, Il “catechismo” e la “fidei et doctrinae... ratio” di Bartolomeo Fonzio, eretico veneziano del Cinquecento, in Studi veneziani, IX (1966-1967a), pp. 339-452; Id., Una polemica ereticale nella Padova del Cinquecento. L’ “Epistola Camilli Cautii ad Bernardinum Scardonium” di Bartolomeo Fonzio, in Atti dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, Classe di scienze morali, lettere ed arti, CXXV (1966-1967b), pp. 491-535; E. Zille, Gli eretici di Cittadella nel Cinquecento, Cittadella 1971, pp. 41 s., 50, 59, 62 s., 73, 90, 96, 101-103, 173, 183 s., 187; P. Gios, L’attività pastorale del vescovo Pietro Barozzi a Padova (1487-1507), Padova 1977, p. 339; E. Menegazzo, Il ruzantiano ‘conte’ Pandin (ovvero un episodio di vita cinquecentesca padovana), in Medioevo e Rinascimento veneto con altri studi in onore di Lino Lazzarini, II, Padova 1979, pp. 83-134 (in partic. p. 105), poi in E. Menegazzo, Colonna, Folengo, Ruzante e Cornaro. Ricerche, testi e documenti, a cura di A. Canova, Roma-Padova 2001, pp. 369-424 (in partic. pp. 393 s.) è ricordata una lettera di elogio che Scardeone inviò all’amico sacerdote e canonista Giovanni Battista da Este, il quale la pubblicò, senza chiedere il permesso, nel suo Compendium..., Padova, G. Fabriano, 1549; S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino 1987, pp. 191, 305, 416 nota 88, 452 nota 89; M. Bandini, In margine ad Erasmo: B. S. e la “Chiesa purificata”, in Erasmo, Venezia e la cultura padana nel ’500, a cura di A. Olivieri, Rovigo 1995, pp. 99-104; D. Santarelli, Il papato di Paolo IV nella crisi politico-religiosa del Cinquecento. Le relazioni con la Repubblica di Venezia e l’atteggiamento nei confronti di Carlo V e Filippo II, Roma 2008, pp. 202-204; V. Vozza, «Bernardinus Franciscanus», teologo interlocutore dell’eterodosso Pietro Speciale, in Il Santo, LVII (2017), pp. 203-222.