MILON, Bernardino
– Figlio di Pietro e di Cecilia Voces, nacque il 4 sett. 1829 a Termini Imerese. La sua era una famiglia di militari di origine spagnola: ufficiali erano il padre e lo zio, Francesco, che fu l’ultimo governatore di Gaeta e ne firmò la resa nel febbraio 1861.
Il M. fu avviato alla carriera delle armi e il 29 ott. 1842 fu ammesso al Collegio militare di Napoli (la Nunziatella) come alunno a mezza piazza franca, cioè con la parziale esenzione delle spese di frequenza, un vantaggio che era di regola concesso alle famiglie dei militari. Alla Nunziatella seguì il corso completo previsto per gli ufficiali delle armi dotte, uscendone nell’ottobre 1849 come alunno alfiere, assegnato alla brigata artefici di artiglieria. Tenente l’anno successivo nella compagnia di artiglieria a cavallo, nel settembre 1852 fu trasferito al reggimento «Re Artiglieria», ottenendo due mesi dopo la nomina a primo tenente. Promosso capitano e tornato alla brigata artefici nel gennaio 1856, il 1° luglio 1860 fu nominato capitano di prima classe e poco dopo, il 2 agosto, inviato in Calabria come capo di stato maggiore della 3a brigata al comando del generale B. Marra.
All’arrivo a Reggio Calabria, che coincise con il primo sbarco di volontari garibaldini sul continente, il M. passò agli ordini del generale F. Briganti, nuovo comandante della brigata, che fu subito dopo dislocata fuori dalla città. Il 21 agosto fu accanto al generale nel tentativo, fallito, di riprendere Reggio ai garibaldini e di sbloccarne il castello. Il giorno successivo condusse otto compagnie del 1° reggimento di linea al campo di Piale e fu presente al successivo consiglio di guerra dei comandanti borbonici. L’indecisione paralizzante con cui si concluse il consiglio, unita alla spregiudicatezza e all’audacia dei comandanti garibaldini, portò all’apertura di trattative che, in sole ventiquattro ore, causarono il completo sbandamento e la ritirata delle truppe borboniche dalla Calabria. Il 23 ag. 1860 il M. decise di non seguire nella ritirata il generale Briganti, che il giorno stesso fu ucciso dalla truppa in rivolta. Rimase invece a Villa San Giovanni con la coscienza di aver fatto il proprio dovere fino all’ultimo, come scrisse anni dopo a L. Quandel. Questa decisione, determinata assai probabilmente dalla percezione del collasso dell’esercito borbonico e dell’impossibilità per la dinastia di conservare il trono, costituì il primo passo di un cammino che in poco più di un mese lo avrebbe visto tornare a Napoli, dove era arrivato G. Garibaldi, e lì chiedere di entrare a far parte dell’Esercito meridionale.
La richiesta fu accolta e un decreto dittatoriale del 22 ottobre lo nominò maggiore dello stato maggiore. Con tale grado e tale incarico il M., nel gennaio 1861, fu uno dei primi ufficiali ex borbonici a transitare nell’Esercito italiano, con il quale partecipò alle ultime fasi della campagna.
Dal novembre 1862 il M. fu a Firenze quale sottocapo di stato maggiore del V dipartimento militare e, dal febbraio 1863, come capo di stato maggiore della locale divisione militare – segno evidente delle sue riconosciute capacità. In occasione della guerra per la liberazione del Veneto, il 27 maggio 1866 fu nominato capo di stato maggiore della 10a divisione attiva; cinque giorni dopo passò con lo stesso incarico alla 17a divisione con la quale, agli ordini di R. Cadorna e assegnato all’armata del Po, partecipò all’ultima fase della guerra in Veneto e nel Friuli. Nel corso della campagna era stato promosso tenente colonnello, il 28 luglio, e con tale grado, al termine del conflitto, fu posto a capo dello stato maggiore della divisione territoriale di Udine appena costituita.
Dal 4 febbr. 1867 compare come addetto all’ufficio superiore dello stato maggiore a Firenze; nei due anni successivi, in relazione al nuovo incarico, effettuò prolungate ispezioni a Torino, Bari e Udine, per essere destinato dall’aprile 1868 alla divisione militare di Catanzaro per le operazioni di repressione del brigantaggio. Non si trattava più del grande brigantaggio dei primi anni Sessanta, ma di poche bande, formate complessivamente da meno di cento elementi, anche se ben radicate nel territorio e con una vasta rete di complici. La decadenza della legge Pica, il 31 dic. 1865, aveva portato a un aumento della loro attività, dato che briganti e complici si sentivano meno esposti alla repressione. Il comandante della zona militare della Calabria, il garibaldino generale G. Sacchi, accolse benissimo l’arrivo del M., che a maggio fu posto a capo di una zona militare comprendente i circondari di Rossano e Castrovillari.
Le consuete misure di contrasto al brigantaggio si rivelarono subito insufficienti: la rete di complicità fornita dai cosiddetti manutengoli, che aiutavano i briganti perché legati da vincoli di parentela o per interesse o per paura, non poteva essere spezzata per la mancanza di misure e di leggi eccezionali. Il M. ordinò allora di uccidere i sospetti fingendo incidenti o repressione di tentativi di fuga. Nel giro di un mese si verificarono una trentina di questi casi, «per ottenere il risultato, come di fatti è stato, di atterrire queste popolazioni» (come scrisse il M. in una lettera a G. Sacchi). Così nell’estate la banda Romanello si costituì e la banda Faccione si dissolse. Le proteste suscitate da tali sistemi fecero temporaneamente sospendere le misure extra legem. A dicembre il M. ricorse al divieto di portare viveri fuori dai centri abitati e al concentramento delle mandrie in pochi pascoli sorvegliati da mandriani armati, ma il brigantaggio non si fermò: nello stesso mese il M. rimase infortunato durante uno scontro con la banda di D. Palma, detto Straface, alla macchia dal 1848. Quando, nella primavera del 1869, minacciò di lasciare l’incarico, la società e le autorità gli chiesero di rimanere, ciò che il M. fece ripristinando i sistemi usati in precedenza. A luglio il capo banda Straface fu ucciso da un complice: a fine anno l’emergenza poté considerarsi conclusa, con 86 briganti uccisi, costituitisi o arrestati, con 200 manutengoli rimessi all’autorità giudiziaria e ben 86 morti per «incidenti» o durante tentativi di fuga.
Consapevole del fatto che il suo operato poteva rimuovere gli effetti ma non le cause del brigantaggio, il M. aveva eseguito il suo compito con l’approvazione e il sostegno di G. Sacchi. La sua partenza nel gennaio 1870 determinò un breve e limitato ritorno di fiamma del brigantaggio; ma bastò che a maggio il M. tornasse per spegnerne gli ultimi focolai.
Malgrado un’accesa campagna di stampa e le proteste alla Camera di un deputato calabrese nessuna inchiesta fu aperta sull’operato del M. che anzi «per i distinti servizi resi e le molte benemerenze acquisite nella repressione del brigantaggio nelle Province Meridionali» – come venne scritto nelle motivazioni – ricevette dapprima la croce di ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia e poi, addirittura, quella dell’Ordine militare di Savoia.
Nell’ottobre 1870 il M. fu destinato al comando del 12° reggimento fanteria «Casale», che resse fino al giugno 1872, quando fu incaricato delle funzioni di capo di stato maggiore del comando generale truppe in Sicilia, divenendone il capo effettivo dal 1° genn. 1874. Rimase a Palermo fino al 27 maggio 1877 quando, promosso maggiore generale, divenne comandante in seconda del corpo di stato maggiore e, subito dopo, fu nominato aiutante di campo onorario del re.
Con decreto del 31 marzo 1878 il M. fu nominato segretario generale del ministero della Guerra, incarico che svolse sotto i ministri G. Bruzzo, C. Bonelli e G. Mazè de la Roche, dedicandosi soprattutto al rafforzamento delle frontiere e al rinnovo dell’armamento, in particolare attraverso il potenziamento della fabbrica d’armi di Terni. Nel 1880 il collegio di Bari lo elesse deputato per la XIV legislatura, e il 27 luglio dello stesso anno fu nominato ministro della Guerra nel gabinetto Cairoli. Restò alla guida del dicastero troppo brevemente per esplicare a pieno l’attività che avrebbe voluto, anche se va detto che il M. tendeva più a un consolidamento dell’esercito che a un suo accrescimento di forza. Nell’ottobre del 1880 convocò il comitato di stato maggiore cui richiese un nuovo piano per le fortificazioni del Regno; poi presentò alla Camera tre progetti di legge relativi a modifiche sul reclutamento, alla creazione di una posizione sussidiaria per gli ufficiali e ad aumenti delle pensioni degli ufficiali che avevano partecipato alle campagne del 1848 e del 1849.
Gravemente malato di cuore, il M. non riuscì a fare di più, lasciando in pratica il ministero nelle mani del nuovo segretario generale L. Pelloux. Sperando in un improbabile miglioramento, non volle abbandonare il suo posto: era ancora in carica quando il 20 marzo 1881 morì a Roma.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio dell’Ufficio storico dello stato maggiore dell’Esercito, Fondo G. 13, b. 10/396; Illustrazione italiana, VII (1881), 11, p. 166; 13, pp. 202 s.; Atti parlamentari. Indice generale dell’attività parlamentare dei deputati. XIV legislatura (26 maggio 1880 al 25 sett. 1882), pp. 136, 1639, 1841, 1858, 1884, 4538 s.; L. Quandel, Una pagina di storia, Napoli 1900, pp. 244, 369, 375, 378-379, 381, 405, 408; M. Milani, La repressione dell’ultimo brigantaggio nelle Calabrie 1868-69, Pavia 1952; R. Selvaggi, Nomi e volti di un esercito dimenticato, Napoli 1990, p. 225; E. De Simone, Atterrite queste popolazioni. La repressione del brigantaggio in Calabria nel carteggio privato Sacchi-Milon (1868-1870), Cosenza 1994; Enc. biografica e bibliografica «Italiana», A. Malatesta, Ministri, deputati e senatori d’Italia dal 1848 al 1922, II, p. 204; Diz. del Risorgimento nazionale, III, s.v. (G. Badii).
P. Crociani