FORTEBRACCI, Bernardino
Figlio del conte di Montone Carlo di Andrea, detto Braccio da Montone, e presumibilmente della prima moglie di questo, Anna Colonna, nacque intorno al 1441 forse a Montone, feudo di famiglia, o forse a Perugia.
Nulla si conosce dell'adolescenza e della giovinezza del F., tuttavia dovette ben presto seguire l'esempio paterno e abbracciare risolutamente la carriera delle armi. Le prime notizie che in qualche modo attestano il suo status di condottiero e che consentono di documentare la presenza nella compagnia paterna risalgono comunque solo al 1463.
Nell'agosto di quell'anno, infatti, il Senato veneziano, intenzionato a porre fine al dispendioso conflitto con Trieste aveva deciso di inviare Carlo Fortebracci con un nutrito contingente di cavalleria a rinforzare il corpo di spedizione che stava da tempo assediando la città imperiale. Marin Sanuto e, forse sulla sua scorta, il Fabretti menzionano anche il F. tra gli uomini d'arme di minore levatura inviati successivamente a sostegno di Carlo. La notizia non trova tuttavia alcuna conferma nei registri delle deliberazioni del Senato che, anzi, ignorano del tutto il Fortebracci.
Nell'agosto del 1477, mentre il padre, in quel momento agli stipendi di Firenze, era stato dichiarato ribelle della Chiesa, il F. si trovò a difendere con 260 cavalli il castello avito di Montone dagli assalti delle truppe pontificie guidate da Federico da Montefeltro. Nonostante l'accanita resistenza, il 27 settembre dello stesso anno, impossibilitato a sostenere oltre l'assedio, e consigliato in questo anche da Roberto Malatesta, zio della seconda moglie del padre, Margherita, il F. dovette arrendersi insieme con questa e cedere a patti la rocca di famiglia a Sisto IV.
L'episodio, di per sé poco significativo, soprattutto se inserito nel più vasto e ambizioso programma pontificio di ricondurre alla propria obbedienza Firenze e i Medici, acquista nondimeno particolare rilievo se focalizzato nella successiva vicenda del casato dei Fortebracci. Perso infatti il feudo di famiglia, a Carlo Fortebracci e ai suoi figli non rimase che legarsi ancor più stabilmente alla Repubblica di Venezia e ai suoi disegni politico-militari.
Quando nel marzo del 1478 il governo veneziano ricondusse ai suoi servizi la compagnia di Carlo Fortebracci, forte di ben 700 cavalli, dovendo presidiare i confini orientali minacciati dalla rinnovata pressione turca, anche il F. fu nuovamente chiamato a servire sotto le insegne veneziane. Questi infatti, sebbene nell'aprile dello stesso anno fosse stato assoldato da Firenze, impegnata dopo la congiura dei Pazzi a fronteggiare i tentativi egemonici di Sisto IV, raggiunse sia pure con qualche ritardo il padre, accampato a Noale in attesa di muovere alla volta del Friuli.
Assolto questo compito, il F. fece ritorno in Toscana, distinguendosi in numerosi fatti d'arme e dando prova di notevole valore, ma al tempo stesso pure di un certo spirito vendicativo e di una compiaciuta inclinazione alla crudeltà e alla violenza.
Nel giugno del 1479 anche il padre Carlo, momentaneamente distolto dai confini orientali del Friuli, era stato inviato in Toscana a dar man forte all'esercito fiorentino. La Repubblica di Venezia infatti, dopo aver concluso il 25 gennaio dello stesso anno un'onerosa pace con i Turchi, era stata in grado di mettere al servizio della lega antipontificia tutto il peso della sua potenza militare. Lo sforzo di Carlo - e non è difficile scorgere in questo, anche se sotto le rinnovate insegne veneziane, una imbarazzante traccia dei disegni aviti - si mosse immediatamente e con qualche successo contro Perugia e i castelli circostanti. Dopo la morte di Carlo a Cortona, il Senato veneziano, il 28 giugno dello stesso anno, si affrettò ad assegnare al F., riconosciuto a pieno titolo capo della fazione braccesca, una condotta personale di 500 cavalli, e in aggiunta provvide a sovvenzionarlo con vari donativi, a motivo anche delle sue pessime condizioni economiche. Al tempo stesso pure i suoi due fratelli minori vennero inquadrati nei ranghi degli eserciti della Repubblica.
Nei mesi successivi il F. continuò le sue devastanti scorribande nei territori della Chiesa in Umbria, attirando su di sé le ire di Sisto IV. Non per questo il governo veneziano trascurò di sostenere e di appoggiare il suo condottiero. Anzi, nel trattato di pace del 13 marzo 1480 e nella lega con Sisto IV stipulata il 16 aprile, rifiutò risolutamente la clausola che avrebbe imposto l'allontanamento del F. da tutti i territori delle potenze aderenti, in quanto riconosciuto, insieme con l'altro condottiero veneziano Deifobo Anguillara, ribelle della Chiesa e perturbatore della pace d'Italia.
Scoppiata ai primi di maggio del 1482 la guerra tra la Repubblica di Venezia e il duca di Ferrara Ercole d'Este, il F. venne inviato in tutta fretta con le sue truppe ad assediare l'importante postazione strategica di Ficarolo, castello posto sulla riva del Po, munito di eccellenti fortificazioni e protetto da buone difese naturali. Grazie all'impegno del F., dopo più di quaranta giorni di assalti continui, il castello venne espugnato; tuttavia le fatiche dell'assedio e le febbri malariche che infestavano le paludose campagne del Polesine ebbero ragione della pur forte fibra del F., che rimase a lungo ammalato e pertanto estraneo agli sviluppi della campagna militare del luogotenente generale dell'esercito veneziano Roberto Sanseverino. L'anno successivo, mutatosi il quadro delle alleanze e attiratasi la Repubblica di Venezia gli strali e l'interdetto di Sisto IV, mentre le operazioni belliche si alternavano ai maneggi diplomatici con alterne fortune e la guerra si estendeva ormai dalla Lombardia al Ferrarese, il F. stazionò a lungo con la sua compagnia a Pontelagoscuro, proprio a ridosso del Po, senza comunque avere modo di distinguersi in alcun episodio di rilievo.
La pace di Bagnolo del 7 ag. 1484 pose fine ai combattimenti e comportò una sostanziale riduzione dei contingenti militari delle potenze firmatarie. Numerosi furono i condottieri veneziani licenziati e altrettanto numerosi quelli mantenuti in servizio a ranghi ridotti. Tra questi condottieri, tuttavia, non venne compreso il Fortebracci.
Nel frattempo al F. era stato ordinato di lasciare Padova, dove si era ritirato, e di raggiungere in tutta fretta gli alloggiamenti invernali in Friuli, dove si trattenne almeno fino alla primavera del 1487. Scoppiata nell'aprile di quell'anno la guerra con l'arciduca Sigismondo del Tirolo, venne infatti richiamato dalla guarnigione di Gradisca e invitato a unire le proprie forze a quelle degli altri contingenti veneziani sotto il comando del capitano generale Giulio Cesare da Varano. Caduta Rovereto e dopo che l'esercito era stato affidato a Roberto Sanseverino, il F. venne quindi inviato, insieme con Deifobo dell'Anguillara, e agli ordini dei provveditori C. Moro e D. Dolfin, a contrastare l'avanzata nemica che, forte di ben 4.000 uomini, si era ormai spinta nel territorio vicentino puntando verso Bassano Veneto.
La pace, siglata il 13 nov. 1487, comportò ancora una volta la riduzione degli effettivi della cavalleria veneta. Anche in questo caso, tuttavia, il F., a differenza di tanti altri condottieri, venne mantenuto dalla Repubblica ai propri stipendi, seppure con una condotta alquanto sfoltita nei ranghi. La situazione politica italiana, solo in apparenza tranquilla ma in realtà gravida di fermenti di guerra per i conflitti dinastici che opponevano la corte napoletana a quella milanese, coinvolgendo attraverso il gioco delle alleanze altri Stati e soprattutto la monarchia francese, consigliavano opportunamente le autorità veneziane a non sguarnire le proprie difese e particolarmente a conservare in piena efficienza un esercito stabile e soprattutto sottoposto a comandanti di provata fedeltà.
Amato e stimato dai suoi uomini come un ottimo soldato, è tuttavia difficile ritenerlo un grande capitano. L'unico episodio in cui il F. ebbe occasione di mettere in mostra le proprie capacità e anche il proprio senso tattico è legato all'avventura italiana di Carlo VIII, e in particolare alla ritirata dell'esercito francese e alla battaglia di Fornovo del 6 luglio 1495.
Al marchese di Mantova, Francesco Gonzaga, capitano generale dell'esercito veneziano e comandante supremo delle forze della Lega antifrancese, deciso sostenitore dello scontro in campo aperto, e al F. erano state affidate le due colonne principali della cavalleria veneziana. Il F., al comando del terzo "colonnello" (corpo) della cavalleria veneziana, quello costituito dalle migliori squadre d'attacco, concertando la propria azione con Rodolfo Gonzaga e Giovanni Francesco Sanseverino conte di Caiazzo, avrebbe dovuto guadare il fiume Taro e assalire la retroguardia francese in modo da chiuderla in una morsa insuperabile. Le impreviste difficoltà del guado costrinsero il Gonzaga - che tra l'altro aveva predisposto personalmente il piano di battaglia - ad attraversare il fiume, ingrossatosi improvvisamente, più a monte del convenuto e vanificarono il piano strategico in precedenza elaborato. Per di più non parteciparono ai combattimenti le forze di riserva, costituite in quel settore in gran parte dalle lance spezzate colleonesche, che aspettavano l'ordine di Rodolfo Gonzaga, ferito a morte nella battaglia.
La cavalleria del F. e di R. Gonzaga si trovò così costretta a reggere in condizioni di inferiorità numerica l'imprevista reazione francese guidata da G. de Foix. Solo l'accanita resistenza organizzata dal F. impedì ai Francesi di condurre a buon fine un massiccio tentativo di sfondamento in direzione del campo veneziano; anzi poco mancò che le forze della Lega riuscissero a catturare il re Carlo VIII.
Lo stesso F., in una lettera indirizzata alla Signoria (riportata negli Annali di D. Malipiero), ebbe in seguito a lamentarsi dell'esito della battaglia, giudicato affatto inferiore alle aspettative, avendo individuato la responsabilità del mancato successo nell'indisciplina delle milizie, e soprattutto degli stradioti albanesi al servizio di Venezia, maggiormente preoccupati di impadronirsi delle salmerie e del bottino di guerra dell'esercito francese che non del combattimento.
Nella mischia il F., che guidava personalmente la propria cavalleria, riportò gravi ferite, in particolare due alla testa a seguito di alcuni colpi di mazza e una alla gola.
Le cure sollecitamente prestategli - gli vennero peraltro estratte parecchie schegge ossee dal capo - sortirono effetti più che positivi. Anzi, a causa del forzato salasso subito, il F., a detta dei cronisti coevi, sembrò guarire definitivamente dal "morbo di San Lazzaro" che da tempo lo tormentava. Dopo poche settimane, completamente rimessosi dalle ferite subite, poteva camminare tranquillamente per Venezia.
A ricompensa del valore dispiegato in combattimento e soprattutto per gli indubbi meriti acquisiti, anche rispetto alla tiepidezza dimostrata invece da altri condottieri, anche di maggior fama, la condotta del F. venne portata da 460 a ben 1.000 cavalli, con l'aggiunta di una provvisione personale di 500 ducati l'anno.
A seguito di questo trattamento preferenziale il F. sperò di ottenere incarichi di maggiore responsabilità, soprattutto a livello decisionale. Notevole fu quindi la sua delusione, e non mancò occasione di manifestarla, anche alquanto rumorosamente, quando si vide preferiti nei consigli segreti il conte di Caiazzo e gli altri sanseverineschi, che tra l'altro neppure si trovavano direttamente agli stipendi della Serenissima.
Tuttavia il governo veneziano si guardò bene dal privarsi, anche se solo temporaneamente, della presenza nelle proprie guarnigioni ai confini con la Lombardia di uno dei propri condottieri ormai considerato permanente a tutti gli effetti e di rango superiore. Il 7 ag. 1496, il 4 apr. e il 27 sett. 1497, il 22 giugno 1498, il Senato infatti si oppose fermamente alle reiterate proposte di inviare in aiuto di Pisa, nuovamente minacciata da Firenze, il F. con la sua compagnia forte di 1.000 cavalli, corrispondenti a 250 uomini d'arme, e con la sovvenzione di 6.000 ducati. In suo luogo, anche per dare all'impresa un carattere di basso profilo ed evitare così di allarmare inopportunamente i confederati della Lega italica, preoccupati di un possibile disegno espansionistico veneziano, e pure per non dissanguare ulteriormente le già mal ridotte finanze dello Stato, vennero invece comandati il fratello Braccio e altri condottieri minori, alla testa, comunque, di compagnie alquanto ridotte. Analogamente, anche se con diverse e maggiormente fondate motivazioni, il 10 luglio del 1497 fu respinto, sempre dal Senato, il progetto di distaccare il F. in Friuli a contrastare le pretese imperiali su Gorizia. Il F. venne pertanto trattenuto in prossimità dei confini occidentali, come meglio sembravano suggerire la rinnovata minaccia francese e l'ambiguo comportamento del duca di Milano.
Il 30 genn. 1497 il Senato, proprio su invito di Ludovico il Moro, ordinò a Niccolò Orsini, conte di Pitigliano, governatore generale dell'esercito veneziano, e al F. di attraversare l'Oglio e di entrare alla testa delle rispettive compagnie in territorio milanese. Nel marzo dello stesso anno quindi tanto l'Orsini quanto il F. si acquartieravano in Alessandria.
Agli inizi del 1498 il F. si ritrovò in precarie condizioni di salute, afflitto questa volta dal "mal francese". Il 19 giugno, anche se non del tutto guarito, almeno a detta del Sanuto, riuscì nondimeno a recarsi a Venezia, su espresso desiderio della Signoria che probabilmente desiderava accertarsi di persona del suo stato. Nell'agosto dello stesso anno, mentre si annunciavano in tutta la Lombardia nuovi preparativi di guerra, il F. fu comunque in grado di fare la mostra della propria compagnia e alla fine di settembre riuscì finalmente a raggiungere le rive dell'Oglio, come gli era stato ordinato. Perdurando tuttavia la situazione di stallo, agli inizi di dicembre ottenne di poter ritornare ai propri alloggiamenti d'inverno a Lonigo.
Le condizioni di salute del F. non dovevano essere delle migliori. Convocato a Venezia ai primi di luglio dell'anno successivo, nonostante le sue assicurazioni non lasciò una buona impressione: "Di la persona è mal conditionato, et ha sula faza quasi il mal de san Lazaro" riportò nei Diarii il Sanuto, probabile testimone oculare dell'episodio.
Anche in questo caso il F. riuscì a convincere le autorità veneziane di essere in grado di continuare a esercitare il mestiere delle armi. Ai primi d'agosto del 1499, dando così piena esecuzione al trattato di Blois, il governo veneziano, dopo aver licenziato l'ambasciatore milanese, aprì le ostilità contro il duca di Milano e diede ordine ai propri provveditori di far muovere l'esercito in territorio milanese. Al comando del secondo colonnello venne posto il F., forte della sua compagnia di 1.000 cavalli. Il 10 settembre le truppe veneziane, e tra queste anche quelle del F., entravano in Cremona a completamento della conquista della Lombardia e conformemente agli accordi stipulati col re di Francia Luigi XII.
Ritornato Ludovico a Milano ai primi di febbraio dell'anno successivo e approssimandosi nuovamente avvisaglie di guerra, il F. venne richiamato in tutta fretta dai propri quartieri d'inverno e sollecitato a rinforzare con parte della propria compagnia la ridotta guarnigione già lasciata a presidio della città.
Nell'estate del 1501, quando il conte di Pitigliano venne inviato in Friuli a motivo della rinnovata minaccia turca ai confini orientali, al F. fu ordinato di cavalcare con tutta la sua compagnia verso la Ghiara d'Adda, rimasta sguarnita proprio a causa della partenza dello stesso conte.
Il 25 sett. 1502 il Senato approvò l'aggregazione alla sua condotta dei resti delle vecchie squadre di Bartolomeo Colleoni e del Gattamelata.
Nel novembre del 1505 venne discussa in Senato la proposta della Signoria di ridurre il F. "a provisione", di decretarne cioè il ritiro dal servizio attivo, e di assegnare la sua condotta ad altro capitano, soprattutto a causa dell'età avanzata.
Pur accantonando la decisione, nel febbraio del 1506 il Senato invitò il F., di stanza a Lonigo, a licenziare gli uomini troppo vecchi e male in arnese, non più atti a sostenere il mestiere delle armi, e i troppo giovani e inesperti, non ancora in grado di dare sufficienti garanzie di abilità e capacità, e a sostituire tanto gli uni quanto gli altri con elementi che rispettassero la tradizione e l'onore della fazione braccesca e sempre nei limiti della condotta assegnatagli dopo Fornovo. Singolare dimostrazione di riconoscenza nei confronti di un proprio condottiero da parte di un'autorità che per molto meno non aveva esitato a liberarsi di capitani ben più famosi.
Nel marzo dell'anno successivo, 50 uomini d'arme vennero distaccati dalla condotta del F. e assegnati formalmente al figlio Carlo "stando però sotto la disciplina del padre, aziò che cum questo principio, assuefatendosi ale arme abia a imitar le vestigie di suoi progenitori, homeni famosissimi ne l'arte militare".
In territorio cremonese il F. si trattenne almeno fino agli inizi di febbraio del 1508, quando venne richiamato a Bussolengo dal provveditore veneziano Giorgio Emo, preoccupato dei movimenti dell'esercito imperiale in direzione del territorio vicentino.
Spirata la tregua con l'imperatore e approssimandosi ormai lo scontro con gli Stati aderenti alla Lega di Cambrai, nei primi giorni di febbraio del 1509 il F. ritornò a presidiare Cremona.
Il ruolo da lui ricoperto in queste prime fasi di guerra fu certamente di secondo piano rispetto al capitano generale Niccolò Orsini e al governatore generale Bartolomeo d'Alviano. Va ricordato tuttavia che la condotta del F., sempre di 1.000 cavalli, comprendendo anche la compagnia formalmente assegnata al figlio Carlo, era, rispetto alla quantità, inferiore solo a quella del conte di Pitigliano, forte di 1.500 cavalli, e della medesima consistenza numerica di quella dell'Alviano.
A questi due venne affidato il comando dell'esercito. Conseguentemente, anche la cavalleria del F. fu riunita alle restanti forze veneziane nel campo trincerato di Pontevico e messa a disposizione dei disegni strategici dei due comandanti generali.
Il F. partecipò così alla conquista e al sacco di Treviglio, disponendosi successivamente, secondo gli ordini ricevuti, in posizione di retroguardia e di rincalzo alle forze di fanteria lungo la frontiera di Cassano d'Adda. La divergenza di opinioni tra l'Alviano e il Pitigliano e più ancora il mancato coordinamento tra le loro forze provocarono la disfatta di Agnadello del 14 maggio 1509. Tuttavia, una qualche responsabilità nella sconfitta sembrerebbe da addossarsi anche al Fortebracci.
In una sua relazione in Collegio, infatti, il provveditore delle fanterie veneziane Giovanni Diedo accusò senza mezzi termini il F. di avere mancato al proprio dovere. Per di più il provveditore generale Andrea Gritti, in un dispaccio indirizzato al Senato, ma del febbraio dell'anno successivo, imputò, anche se in termini alquanto generici, al F. l'incapacità di governare la propria compagnia. L'accusa del Diedo, riferita dal Sanuto nei suoi Diarii, trova inoltre conferma nel resoconto della stessa battaglia, esposto sempre in Collegio dall'Alviano in persona, una volta ritornato dalla prigionia in Francia. In ogni caso nei confronti del F. non venne preso alcun provvedimento punitivo.
È da aggiungere tuttavia un episodio riferito dal medesimo A. Gritti, protagonista non certo di secondo piano della guerra di Cambrai, secondo il quale il F. rifiutò di passare all'esercito di Massimiliano benché questi minacciasse di confiscare i suoi beni.
Dopo la sconfitta di Agnadello, che significò per Venezia la perdita della maggior parte dello Stato da Terra, il F. prese parte ai più importanti fatti d'arme di quell'anno, senza aver comunque occasione di distinguersi in maniera particolare.
Ai primi di febbraio del 1510, lasciata Padova, ormai stabilmente riconquistata dalle armi veneziane, il F. si trasferì nel campo dell'esercito a San Bonifacio. Le gravi condizioni di salute del conte di Pitigliano ne richiedevano infatti la sostituzione e le autorità veneziane sembravano intenzionate ad accordare la loro fiducia proprio al F. e a promuoverlo governatore generale, almeno fin tanto che il Pitigliano si fosse ristabilito. Il provveditore generale Andrea Gritti, che faceva maggiormente affidamento su Lucio Malvezzi, pur lodando la fedeltà e la devozione del F., ne sconsigliò tuttavia la nomina, propose di ridurlo a "provisione" e di affidare ad altri la sua condotta. Prevalse l'opinione contraria di Pietro Marcello: il 16 maggio il Consiglio dei dieci ordinò al F. di levarsi con la sua compagnia, rinforzata da 500 fanti, e di muovere alla volta del Polesine, da dove poi si diresse a Bassano. E il 16 giugno venne discussa in Senato la proposta di affidargli il comando generale dell'esercito veneziano.
Probabilmente su pressione dello stesso Gritti, e per iniziativa dei savi del Consiglio e di quelli di Terraferma, la nomina di governatore generale fu invece conferita, anche se con margine ridottissimo, proprio al Malvezzi.
Risulta pertanto estremamente difficile conciliare il credito di cui continuava a godere ancora il F. presso il governo veneziano e soprattutto in Senato con le informazioni circa le sue pessime condizioni di salute e la sua effettiva utilità che il Gritti continuava a trasmettere a Venezia. Soprattutto contrastano con queste informazioni i ripetuti consigli di carattere tattico e strategico dei quali il F. venne espressamente richiesto in più occasioni dagli stessi provveditori veneziani preposti all'esercito, e più ancora l'effettivo accoglimento dei pareri e dei suggerimenti offerti.
Nonostante tutto, comunque, il F. rimase fedele alla Repubblica e continuò a servire con l'impegno e la dedizione di cui aveva già dato ampiamente prova.
Dopo aver preso parte ai primi di ottobre all'assalto di Castel Tesino, il F. si trasferì nello stesso mese al campo di Montagnana, rimanendovi di presidio almeno fino alla primavera dell'anno successivo, mentre il governatore generale e il provveditore Gritti si portavano a Badia Polesine, altra roccaforte veneziana sulle rive del Po, a tentare con scarso successo l'impresa di Ferrara.
Il 4 sett. 1511, mentre il F. si trovava di stanza a Padova, il Senato, a seguito della morte del Malvezzi, lo elevò al grado di vicegovernatore generale in attesa dell'arrivo del futuro comandante in capo G.P. Baglioni.
Il F. conservò il grado di vicegovernatore solamente per poco più di un mese. Il 19 ottobre infatti il Baglioni aveva già fatto il suo ingresso in Padova. Nonostante tra i due non corresse certamente buon sangue a causa della profonda inimicizia che divideva le famiglie dei Fortebracci e dei Baglioni, il F. non solo prestò immediata obbedienza al nuovo governatore, ma pure si rifiutò di partecipare a una congiura organizzata qualche giorno dopo da alcuni tra i più importanti condottieri dell'esercito veneziano. Questi - e tra loro vi era forse lo stesso G. Manfron - infatti non gradivano assolutamente la presenza del Baglioni e si erano accordati per ucciderlo.
Nonostante i reiterati tentativi dei provveditori veneziani - tra i quali si distinse particolarmente ancora una volta il Gritti - di farlo ridurre "a provisione", allettandolo con sostanziosi donativi e la sicurezza di una posizione di rilievo per il figlio Carlo, il F. con commovente ostinazione rifiutò di lasciare le armi. Dopo aver trascorso buona parte dell'inverno a Vicenza, ai primi di febbraio del 1512 raggiunse il governatore generale nel campo di Bonavigo. Dallo stesso Baglioni, chiamato in tutta fretta a difendere Brescia da qualche giorno ritornata in mani veneziane, venne quindi lasciato insieme col figlio Carlo alla custodia del ponte di barche sull'Adige, estrema linea difensiva dell'esercito della Repubblica, con 200 lance e 600 fanti. Avendo però inteso che l'esercito francese si apprestava a passare il Po, preoccupato che il ponte potesse cadere in mano del nemico, che avrebbe avuto quindi la strada libera fino a Brescia, l'11 febbraio, senza che il governatore generale ne fosse a conoscenza, lo fece smontare, e per maggiore sicurezza trasferire su carri a Montagnana.
L'iniziativa del F. venne variamente giudicata a Venezia. Da un lato fu infatti approvata senza riserve, in quanto ritenuta sufficiente a far ritardare l'avanzata francese su Brescia e a permettere così al Baglioni di organizzare meglio la difesa della città; caduta tuttavia Brescia in mani francesi il 19 febbraio, fu aspramente criticata come inopportuna e affrettata, dal momento che la mancanza del ponte sembrò impedire una rapida ed efficace controffensiva veneziana. Vi fu anche chi tuttavia, e colse meglio nel segno, censurò il comportamento del Baglioni, troppo precipitoso nel chiudersi in Brescia, per non aver unito le sue forze a quelle del F. e assalito congiuntamente i Francesi proprio nel momento in cui questi si apprestavano a passare il Po, scompaginati e stanchi della lunga marcia.
Dopo la stipulazione della tregua del 6 aprile, il F. venne acquartierato con la sua condotta nei vari campi che di volta in volta venivano approntati dall'esercito veneziano, senza comunque aver occasione di rivestire ruoli di primo piano o di distinguersi in fatti d'arme di un qualche rilievo. Solo il 16 febbraio 1513 il Consiglio dei dieci diede facoltà al Collegio di predisporre la riduzione a "provisione" del F., come egli stesso aveva richiesto.
Il 18 febbraio venne quindi approvata in Senato la proposta di riorganizzare su nuove basi quella che era stata la sua compagnia. I migliori uomini d'arme vennero aggregati alla condotta personale di suo figlio Carlo. Al F., per suo onorevole sostentamento, fu assegnata a sua discrezione una casa appartenente ai ribelli antiveneziani a Padova o a Vicenza e in aggiunta altrettanti beni di ribelli, sempre in territorio padovano ovvero vicentino, che gli assicurassero almeno una rendita di 600 ducati annui.
Nondimeno non era ancora venuto per il F. il momento di lasciare del tutto il servizio attivo. Ai primi di giugno dello stesso anno, mentre si trovava a Padova, fu infatti inviato a Vicenza al fine di collaborare alla difesa della città minacciata dal nemico. Alla fine di ottobre sempre del 1513, nonostante portasse ancora il lutto per la morte del figlio Carlo, avvenuta in battaglia contro gli Svizzeri sotto Milano, si trasferì a Treviso con il grado di governatore generale di tutte le genti veneziane, sia di fanteria che di cavalleria, acquartierate in quella città. E negli anni successivi ebbe in più occasioni modo di servire le autorità veneziane con consigli e suggerimenti e il suo parere venne spesso sollecitato e tenuto in debita considerazione, come ad esempio quando nel maggio del 1521 venne richiesto di presentare una propria relazione scritta sulle nuove fortificazioni da erigersi in Padova.
Nel frattempo anche l'altro figlio Oddo aveva intrapreso il mestiere delle armi nell'esercito della Repubblica, contribuendo così da parte sua a rinvigorire la tradizione braccesca di fedeltà e di attaccamento alle insegne veneziane, e, giunto in età adatta, era riuscito a ottenere il comando di una condotta personale di cinquanta cavalli. Nell'ottobre del 1529 anche Oddo trovò la morte in battaglia.
Il F. morì a Padova il 21 maggio del 1532. Alla vedova, della quale non si conosce il casato, né l'anno di matrimonio, comunque databile agli anni dell'avanzata maturità del F., il Consiglio dei dieci concesse una rendita vitalizia di 300 ducati annui.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Capi del Consiglio dei dieci. Lettere di rettori e altre cariche, b. 80, Padova, n. 208; b. 297, Lettere dei provveditori generali, 25 ottobre 1511; b. 307, Lettere di condottieri e gente d'armi, 1511, 23 ottobre; 1514, 2 settembre; Ibid., Consiglio dei dieci, Deliberazioni miste, reg. 25, c. 140v; Ibid., Collegio, Lettere segrete 1484-1485, cc. 3v, 91v; Ibid., Commemoriali, reg. XIV, cc. 9r, 40v; reg. 16, cc. 155v-159v; Ibid., Miscellanea codici, I, Storia veneta, 65, Cronica veneta1381-1545, cc. 159v, 162r, 168rv; Ibid., 66, Cronaca Savina, c. 212r; Ibid., Provveditori da Terra e da Mar, reg. 24, c. 118v; reg. 25, cc. 265v, 268r, 270rv, 286r; reg. 26, cc. 299v, 310v; reg. 27, cc. 30v-31r, 119v, 185rv, 247r, 285v; reg. 28, cc. 8v, 211rv, 216v, 221, 260r; reg. 29, c. 322r; reg. 30, cc. 13v, 37r, 42v, 122rv, 150r, 169rv, 214v, 216v, 222v, 243r, 256r, 264r, 272r; Ibid., Senato, Deliberazioni, Secreti, reg. 21, cc. 182v, 184r, 208; reg. 27, c. 115rv; reg. 29, cc. 26r-27r, 45v; reg. 32, cc. 96rv, 123v-124r, 134v, 172v; reg. 35, cc. 135v-136r, 144r; reg. 36, cc. 109v, 123r, 142v-143r, 162v, 167r; reg. 37, cc. 22v, 37v, 45v, 53r, 55r, 56; reg. 38, cc. 8v, 9r, 132r, 176r; reg. 40, cc. 130v, 143rv; reg. 41, cc. 6rv, 68r; reg. 43, cc. 15v-16r, 55v, 77v-78r, 173v-174, 177v-178r; reg. 44, cc. 58r, 61v; reg. 45, cc. 98v-99r; Ibid., Senato, Deliberazioni, Terra, reg. 3, c. 168v; reg. 11, cc. 42v-43r; reg. 14, cc. 109v-110r; reg. 18, c. 64r; reg. 19, c. 90; C. da Soldo, Istoria bresciana, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XXI, Mediolani 1732, col. 870; M. Sanuto, Vita de' duchi di Venezia, ibid., XXII, ibid. 1733, coll. 1128, 1178, 1206, 1219, 1229; A. Allegretti, Diari sanesi, ibid., XXIII, ibid. 1733, coll. 786, 788; P. Bembo, Le istorie veneziane, Venezia 1718, pp. 64, 68, 109 s., 124, 433; M.A. Sabellico, Historiae rerum Venetarum ab urbe condita, Venezia 1718, pp. 805, 845; D. Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di T. Gar - A. Sagredo, in Arch. stor. ital., s. 1, t. VII (1843-1844), pt. 1, pp. 349, 356, 358, 360 s., 367, 372, 381, 440, 504, 506; D. Barbaro, Storia veneziana, ibid., pt. 2, p. 1012; Cronaca di Perugia dal 1309 al 1491 nota col nome di Diario del Graziani, a cura di A. Fabretti, ibid., t. XVI (1850-1851), pt. 1, pp. 493, 528, 592 s.; pt. 2, p. 586; F. Materazzo, Cronaca della città di Perugia dal 1492 al 1503, a cura di A. Fabretti, ibid., pp. 65 ss., 92; Antonio di Andrea di ser Angiolo dei Veghi…, Cronaca perugina (Supplemento sesto al Graziani), ibid., pp. 650 s.; M. Sanuto, Diarii, I-LVI, Venezia 1879-1901, ad Indicem; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, V, Venezia 1901, pp. 7, 36; Cronaca di anonimo veronese, a cura di G. Soranzo, Venezia 1915, pp. 101, 230, 327, 330, 334, 341, 348, 376, 530; G. Priuli, Diari, a cura di A. Segre, I, Città di Castello 1921, pp. 77, 102; Lorenzo de' Medici, Lettere, II, 1474-1478, a cura di R. Fubini, Firenze 1977, p. 376; IV, 1479-1480, a cura di N. Rubinstein, ibid. 1981, pp. 114, 385; V, 1480-1481, a cura di M. Mallett, ibid. 1989, pp. 10, 283; A. Fabretti, Biografie dei capitani venturieri dell'Umbria, II, Montepulciano 1842, pp. 309, 323, 329, 333; III, ibid. 1844, pp. 30, 51; Id., Note e documenti che servono ad illustrare le biografie dei capitani venturieri dell'Umbria, ibid. 1842, p. 48; E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, Torino 1845, II, pp. 287, 307; III, p. 303; A. Luzio - R. Renier, Francesco Gonzaga alla battaglia di Fornovo, in Arch. stor. ital., s. 5, VI (1890), pp. 205, 220; A. De Pellegrini, Gente d'arme della Repubblica di Venezia, Udine 1915, p. 7; F.T. Zanchi, La prima guerra di Massimiliano contro Venezia. Giorgio Emo in Val Lagarina (1507-1508), a cura di C. Emo, Padova 1916, pp. 36, 39; L. v. Pastor, Storia dei papi…, II, Roma 1932, pp. 502 s., 505; P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, pp. 294, 299, 344, 346, 349, 351; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IV, Venezia 1973, p. 276; V, ibid. 1974, pp. 57 s., 79; M. Mallett, Signori e mercenari. La guerra nell'Italia del Rinascimento, Bologna 1983, pp. 80, 124 s., 203, 248 ss.; H. Zug Tucci, Venezia e i prigionieri di guerra nel Medioevo, in Studi veneziani, n.s., XIV (1987), pp. 26, 70 s.; M. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989, pp. 62, 68 ss., 76 s., 79, 82, 94, 152, 158, 247, 259, 349.