CURTE, Bernardino de
Originario di Pavia, figlio di Andeardo, visse nel ducato di Milano nella seconda metà del sec. XV e nei primi anni di quello successivo. La prima notizia a lui relativa è del 1481, quando compose la relatio, in base alla quale il tortonese Enrico di Montemerlo venne confermato nella carica di "collateralis ducis in curia potestatis". Era dunque già allora una personalità di rilievo nella amministrazione dello Stato sforzesco. Nel 1487, e poi di nuovo nel 1492, quando era commissario "di qua del Po", fu governatore di Alessandria.
Durante il suo governatorato fu compiuto il rifacimento degli archi del ponte sul Tanaro e furono anche lastricate strade e condotta acqua dal Bormida, cosicché i cittadini posero una lapide per ricordare queste sue benemerenze. Il 15 febbr. 1494 il C., definito "insignis armorum ductor" e "prefectus classis ducalis", diveniva commissario di Cremona. Nel gennaio dell'anno successivo egli era nominato, a distanza di un giorno, castellano del castello di Porta Giovia e membro del Consiglio segreto ducale. Come castellano, nell'agosto del medesimo anno progettò il completamento della Rocchetta. Quando nel 1499 i Francesi attaccarono il ducato, Lodovico il Moro provvide a munire il castello in modo che potesse resistere per qualche mese. Fu fornito di oltre cento pezzi di artiglieria e di bombarde, di fanti, di cavalleria leggera, di 600 provisionati e di 500 uomini d'arme; inoltre nella sala delle Balle furono raccolte 30.000 misure di grano e una grande quantità di carne salata.
Allorché decise di lasciare Milano e il ducato, il Moro sapeva che la città sarebbe caduta in breve nelle mani dei Francesi, ma affidando il castello al C. pensava che questo avrebbe resistito tanto a lungo da permettergli di inviare rinforzi. Con il C., che godeva la fiducia piena del Moro tanto che questi non volle prenderne con sé i figli per garantirsi la sua fedeltà, rimasero oltre al fratello Gian Giacomo, altri fedeli del duca, che partì il 2 settembre. Il compito del C. non era quello di difendere la città, né quello di impedirle di arrendersi, ma soltanto quello di custodire il castello almeno per un mese, poiché entro quel termine il Moro contava di recare il soccorso di 30.000 tedeschi. Secondo il Corio, i mesi entro cui avrebbe dovuto ricevere i rinforzi sarebbero stati non uno ma tre e fra lui e lo Sforza erano stati concordati un numero notevole di segnali, che avrebbero dovuto manifestare fuori del castello le sue necessità.
Il 4 settembre l'esercito francese, capeggiato da Giangiacomo Trivulzio, si accampava nei giardini del castello e il giorno stesso una delegazione del governo provvisorio invitava il C. a cedere la fortezza, affinché la città non fosse esposta a danneggiamenti o rappresaglie.
Si ricordava inoltre al castellano che aspettare soccorso dalla Germanià era assolutamente utopistico, anche perché Como era in potere dei Francesi. Vivamente interessato ad avere il castello per accordo, il 6 il Trivulzio inviò al C. un emissario (N. Chiozzo), per illustrargli che se egli non avesse ceduto subito la rocca e fosse iniziato il bombardamento, i difensori non avrebbero più potuto giovarsi della benignità degli assedianti, ma sarebbero stati, una volta arresisi, passati a fil di spada. Aveva tempo due giorni per decidere. Durante questa tregua però gli assediati si impadronirono di alcuni francesi, che si erano avventurati troppo vicino alla fortezza, e inoltre il C. mise in salvo, facendoli trasportare presso Francesco Bernardino Visconti, beni personali propri e del duca.
Il C. si dimostrava propenso a cedere il castello, ma era ancora indeciso sulla data in cui farlo, cosicché i Francesi si accinsero al bombardamento. Il Trivulzio emanò il divieto di avvicinarsi a più di 200 braccia dalla fortezza e introdusse nella città io.000 fanti; si aspettavano inoltre alcune grosse bombarde. Opinione corrente nella città era però che tali preparativi non fossero fatti che per salvaguardare in qualche modo l'onore del castellano, già impegnatosi alla resa. Tuttavia fu il castello a dare inizio al bombardamento e il 13 il C. ricevette un'altra ambasceria dal governo provvisorio, che lo esortava ad arrendersi.
La sera di quel giorno fu firmato un accordo preliminare, secondo cui erano concessi al C., da quella data, dodici giorni, durante i quali egli avrebbe dovuto far sapere al Moro che si sarebbe arreso se non avesse ricevuto rinforzi entro quindici giorni. In compenso sarebbero stati garantiti la vita e i beni degli assediati, pensioni e ricompense ai difensori.
II giorno dopo le trattative proseguirono. Il C. non era ancora d'accordo sul lasso di tempo che doveva trascorrere prima della capitolazione; domandava inoltre ulteriori vantaggi per sé e per gli altri difensori, fra cui la restituzione di due castelli, cedutigli dallo Sforza ed occupati dai nipoti del conte Dal Verme. Si tragò anche il giorno seguente e il 17 sett. 1499 il C. firmò la capitolazione.
Era così concluso l'unico episodio della vita che fa del C. un personaggio storico, anche se negativo. Infatti alla luce degli avvenimenti successivi non è chi non veda che la resistenza del C. non sarebbe stata che un inutile sacrificio. Non si rimprovera infatti al C. di non avere difeso il castello, mantenendo fede ad un uomo ormai spazzato via dalla storia, ma di aver lucrato, mercanteggiando per ottenere il massimo, sul suo tradimento. Si calcolò che la resa fruttò al C. più di 150.000 ducati. Si impadronì infatti, secondo gli accordi, di quel che restava dei 30.000 ducati. lasciati dal Moro, dei beni della duchessa e di tutto il contenuto del castello, ad esclusione del materiale militare e degli "appartamenti da lecto", destinati al re; recuperò inoltre i castelli dei Dal Verme, fra cui la rocca di Arese.Disprezzato da tutti, francesi o italiani che fossero, il C. rimase al servizio dei nuovi padroni e alla fine di settembre fu posto al comando di cento lance. Dell'ottobre è un documento con cui il re gli concede una casa già appartenuta a Giovanni Sforza.
Nel corso dell'effimero ritorno del Moro, l'anno seguente, questi gli confiscò, donandola poi a Niccolò della Croce, una tenuta nel Pavese, detta della Torre dei Negri, che gli era stata donata dal duca stesso; inoltre la sua casa di Milano fu messa a sacco e due suoi figli furono arrestati e condotti nel castello di Monza. Tornati i Francesi nel ducato il C. si ridusse ad Asti, dove riuscì a farsi dimenticare e dove probabilmente morì in data imprecisata.
Non dimenticarono però il castellano traditore né i cronisti, né i poeti: biasimarono la sua azione, oltre al Prato e al Grumello, anche Lancino Curti (Epigrammaton libri decem, Mediolani 1521, p. 107), A. Cammelli detto il Pistoia (I sonetti, a cura di R. Renier, Torino-Firenze-Roma 1888, p. 383) e l'Ariosto (Orlando furioso, a cura di N. Zingarelli, Milano 1954, p. 356).
Fonti e Bibl.: G. A. Prato, Storia di Milano, in Arch. stor. ital., III (1842), pp. 222, 225, 239; A. Grumello, Cronicha, a cura di G. Müller, I, Milano 1856, pp. 33-36; G. Ghilini, Annali di Alessandria, Alessandria 1803. pp. 65, 72, 91; Gli uffici del dominio sforzesco, a cura di C. Santoro, Milano 1948, pp. XXXII, 25, 143, 408, 593; B. Corio, Storia di Milano a cura di A. Morisi Guerra, II, Torino 1978, pp. 1624. s.; F. Calvi, Il castello di Porta Giovia..., in Arch. stor. lomb., XIII (1886), pp. 258, 261, 263; L. Beltrarni, Il castello di Milano, Milano 1894, pp. 486, 492 ss., 499, 502, 506, 515, 518-23, 525 ss.; L.-G. Pélissier, Louis XII et Ludovic Sforza, II, Paris 1897, ad Indicem; A. Giulini, Bianca Sanseverino Sforza..., in Arch. stor. lomb., s. 4, XVIII (1912), pp. 241, 251; L.-G. Pélissier, Documents relatifs au règne de Louis XII..., Montpellier 1912, p. 96; G. P. Bognetti, La città sotto i Francesi, in Storia di Milano, VIII, Milano 1957, pp. 9, 23 s.