Daniello, Bernardino
Letterato lucchese (n. ai primi del sec. XVI, m. a Padova nel 1565), autore di un ampio commento alla Commedia, apparso postumo a Venezia nel 1568 a cura di un oscuro editore, Pietro da Fino, che dedicò il libro a un suo congiunto, Giovanni da Fino. Il commento non fu ristampato. Poiché varie ristampe si ebbero, dopo il 1568, di altri commenti, bisogna credere che quello del Daniello fosse di proposito scartato perché non corrispondente ai gusti dei lettori. L'ipotesi, proposta come un dato di fatto, che il commento fosse reprensibile per motivi religiosi (" Civiltà cattolica " LXXXVI [1935] 41-44), non regge. I passi del commento chiamati in causa nulla hanno a che vedere con la riforma protestante, e comunque sarebbero stati agevolmente soppressi, come in ogni opera analoga, da chi avesse impreso una ristampa nel tardo Cinquecento, sotto il controllo ormai stretto dell'Inquisizione. L'insuccesso si spiega per motivi letterari. È probabile che il commento del Daniello apparisse, come ancora appare, troppo verboso e bonario: altrettanto verboso quanto quelli del Landino e del Vellutello, altrettanto invecchiato, e però molto meno stimolante. Era di fatto opera senile di un letterato mediocre, ma ai suoi bei giorni abile e intraprendente, inquadrato nella letteratura militante dell'età sua, di gran lunga superiore insomma, pur nella sua mediocrità, a un Vellutello. Ma proprio per questo, mutato il vento, la stravaganza incondita del Vellutello restava, bene o male, oggetto di curiosità; la normale e però arretrata e infiacchita abilità del Daniello non interessava più.
Il Daniello si era educato alle lettere nel terzo decennio del secolo, alla libera scuola di un eccezionale maestro, il veneziano Trifon Gabriele, coetaneo e intimo amico del Bembo. Dalla conversazione e dalle lezioni che il Gabriele usava fare su testi latini e volgari, oltre che, s'intende, dall'opera del Bembo, il Daniello ricavò e fece suoi i principi della nuova letteratura e poetica che in quegli anni trionfava. E se ne fece banditore nella sua Poetica (Venezia 1536). Di qui risulta, come era prevedibile, che, per il Daniello, " il nostro divino poeta Dante " (p. 27) era stato " per aventura maggiore e più perfetto philosopho che poeta " (p. 28), e aveva peccato sovente per oscurità (p. 79) e nell'uso di parole nuove o straniere (pp. 81-82) e di rime " a forza spinte o tirate, come s'usa dire, pe' capegli " (p. 128), e che insomma il Petrarca era modello di gran lunga preferibile. Ma anche risulta una frequenza di richiami alla poesia di D. (anche alla canzone Quantunque volte, p. 67) e una disposizione ad apprezzarla molto maggiore di quanto fosse normale allora da parte di un petrarchista di stretta osservanza. Nel che è da riconoscere l'influsso del Gabriele. Comunque può servir d'esempio dell'apprezzamento retorico del Daniello il commento a bordello, " che alta, piena e sonora voce è, ma inutile disonesta " (p. 83). Si spiega che di qui, a vele spiegate, egli passasse a commentare sistematicamente il Petrarca, insistendo, in polemica col Vellutello, sulle qualità propriamente poetiche, cioè retoriche e linguistiche, che quello aveva trascurato.
Anche in questo commento, apparso nel 1541 e di nuovo, con notevoli mutamenti, nel 1549, frequentissimi sono i richiami a Dante: alla Commedia tutta, con una qualche preferenza per il Purgatorio, e alle rime (per queste, nell'ediz. 1541, pp. 37, 39, 71, 78, 81, 83v, 91v, ecc.). Ma ancora e più che mai il Daniello sembrava lontano dall'idea di un sistematico commento a Dante. Né risulta che lo stuzzicasse, com'era accaduto per il Petrarca, l'apparizione nel 1544 del commento del Vellutello, violentemente polemico contro il Bembo e la sua scuola. Infatti nel 1545 pubblicò la sua notevole traduzione poetica delle Georgiche con ampio commento (ivi anche, e nella prefazione, qualche traccia del suo culto dantesco), sviluppando un motivo tipico della scuola di Trifon Gabriele, la lettura dei classici latini in chiave moderna, volgare. E ancora nel 1549, quando questa traduzione fu ristampata, egli, come s'è detto, ripubblicò variato il suo Petrarca. Se a quella data, come da una sua lettera parrebbe, anzi prima, nel 1547, già si era accinto al commento dantesco, bisogna credere che il lavoro gli riuscisse lento e difficile, tanto che, morendo nel 1565, non arrivò a pubblicarlo. Anche bisogna credere che, se l'avesse pubblicato, non avrebbe mancato di riconoscere il suo debito verso il maestro Gabriele, come aveva fatto nel commento petrarchesco. L'accusa di plagio, che gli è stata mossa, non può essere accolta senza riserve. Certo è che nel suo commento è incorporato quello, tuttora inedito, del Gabriele, con riprese molto spesso letterali, e che il paragone fra i due, maestro e allievo, risulta qui schiacciante per il secondo: " tutto quello che di meglio e di più nuovo, rispetto agli altri commenti del Cinquecento che abbiamo a stampa, si trova nel commento del Daniello, proviene dalle annotazioni di Trifone Gabriele " (Barbi). Abbandonato a sé col suo fardelletto retorico, petrarchesco-virgiliano, lirico-descrittivo (il Virgilio delle Georgiche), in un'età che volgeva sempre più all'eroico e al tragico, e che a D. ritornava sulla traccia della poetica aristotelica e della poesia omerica, il Daniello non poté che ripiegare a lume di buon senso sull'interpretazione letterale del testo, mascherando con una prolissa e grigia parafrasi il suo disinteresse per il contenuto storico-politico e teologico-filosofico e per i tratti propri della lingua (eccezionali i riferimenti a testi antichi, come il Novellino e il Tesoro volgarizzato). Lo assisteva la sua lunga famigliarità con la poesia tutta di D., comprese le rime, e, cosa non comune, una buona conoscenza del Convivio. Non era allora, come non è oggi, sufficiente sussidio. Al compito, che gli spettava, di far prova sistematicamente, sul testo di D., dei principi e criteri retorici che a suo tempo gli erano serviti per il testo del Petrarca, gli mancarono le forze.
Bibl. - M. Barbi, Della fortuna di D. nel sec. XVI, Pisa 1890, 120, 244-247 (per il Gabriele), 257-274; E. Raimondi, B.D. e le varianti petrarchesche, in " Studi Petrarcheschi " V (1952) 95-130 (importante anche per il Daniello); A. Vallone, Aspetti dell'esegesi dantesca nei sec. XVI e XVII, Lecce 1966,15-58; E. Bigi, La tradizione esegetica della Commedia nel Cinquecento, Roma 1967, 24-29 (per il Gabriele), 32-35.