DANIELLO, Bernardino
Della famiglia Danielli da Pisa, nacque a Lucca intorno alla fine del '400.
Della famiglia Danielli il Libro di Cancelleria della città di Lucca registra che un certo Daniello del già Thomaso da Pisa chiese ed ottenne la cittadinanza lucchese il 26 febbr. 1440, mentre nel 1496 figura un altro membro della famiglia, suo omonimo, che possedeva una casa e cortile in contrada San Martino. Sembra piuttosto improbabile che questi corrisponda al Daniello.
Nessuna traccia si ha di lui a Lucca, che si può presumere lasciò assai presto, intorno al 1525, portando con sé dalla Toscana una grande venerazione per il poeta toscano per eccellenza, per quel Dante che proprio a cura di un suo concittadino aveva avuto la prima edizione quattrocentesca: si tratta del Commento di Cristoforo Landino fiorentino sopra la Comedia di Dante, uscito a Firenze nel 1481.
Nella Padova tutta bembesca degli anni '23-'30, il D. si inserisce nella cerchia dei letterati che si raccolgono intorno a Trifone Gabriele. Da un paio di lettere che proprio il Gabriele scrive al suo amato discepolo nel 1530, veniamo a sapere che il D. in questo periodo si trovava a Roma, al servizio di un "signore" identificabile forse con quell'Andrea Cornelio che presto verrà eletto vescovo di Brescia e al quale il D. dedicherà le sue prime fatiche di letterato (la Poetica del '36 e il commento a Petrarca del 1541). L'atteggiamento benevolmente paterno col quale Trifone Gabriele si rivolge al D. non è solo vezzo letterario: esso ci lascia intravvedere un rapporto maestro-discepolo collaudato e fondato sulla stima e fiducia reciproche. Il Sonetto di Roma che il D. inviò al Gabriele e che quest'ultimo loda con calde parole, è con ogni probabilità il sonetto che inneggia all'imperatore Carlo V come difensore dell'Europa e di Roma, che possiamo leggere nel volume XII dell'edizione settecentesca del Parnaso italiano. Un sonetto che bene illustra la completa aderenza del D. alla rapida conversione politica avvenuta in Italia dopo il grande spavento del sacco di Roma e che culminò col trionfo imperiale di Bologna.
Il D. esordì dunque all'insegna della ortodossia politica più scontata, alla quale corrisponde un linguaggio poetico povero di invenzione. L'attività poetica continuerà su questi binari fino al 1540 circa: inviti a volgere i pensieri al "Cielo" dimora del "Sommo Bene" si alternano a celebrazioni dell'attività papale a favore della conciliazione tra i due formidabili avversari che dominavano la scena del mondo cinquecentesco (in una canzone vi è un esplicito riferimento all'accordo di Nizza del 1538, auspice Paolo III, tra Francesco I e Carlo V). L'opera poetica del D., oggi caduta in completo oblio, ebbe una certa fortuna nel Cinquecento e i suoi sonetti furono pubblicati nella raccolta di rime del Giolito.
Stabilitosi definitivamente a Padova, dal 1533 il D. prese sempre più parte al cenacolo di Trifone Gabriele. Nella villa di Bassano il Gabriele dà inizio a quell'opera di codificazione della funzione e del linguaggio poetico condotta sui testi della letteratura "volgare", che diventerà anche l'impegno principale del suo fedele discepolo. Nel 1536 esce dunque a Venezia, per i tipi di G. A. [dei Nicolini] da Sabio, il trattatello Della Poetica di "Bernardino Danielo Lucchese a' monsignore" Messer Andrea Cornelio eletto vescovo di Brescia suo Signore".
Il trattato consta di due libri. Nel primo libro, dopo una breve introduzione che serve ad ambientare "bembescamente" il dialogo, Trifone Gabriele prende la parola rispondendo a quesiti posti dai suoi giovani discepoli. Si inizia ponendo subito in chiaro la funzione pedagogico-morale della poesia (laddove non sono esistiti i poeti, non c'è stata nemmeno vera civiltà), distinguendo però nettamente il confine tra poesia e storia. Trifone, sempre incalzato dalle domande dei discepoli, inizia l'analisi delle tre componenti della poesia: invenzione, disposizione ed elocuzione, le quali devono avere come scopo quello di portare il lettore alla persuasione. Se lo scopo della poesia è morale (anzi si può dire "teologico"), la persuasione diventa essenziale, ferma restando la condizione che criterio supremo sia la verità. Il secondo libro è dedicato quasi esclusivamente all'elocuzione (che si divide in grave, mezzana e umile): è una sorte di compendio delle forme linguistiche che si possono definire "poetiche" Il D. segue qui fedelmente il dettato petrarchesco: nell'incertezza tra Dante e Petrarca, la preferenza va data al secondo, ché Dante è più filosofo che poeta.
Numerose accuse furono mosse al D. subito dopo la pubblicazione del suo trattato. A parte le accuse che potevano provenire dall'ambiente ostile all'aristotelismo e in genere corrispondenti a posizioni antibembesche, fu messa in dubbio l'autenticità delle tesi sostenute, in breve lo si accusò di plagiare le idee del Gabriele. Lodi invece il D. incontrò presso il solito Aretino, oltre che un implicito riconoscimento da parte del Dolci, il quale inserisce nella sua Libraria il trattato Della Poetica. L'interesse per l'opera del D. si è risvegliato in clima neoidealista. Lo Spingarn ha osservato che questo trattato è la prima difesa della poesia contro la filosofia che sia stata fatta nel secolo XVI. Anche il Trabalza pregiò nel D. "quel suo nuovo stato di coscienza che gli permette d'impostare i problemi come se dovesse compiere una ricerca filosofica e non fornire una precettistica, ... quel suo considerare l'arte e la poetica come moto e sviluppo per effetto di reciproca influenza". Più recente, e più cauto e obiettivo, è il giudizio del Weinberg: se è giusto riconoscere una certa autonomia alla posizione del D. nel panorama della trattatistica poetica rinascimentale, egli tuttavia non è che un modesto compilatore, troppo legato agli schemi retorici del passato e incapace di dare risposte convincenti.
L'opera fornì l'occasione al D. per venire a contatto con un più largo giro di personaggi che popolavano la vita culturale e politica della Repubblica veneziana. Oltre all'Aretino, troviamo tra i suoi corrispondenti in questo periodo Iacopo Bonfadio, Lunardo Mocenigo, Federico Badoer (che il D. invita a dedicarsi senza riserve alle lettere, raccomandandogli di non tener per vere le insinuazioni sulla pretesa "inutilità" dell'attività poetica). Frequenta casa Venier.
Intanto la sua attività si è spostata sul terreno delle traduzioni e dei commenti, interpretando il richiamo al classicismo della cultura rinascimentale come un invito a fornire, nella lingua volgare, una più ampia diffusione ai "modelli" del classicismo. In questo quadro si inseriscono le traduzioni virgiliane che il D. pubblica nel 1545: sono l'Undecimo di Virgilio e Le Georgiche.
Secondo quanto il D. aveva affermato perentoriamente nella Poetica, l'unica forma possibile per trattare le materie eroiche è l'endecasillabo, da qui deriva la necessità di poter disporre, per il poeta contemporaneo, di una versione volgare dell'endecasillabo virgiliano. L'interesse per le Georgiche è invece di tipo contenutistico. Non si tratta più di possedere un esempio di poesia eroica, ma di conoscere la stima in cui era tenuta l'agricoltura in epoca classica. Le Georgiche vengono quindi offerte dal D. alla classe dirigente veneziana (l'opera è dedicata a "Lunardo Mocenigo, del clarissimo Messer Antonio Procuratore") perché impari a tenere in considerazione lo stato dell'agricoltura: da esso dipende infatti, avverte il D., il benessere dello Stato.
Il Tiraboschi ebbe parole di lode per questa fatica del D., mentre sorte più controversa ebbero i suoi commenti a Petrarca e Dante. Il primo, pubblicato nel 1541, ebbe un discreto successo e vide nel '49 una seconda edizione. Il Commento alla Divina Commedia uscì postumo nel 1568 e suscitò molti dubbi (fondati, come di recente ha appurato A. Vallone), in particolare di essere una rielaborazione di materiale scritto da Trifone Gabriele. Una lettera scritta dal D. a Nicolò Guiniccioni nel 1547, nella quale si accenna ad un lavoro di commento a Dante, non basta a dissipare i dubbi, dato che secondo il Vallone il manoscritto di Trifone Gabriele doveva essere stato scritto intorno al 1525-1530.
Per quanto riguarda il valore critico del commento al Petrarca, valga quanto affermato dal Raimondi: "Alla scuola del Petrarca il discepolo di Trifone Gabriele apprese quell'abito di "anima bella" che gli doveva permettere di vivere accanto alla poesia con l'intenso fervore di una "critica" a modo suo suggestiva, ricca a ogni modo di valori umani anche se dall'esterno impianto retorico". Più severo è stato invece il giudizio che il Vallone ha dato della "sposizione" del D. alla Commedia dantesca: la lettura del commento è affaticata dalla "continua parafrasi dei versi" e manca una "visione generale poetica e filosofica del mondo della Commedia".
Il D., che ci ha lasciato così poche tracce biografiche, ma una ricca bibliografia, si spense a Padova nel 1565, dove due suoi amici (Pietro Carraio e G. B. Rota) ritennero giusto onorare il suo ricordo ponendo una lapide nella chiesa di S. Bartolomeo, nella quale lodano il poeta "clarissimo qui hetruscos vates in primis coluit".
Opere: Della Poetica, Vinegia 1536; L'Undecimo di Virgilio, ibid. 1545; La Georgica di Virgilio, ibid. 1545; Sonetti, canzoni e triomphi di F. Petrarca, ibid. 1541, 2 ed., ibid. 1549; Dante, ibid. 1568; le sue lettere sono contenute in Nuovo libro di lettere de i più rari auttori, a cura di P. Gherardo, Venezia 1545; e in Raccolta di scritture varie, a cura di C. Riccomanni, Torino 1963. Sette sonetti e una canzone sono in Rime di diversi eccellenti autori, Venezia, Giolito, 1545,ora in Parnaso italiano, ibid. 1851, XII, pp. 998-1002.
Fonti e Bibl.: P. Aretino, Il primo libro delle lettere, Venezia 1537, ora a cura di F. Nicolini, Bari 1913, pp. 100 s.; A. F. Doni, La Libraria, Venezia 1558, ora a cura di V. Bramanti, Milano 1972, pp. 89, 277; G. Ghilini, Teatro d'huomini letterati, Venezia 1647, pp. 32 s.; L. Magalotti, Lettere famigliari, Firenze 1769, pp. 112-18; G. Tiraboschi, Storia della letter. ital., Modena 1792, VII, p. 1338; M. Barbi, Della fortuna di Dante nel sec. XVI, Pisa 1890, pp. 257-274; G. E. Saintsbury, The Earlier Renaissance, Edinburgh-London 1901, pp. 379-385; J. E. Spingarn, La critica letter. nel Rinasc., Bari 1905, pp. 25 ss., 33, 50 s., 63 s., 82 s., 87, 106, 123, 132, 193; C. Trabalza, Storia dei generi letterari ital.,Milano 1915, II, p. 96-99; E. De Biase, Contributo alla storia della fortuna di Dante in Italia nel sec. XVI, in Civiltà cattolica, I (1935), pp. 36-46; T. Campanella, Poetica, a cura di L. Firpo, Roma 1944, p. 8; E. Raimondi, B. D. e le varianti petrarchesche, in Studi petrarcheschi, V (1952), pp. 95-130; B. Weinberg, A history of literary criticism in the Italian Renaissance, Chicago 1961, pp. 721-724; A. Vallone, Trifon Gabriele e B. D. dinanzi a Dante, in Studi mediolatini e volgari, X (1962); Id., L'interpretazione di Dante nel '500, Firenze 1969, pp. 97-101; E. Bonora, Le poetiche del Vida e del D.,in Storia della letteratura ital., a cura di N. Sapegno-E. Cecchi, IV, Milano 1966, pp. 464-467; C. Dionisotti, in Enc. Dantesca, II, Roma 1970, pp. 303 s.