CIAFFONI, Bernardino (Giovanni Bernardino)
Nacque a Sant'Elpidio (Ascoli Piceno), probabilmente tra il 1615 e il 1620. Entrato nell'Ordine dei frati minori conventuali, Si Idureò il 14 maggio 1640 nel collegio di S. Bonaventura a Roma (da questa data si può risalire a quella approssimativa di nascita, poiché la laurea si conseguiva allora intorno ai ventidue-ventiquattro anni). Nell'Ordine fece una brillante carriera: fu reggente per sei anni del ginnasio di Recanati, poi di quelli di Fermo e di Urbino e del collegio di Bologna, e infine del collegio di S. Bonaventura a Roma, il più importante di tutti. Dal 1664 al 1668 fu provinciale delle Marche, e dal 1668 al 1671 procuratore generale dell'Ordine a Roma. Al termine di questo ministero tornò nelle Marche, dove esercitò tra l'altro l'ufficio di teologo presso Parcivescovo di Fermo. Morì in un luogo imprecisato delle Marche nel 1683.
Il Papini, che scriveva all'inizio del secolo scorso, ricordava che il C. lasciò un gran numero di manoscritti, soprattutto di argomento filosofico e teologico, senza fornire ulteriori precisazioni. Probabilr mente si trattava di testi legati alla sua attività didattica: comunque di essi non si è trovata più traccia. L'unica opera che conosciamo venne pubblicata postuma. Si tratta dell'Apologia in favore de'SS. Padri, contra quei che nelle materie morali fanno de' medesimi poca stima. Opera postuma..., molto necessaria per un'infallibile regolamento delle coscienze confuse frà le ambiguità de' moderni probabilisti.
La prima edizione fu stampata a Torino dall'editore Pietro Vianelli, senza indicazione di data. Ad essa seguì una seconda edizione a Bassano nel 1696, e una terza ad Avignone nel 1698. L'opera ebbe dunque una considerevole notorietà, in un momento in cui divampava la polemica tra probabilisti e rigoristi. Il C. si rivela uno scrittore vigoroso, dallo stile limpido e aggressivo. Oggetto del suo attacco sono gli "autori moderni" probabilisti, i quali andando contro la tradizione dichiarano superati i Padri della Chiesa nella .materia morale. Sono questi per lo più gesuiti, Louis Cellot, Frangols Annat, Tommaso Tamburini, Antonio Escobar y Mendoza, Gabriel Vasquez, Etienne Bauny ed altri, ma anche un teatmo, Antonio Diana, un cisterciense, juan Caraniuel, e il domenicano Antonin Réginald.
Nelle pagine dell'Apologia si avverte la forte influenza esercitata sul C. dalla lettura delle Lettere provinciali di Pascal: "Lhuomo depravato dalla colpa Originale non hà genio. ch'al peccato... e dal fomite della concupiscenza stimulato, ordinariamente non appetisce l'honesto, ma l'utile, commodo e diletto proprio; talmente, che acciecando con le passioni in se stesso il lume naturale della ragione, dalla Divina Bontà inserito universalmente nelle menti de gl'huomini... se non è illuminato, è aiutato dalla Divina Giustitia, corre scapestratamente là, dove il proprio appetito lo tira... La Divina Legge dunque scotta, e brucia l'appetito dell'huomo" (pp. 32-33 dell'edizione di Torino). I probabilisti (o piuttosto i lassisti, preciseremmo oggi), lungi dal frenare questo appetito, lo incoraggiano, con la loro casuistica minuziosa ed aberrante. Essi cominciano con lo svuotare di significato il primo e più difficile precetto, l'amare Dio sopra ogni cosa, anche a costo della vita, e affermano "che l'huorno non è obligato in tutta sua vita à fare un'atto, esplicito d'amore verso Dio; ma basta, che non trasgredisca gl'altri precetti" (p. 34), e non si vergognano di sostenere che anche un ateo in qualche caso può salvarsi. Quanto a questi altri precetti, il'C. mostra, con una serie di citazioni tratte da autori probabilisti, come essi vanifichino l'obbligo dell'elemosina e del digiuno, permettano la crapula e i rapporti sessuali "contro natura" tra i coniugi, siano indulgenti verso i giudici corrotti, i cristiani che non santificano le feste, gli ecclesiastici che recitano distrattamente l'ufficio divino.
Questa nuova morale è per il C., al pari del protestantesimo, opera dei demonio., che tenta così di distruggere la Chiesa. I probabilisti hanno reso la via del cielo comoda ed agevole per tutti, mentre quella dell'infemo è divenuta stretta e difficile, ma il loro insegnsunento non dà buoni frutti: "... in questo secolo si vede una ftequenza sì grande de Sacramenti, mà nessun miglioramento di vita, ogni giorno si và dal Confessore, & all'Altare per prendere il pane della vita, ma le restitutioni non si fanno, le cattive pratiche non si lasciano, marciscono nelle scommuniche, perché per la dottrina di costoro non ne fanno caso, gli odii non si depongono, le vanità delle donne crescono al maggior segno, non si vedono, che contratti illeciti, usure, e simonie" (pp. 141 s.). Quest'ultimo spunto verrà ripetuto in particolare da tutti i rigoristi del sec. XVIII.
Naturalmente lo scritto del C. provocò un'immediata reazione- negli ambienti gesuffici.. L'iniziativa della replica fu presa da Giovanni Battista De Benedictis: professore di filosofia prima a Ostuni e poi a Napoli, egli si era messo in luce proprio in quegli anni perché aveva attaccato gli intellettuali napoletani imbevuti di cartesianesimo e sostenitori delle idee di Pascal, ed aveva così suscitato una vasta e accesa polemica. Egli pubblicò contro il C., sotto uno pseudonimo, La Scimia dei Montalto cioè un libricciuolo intotolato Apologia in favore del Santi Padri contra quelli che in materie morali fanno de' medesimi poca stima convinto di falsità da Francisco de Bonis sacerdote, Gratz 1698. Egli vi rimproverava il C. di aver scimmiottato le Lettere provinciali componendo una satira della Compagnia di Gesù, e di aver travisato le affermazioni dei vari autori probabilisti citandoli in modo inesatto.
Un confratello del C. si accinse subito a scrivere una risposta al libro del De Benedictis. A questo punto minacciava di scoppiare una dura polemica tra i due Ordini religiosi. Una polemica che avrebbe potuto danneggiare soprattutto i conventuali, che in quel momento erano già assai malvisti dal papa Clemente XI, perché erano favorevoli alla creazione di una provincia piemontese del loro Ordine, che il duca Vittorio Amedeo II esigeva dalla S. Sede, insieme con la soddisfazione di una serie di pretese giurisdizionalistiche. Il ministro generale Vincenzo Coronelli ritenne opportuno, su istanza del preposito generale dei gesuiti Tirso. Gonzalez, di pubblicare il 16 giugno 1701 un decreto nel quale si condannava l'Apologia, riconoscendo che essa conteneva alcune affermazioni incresciose nei confronti dei gesuiti e affermando che l'Ordine non ne aveva in alcun modo promosso la pubblicazione. In quello stesso anno entrambe le opere vennero messe all'Indice.
La polemica però si era già estesa. Nel 1700 era apparso con l'indicazione di Liegi, sotto lo pseudonimo (che non si è riusciti svelare) di Antoni Dazii, La maschera conosciuta, o sia risposta d'un libricciuolo, che hà per titolo la Scimia dei Montalto.... Contro il C. scrisse invece il teatino Gabriele Gualdo, anch`egli sotto uno pseudonimo, la Risposta all'autor dell'Apologia de Santi Padri, in cui si fà vedere dannarsi senza fondamento alcune opinioni, et i moderni non esser contrarii d S.S.P.P. come falsamente gli, impone il detto autore, operetta di don Guido Bellagra professore di sacra teologia, Salisburgo 1701. La condanna da parte del S. Uffizio calmò le acque, ma non per molto: a Napoli la polemica riprese da lì a pochi anni, sulla scia di quella aperta dal De Benedictis.
Nel 1708 a Benevento il sacerdote Giovanni Sarconio pubblicò una Difesa della morale teologia dalla falsa accusa del moderno frate apologista del Santi Padri, alla quale rispose un noto avvocato e, letterato napoletano, Biagio Majoli de Avitabile, con le Lettere apologetiche-teologico-morali scritte da un dottor napoletano a un letterato veneziano..., Avignone 1709 (anchesse messe all'Indice, nel 1714), e qualche anno più tardi con la Confessione di Biagio Majoli de Avitabile fatta per la lettera apologetica-teologicomorale prima da lui scritta contra Giovanni Sarconio sacerdote, e confessore di monache.
Ricordiamo infine, a conferma della vitalità dell'Apologia, che essa venne ristampata ancora una volta a Venezia nel 1761, mentre si stava diffondendo più ampiamente in Italia il giansenismo.
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