BERARDO
Terzo abate di Farfa di questo nome, figlio del conte Anscario, apparteneva a una delle più potenti famiglie della Sabina. Non si sa quando sia nato né quando sia entrato a Farfa: Gregorio di Catino nel suo Chronicon Farfense, principale fonte per l'abbaziato di B., dice che fu educato "a pueritia" nella schola del monastero. La sua formazione avvenne dunque sotto il lungo e importante governo di Berardo I (1047-1089). A Farfa fu "litterarum nostro congruentium ordini studiis benei imbutus" (II, p. 228); tale giudizio, per la sua stessa formulazione, che fa pensare a un topos, non va preso alla lettera, ma anzi considerato forse un po' limitativo: la sua cultura non dovette essere eccezionale, anche se Farfa durante il suo abbaziato ebbe un notevole rilievo sul piano storico-culturale.
Il favore della famiglia di B. verso Farfa si manifestò molto prima che egli vi divenisse monaco e abate: il padre, in occasione del ritorno a casa del figlio uscito "ex puerili custodia", donò per suo amore al monastero varie chiese con i rispettivi preti e possedimenti (Chronicon, II, p. 259, e Reg., V., p. 309). L'appartenenza di B. a famiglia ricca e potente fu poi elemento essenziale per la sua elezione ad abate.
Il 25 febbr. 1099 moriva l'abate Berardo II; l'elezione del suo successore nella persona del monaco Oddone di stirpe longobarda avveniva con grande rapidità, che si può spiegare come reazione a un governo, presentato nel Chronicon come autoritario e moralmente, religiosamente e soprattutto economicamente di grande decadenza, ma che è possibile vedere anche alla luce di più vasti interessi e contese: certo è che il nuovo abate, pur non privo di qualità e dotato di notevole cultura, per rafforzare il suo patere decise di appoggiarsi al conte Rinaldo e a suo suocero, concedendo loro, in cambio dell'aiuto, denaro, oggetti preziosi e persino il venerato drappo dell'altare della Vergine, divenendo così strumento di alcune forze locali che tendevano a dominare l'abbazia dall'interno.
Dopo aver forzato il riconoscimento della sua elezione con il ricorso alle armi, l'abate Oddone non riuscì tuttavia a stroncare l'opposizione, che, decisa a mettere al corrente l'imperatore della situazione, inviò alcuni monaci presso B., allora preposto della chiesa farfense di Offida, perché si recassero insieme con lui in Germania. Trascorsi tredici giorni prima che si mettessero in viaggioverso il nord, il 19 maggio 1099, giorno dell'Ascensione, giunse a Offida la notizia della morte improvvisa dell'abate, avvenuta il giorno prima, e insieme l'invito a non recarsi in Germania, ma a tornare rapidamente a Farfa con B., sul cui nome quale futuro abate si doveva essere già raggiunto l'accordo. Messi, venuti loro incontro a Rieti, annunciarono che la situazione a Farfa era quanto mai favorevole a B., e al monastero essi giunsero preceduti, in segno di onore, di fitta schiera di cavalieri. Immediatamente si procedeva all'elezione di B., secondo le norme di rito (23 maggio 1099); e ad essa, su preghiera dei monaci, seguiva immediatamente la promessa da parte del nuovo abate di osservare le regole e le consuetudini del monastero, espressione che, pur nella sua genericità, si riferisce, a quanto sembra di poter affermare con molta probabilità, a quella constitutio fatta dall'abate Ugo, forse nel 998, con la quale venivano introdotte a Farfa le consuetudini di Cluny e insieme veniva apportata un'importante innovazione di ordine economico, la dotazione cioè del monastero di un proprio patrimonio, distinto da quello dell'abate (Relatio constitutionis domni Hugonis abbatis, in Il Chronicon Farfense..., I, pp. 55-58; II, pp. 75-78; cfr. Schuster, pp. 132 s.). Ma a questa promessa, comune ai suoi predecessori, B. ne aggiungeva un'altra particolare - o che almeno solo per lui è ricordata da Gregorio di Catino - cioè quella di reggere l'abbazia con tutti i monasteri, le chiese, le terre, i castelli da essa dipendenti, per l'utilità di tutti i monaci, dei servi, nonché degli orfani, delle vedove e di tutto il popolo, nella fedeltà all'imperatore Enrico ed ai suoi discendenti (Reg., V, n. 1310, pp. 297 s.). Non si ha notizia che l'elezione di B. sia stata confermata dall'imperatore, come era nella tradizione farfense, ma certamente egli venne sempre riconosciuto alla corte come legittimo abate.
L'unanimità di consensi nell'elezione di B., quale risulta dal racconto di Gregorio di Catino e che non è probabilmente da mettere in dubbio, nonostante la posizione filoberardiana del cronista, si può spiegare facilmente con il desiderio dei monaci di trovare un abate capace di difendere il monastero impedendo ogni ulteriore attentato ai beni di Farfa: Gregorio non esita a dire, spiegando così brevemente, ma molto efficacemente la scelta di B., che egli fu eletto "ut fultus iuvamine parentum nequaquam concederet cuiquam res huius monasterii subripere" (Chronicon, II, p. 258). E indubbiamente nella presentazione del cronista la salvaguardia dei beni e il loro aumento appare il significato maggiore dell'abbaziato di B., espressione caratteristica di un monachesimo tutto volto al rafforzamento del suo prestigio e della sua potenza, dal quale sembra aliena ogni preoccupazione di natura spirituale e addirittura monastico-religiosa.
Nello stesso racconto di Gregorio, pur così caratterizzato dall'ammirazione per B., si colgono, però, continui accenni alle difficoltà incontrate nella lotta contro i nemici di Farfa, e al persistere di una fortissima opposizione al monastero, nonché un esplicito riconoscimento dei difetti dell'abate: se il suo forte regime cominciò subito a incutere paura ai nemici dell'abbazia, sì che molti accorrevano sotto la protezione del potente abate di Farfa per salvarsi dall'oppressione dei nobili (ibid, p. 259); se egli assicurò anche la tranquillità dell'abbazia tenendo a freno quelle schiere di cavalieri e contadini, con le quali tante volte in passato i monaci erano stati minacciati dagli stessi abati (ibid., pp. 228 s.), e se egli riuscì a riconquistare una quantità di tesori, tra cui il famoso drappo d'altare (dei tesori lasciati da B. al monastero alla sua morte Gregorio compilò un accurato inventario: Reg., V, pp. 310 s.), Gregorio ammette anche che conti e capitani, cessato "aliquantulum a nostra lesione" (Chronicon, II, p. 229), non esitarono poi a ricorrere a più nascoste macchinazioni, estorcendo le oblazioni dei funerali e delle sepolture, e opponendosi sistematicamente a ogni nuovo acquisto che l'abate intendesse fare (ibid., p. 229), non esitando ad approfittare di un viaggio dell'abate nelle Marche, per invadere e devastare terre e villaggi del monastero (ibid., p. 259). Non si potrà poi sottovalutare il giudizio dei nemici di B., riportato da Gregorio, dai quali era definito come "tyrannum et bonorum distractorem" (ibid., p. 258), senza dimenticare poi l'ammissione esplicita del favoreggiamento eccessivo dei parenti, tanto grave che Gregorio pregava insistentemente Dio di perdonarglielo (Reg., V, p. 310).
Impossibile ricordare le innumerevoli vicende patrimoniali di Farfa sotto B., siano esse donazioni, scambi, enfiteusi, ricordati nel Regesto, nel Liber Largitorius, dedicato da Gregorio a B., o nel Chronicon, mai studiate nel loro insieme, come pure le complesse relazioni di B. con la nobiltà locale e i rapporti molteplici, di donazione e protezione, con chiese, proprietari o intere comunità (particolarmente interessanti a proposito di queste ultime, i rapporti di B. con il castello di Stablomone: Reg., V, nn. 1167, p. 170; 1179 s., p. 1793 e 1187, pp. 185 s.). Si potrà qui solo ricordare come accanto a donazioni che sembrano testimoniare delle buone relazioni dell'abate di Farfa con i nobili dei "comitati" vicini (ibid., nn. 1311, p. 298; 1181, pp. 180 s.; 1312, p. 298; 1198-1200, pp. 193-195; 1183, pp. 183 s.; 1218, pp. 208 s.), larghi di benefici soprattutto quando membri delle loro famiglie si trovavano nel monastero (ibid., n. 1206, pp. 198 s.), molti altri acquisti nascondono, più o meno apertamente, o ampie riserve del donatore (ibid., n. 1195, pp. 191 s., giugno del 1104, cessione del conte di Todi Albertino), o concessioni fatte in cambio da B. (ibid., nn. 1157, p. 163; 1174 e 1175, pp. 175 s., donazione di Rapizone, un altro membro della famiglia dei conti di Todi, contestata dai suoi eredi: 1182, pp. 181 s.), o addirittura impegnativi legami che il monastero contraeva entrando nelle contese tra famiglie rivali, divenendo strumento dell'una contro l'altra (l'esempio più singolare è rappresentato dalla donazione a Farfa del monastero di S. Nicola [ibid., nn. 1184-1187, pp. 184-186], in cambio della quale alcuni dei donatori richiedevano addirittura l'impegno da parte di B. a non ricevere "ad bassallos" i figli di certe famiglie a loro avverse, e di non mandarli neppure "necque pro offertione neque pro monachis faciendis" al monastero di S. Nicola: ibid.n. 1188, p. 186). Largamente testimoniate, nei documenti farfensi, anche le persecuzioni subite dal monastero (per es., ibid., nn. 1213 e 1214, pp. 204-206, per le quali B. ricorse al giudizio del duca e marchese di Spoleto e Ancona, Guarnieri), quando non si trattò di vere guerre, quale quella vinta, a quanto sembra, da B., di cui parla il documento del 27 ag. 1112 (ibid., n. 1217, pp. 207 s., con il quale il conte Offreduccio, pentito, confermava a B. tutta la preda da questo sottrattagli).
La contesa più grossa fu sostenuta da B. contro i conti Ottaviani di Sabina della famiglia dei Crescenzi, contesa importante in quanto entrarono in gioco non solo interessi e forze locali bensì lo stesso papato. I rapporti di Farfa con la potente famiglia comitale erano sempre stati estremamente tesi (Heinzelmann, pp. 122-125): l'ultimo episodio si era avuto nel 1098, durante l'abbaziato di Berardo II, che, costretto a riconoscere ai nemici il possesso dei castelli di Fara, di Post-Montem e della chiesa di S. Pietro di Scandriglia, fu impedito dalla morte di rivendicare in un placito i suoi diritti. Proprio all'inizio del suo governo B., forse per il prestigio della sua persona e la potenza della sua famiglia, era riuscito ad ottenere da Rustico, figlio di Crescenzio, e da suo figlio Oddone il possesso del castello di Correse e della loro porzione del castello di Fara, in cambio dei quali essi ricevevano il castello di Post Montem (Reg., n. 1177, pp. 177 s., gennaio 1100). Nel 1103 otteneva anche la cessione da parte di Berardo di Rainerio e di numerosi altri dei castelli di Forano e Colle Nera (ibid., nn. 1160 e 1161, pp. 165-167; cfr. anche nn. 1162 e 1163, pp. 167 s.) e da Pietro di Grazone il castello di Marciliano (Chronicon, II, p. 229). La cessione veniva approvata dal conte Ottaviano, figlio di Giovanni, sempre della famiglia dei Crescenzi di Sabina, il quale inoltre prometteva difesa e protezione al monastero per tutti i possessi che aveva o che avrebbe avuto nel comitato sabinense (ibid., pp. 229 s.). Ma il fratello di Ottaviano, il conte Oddone, "dolo et invidia ductus", dice Gregorio (ibid., p. 230), adiratosi di tale accordo, cominciò a perseguitare il monastero, conquistando Capo di Farfa, incendiando Castel di Campo, Trevigliano e Cufi, catturando cavalieri e servi del monastero e compiendo ogni sorta di devastazioni. A giustificazione del suo comportamento il conte portava il suo diritto sul comitato sabinense ricevuto dall'imperatore, per cui nessun acquisto poteva fare il monastero "nisi salvo sui comitatus iure" (ibid., II p. 230). B. opponeva le libertà sancite per Farfa e per i suoi beni da papi, re, imperatori.
I molteplici tentativi di accordo fatti da B., sui quali insiste il Chronicon, tra cui quello di portare la questione davanti all'imperatore, fallirono tutti e le ostilità proseguirono violente; alle vittorie di B., che riuscì a prendere prigionieri due membri della famiglia nemica, corrispose l'alleanza, per lui pericolosa, tra i fratelli Oddone e Ottaviano. A questo punto "quidam fideles", non meglio precisati da Gregorio (ibid., p. 232), si intromisero nella contesa, e, ricevuti da entrambe le parti pegni e ostaggi, portarono la questione a Roma, affidandone il giudizio a Pietro di Leone e a Tebaldo di Cencio.
Le vicende della causa, durata dal 1103 al 1105, sono minutamente descritte da Gregorio (Chronicon, II, pp. 232 ss.). Dopo lunghe contestazioni procedurali e numerosi rinvii - B. appare presente a tutte le fasi della causa; manca però purtroppo ogni riferimento cronologico -, gli ostaggi e i pegni vennero presi dai Romani e consegnati al conte Rainaldo, figlio di Sinibaldo, alla cui "meditatione recta" (ibid., p. 233) veniva affidata la conclusione della causa. Fu a questo punto che la "pars Oddonis" tornò a una difesa básata su argomenti storico-teorici: se all'inizio della lotta armata contro Farfa Oddone aveva addotto i suoi diritti di proprietà sul comitato sabinense ricevuti dall'imperatore, argomento che egli aveva evidentemente considerato più convincente nei confronti di un'abbazia così legata all'impero, ora spersonalizzava la cosa, asserendo di difendere la causa e i possessi stessi di S. Pietro e dei suoi successori, asserzione basata sul costituto di Costantino; ma proprio tale significato del privilegio contestò la parte dei monastero. L'intervento di argomenti di così vasta portata inducono facilmente a vedere dietro tutta la questione la presenza, pur non mai manifesta, della Curia romana. Dietro la stessa coalizione di nobili, in genere isolati e in lotta tra di loro, sembra possibile individuare il tentativo del pontefice Pasquale II di imporre, in un momento di relativa quiete per la Chiesa, la propria autorità politica sul territorio intorno a Roma: e Farfa relativamente alla Sabina rappresentava per questi progetti un indubbio ostacolo (su tutta la questione, cfr. l'importante lavoro del Velise, soprattutto pp. 155 ss.; per i conti Oddone e Ottaviano, e la loro nomina a rettori, significativa per la politica del papa verso la Sabina, oltre al Velise, cfr. H. Müller, Topographische und genealogische Untersuchungen zur Geschichte des Herzogthums Spoleto und der Sabina von 800 bis 1100, Greifswald 1930, pp. 29 s.). Altra indicazione in questo senso la presenza tra i giudici di quel Pietro di Leone, legatissimo al papa. Con l'ampliarsi degli argomenti lo svolgimento della causa vedeva dunque, a quanto appare dal Chronicon, un avvicendarsi di contestazìoni precise e di discussioni di carattere generale che saranno riprese, da parte farfense, nel Liber Beraldi. La tesi, sostenuta dai Crescenzi, dei potere papale esteso a tutta l'Italia, veniva ritorta da Farfa contro i suoi nemici, col trarne la conseguenza che in tal modo tutti i beni, le eredità, i possessi privati venivano messi in discussione; l'argomento fu immediatamente sentito come pericoloso, dato che i nobili si affrettarono a dar prova dei loro diritti (Vehse, p. 161), e la causa, si potrebbe dire, rientrò nei limiti più ristretti di una contestazione di beni. Il conte Rainaldo decise di chiamare il giudice fiorentino Bellincione, che procedeva a l'escussione di testimoni, i quali provenendo dai singoli luoghi contesi dovevano provare l'appartenenza dei medesimi all'una o all'altra parte. Nonostante tali testimonianze, la causa si concluse in modo incerto, proprio perché, si potrà concludere, il vero argomento del dibattito non aveva soluzioni: la sentenza pronunciata il 15 luglio 1105 nel castello di Toffia vide in pratica solo la restituzione dei pegni e degli ostaggi e una specie di tregua di quattro anni (Chronicon, II, p. 257; l'espressione di Gregorio, forse volutamente, non è tanto chiara). Non ci furono così né vinti né vincitori (Vehse, p. 160), ma si potrà dire almeno che se dietro tutta la questione c'era stato veramente il tentativo del papato di imporre la propria autorità politica sulla Sabina, essa era andata fallita e, sia pure indirettamente, Farfa vedeva in qualche modo confermato il suo potere territoriale.
Ma se la causa finiva in modo incerto, essa costituì l'occasione per la composizione di un opuscolo polemico, che costituisce un'interessante espressione della mentalità e delle concezioni politiche del monastero imperiale, sicuramente frutto di una lunga tradizione, ma maturate più profondamente, in concornitanza con la particolare situazione storica, durante l'abbaziato di Berardo. L'opera è conosciuta anche con il nome di Liber Beraldi (Beraldus per Berardus con il comune passaggio di r in l), probabilmente proprio perché essa è espressione delle sue concezioni, o semplicemente perché del processo da cui il Liber trae origine egli fu il protagonista, anche se si deve escludere che ne sia l'autore (Heinzelmann, pp. 25-27).
Il Liber è con ogni probabilità opera proprio di Gregorio di Catino (cfr. in proposito le convincenti argomentazioni dello Heinzelmann, pp. 27 ss., che ne fornisce l'edizione, pp. 40-64), che lo compose a breve distanza dal termine del processo tra la fine del 1105 e l'inizio del 1106 (ibid., pp. 101-107), e successivamente lo inserì nel Chronicon (II, pp. 234-240; 242-255).I punti fondamentali dell'opuscolo sono l'interpretazione strettamente religiosa e non politica del costituto di Costantino, per cui si veniva a escludere ogni diritto della Chiesa a considerare suo patrimonio l'Italia; su questa, invece, gli imperatori avevano esercitato un ininterrotto potere; ad essi inoltre era stato sempre riconosciuto il diritto di intervenire nelle elezioni dei pontefici: la lunga serie di esempi termina con Niccolò II, che, per porre fine alle disordinate elezioni dei pontefici e per riportare la concordia e l'unità tra il sacerdozio e l'impero, aveva promulgato nel 1059 il decreto di elezione pontificia, che riconosceva tale diritto; il decreto è riportato nella redazione così detta imperiale, di cui costituisce l'esempio più antico (cfr. H-G. Krause, Das Papstwahldekret von 1059 und seine Rolle im Investiturstreit, Roma 1960, pp. 219 ss., al quale si rinvia anche per la storia del decreto); ciò fa mettere in relazione il suo autore, Farfa e forse in particolare il suo abate con gli ambienti in cui fu redatta questa falsificazione, e soprattutto in cui se ne perpetuò la tradizione, ambiente strettamente romano, a quanto sembra, legato a quei cardinali preti e diaconi, che la falsificazione tendeva a equiparare ai cardinali vescovi (ibid., pp. 246ss.).La seconda parte dell'opuscolo (pp. 55-64), nata per confutare le argomentazioni dei nemici di Farfa, quali si erano manifestate durante il processo, sulla cessazione della validità dei privilegi dopo la morte del concedente, è tutta centrata sulla perennità delle leggi della Chiesa, discorso che si traduceva sul piano politico-religioso nella difesa della sua tradizione e della immutabilità dei suoi principî (pp. 62 s.).
La posizione politica di B., così chiaramente manifestatasi durante il processo del 1103- 1105, trova conferma anche negli anni successivi e in episodi di ben più vasta portata, nel quadro della lotta tra papato e impero. Anche se l'identificazione è falsa, è tuttavia significativo che il Chronicon di Ekkeardo (a c. di G. Waitz, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, VI, Hannoverae 1844, p. 234) ritenga che l'antipapa eletto nel 1105 col nome di Silvestro IV fosse "quendam pseudoabbatem de Farfara": si trattava in realtà di Maginolfo, arciprete di S. Angelo in Roma, posto sul soglio pontificio, approfittando di un'assenza di Pasquale II, ad opera delle famiglie romane avverse ai Pierleone e ai Frangipane (Brezzi, p. 277), validamente aiutate dall'esterno da Guarnerio, eletto da Enrico IV duca e marchese per il territorio di Spoleto e di Ancona (J. Ficker, Forsch. zur Reichs-und Rechtsgesch. Italiens, II, Aalen 1961, pp. 246 s.). Non ultima causa dell'equivoco di Ekkeardo possono essere stati i rapporti di B. con Guamerio, attestati sia dall'accenno del Chronicon di Gregorio di Catino a un viaggio di B. nella Marca (II, p. 259; senza precisazione cronologica), sia da due documenti, purtroppo non datati (Reg., nn. 1213 e 1214, pp. 204-206). Le tesi, poi, sostenute nel processo e riprese nel Liber Beraldi, particolarmente la difesa del decreto di Niccolò II, hanno fatto pensare allo Heinzelmann non solo che l'opuscolo sia stato scritto in occasione dell'elezione, ma che lo stesso abate di Farfa non sia stato semplice spettatore della stessa (p. 105); ma questa può rimanere solo un'ipotesi.
B. partecipò, invece, sicuramente alla nuova rivolta contro Pasquale II, scoppiata nel 1108, approfittando dell'assenza del pontefice, che, diretto in Italia meridionale, aveva lasciato la custodia della città ai Pierleone e ai Frangipane, il Patrimonio a Tolomeo di Tuscolo e il comando delle milizie al nipote Gualfredo. La ribellione scoppiò, come narra il Liber pontificalis (III, pp. 147 s.), non solo a Roma, ma anche a Anagni, Palestrina, Tuscolo e in tutta la Sabina; tra i capi sono ricordati Tolomeo, Pietro Colonna e Berardo. Il papa, tornato immediatamente, riusciva a sedarla con l'aiuto dei Normanni; poco dopo procedeva a un nuovo attacco contro i castelli di Ponza e di Affile e si trovava nella Sabina "iuxta castellum Taranum", quando li affidava all'abate di Subiaco (Liber censuum, a c. di P. Fabre e L. Duchesne, I, Paris 1910, p. 407): ma null'altro è noto di questa spedizione nella Sabina, né di rapporti avuti con Farfa.
Molto probabilmente in seguito a questa rivolta B. ricevette la prima di quelle scomuniche di cui si trova notizia nel Liber pontificalis (III, p. 153, relativamente all'anno 1117: "abbas Farfensis, qui ob sacrilegium factionenique ab Ecclesia bis terque in capite dampnatus"), anche se non si può affatto precisare, come fa lo Schuster (p. 250), che essa gli fu impartita nella sinodo tenuta, a Benevento nell'ottobre 1108 (nonne dà infatti notizia la fonte più dettagliata al riguardo, Petri Diaconi Chronica monasterii Casinensis, a c. di W. Wattenbach, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, VII, Hannoverae 1846, p. 777).
Non si hanno altre notizie di rapporti di B. con il pontefice fino alla discesa di Enrico V in Italia per farsi incoronare nel 1111. Si potrà solo dire che la situazione locale si doveva essere calmata: un indizio in questo senso potrebbe essere, tra l'altro, la donazione di un membro della famiglia Crescenzi, Beraldo, figlio del fu conte Crescenzio, che nel febbraio 1110 concedeva al monastero di Farfa il castello di Porcile, situato in territorio tiburtino, con il monastero annesso di S. Maria (Reg., V, n. 1205, pp. 197 s.).
In occasione degli avvenimenti romani del febbraio-aprile 1111 (per i quali cfr. P. Zerbi, Pasquale II e l'ideale della povertà della Chiesa, in Annuario dell'Univ. Cattolica del Sacro Cuore, 1964-65, pp. 207 ss.), B. rappresentò senza dubbio un fermo punto di sostegno per l'imperatore, il quale infatti, lasciata Roma portando prigioniero Pasquale II, si diresse in Sabina (lo Zerbi pensa che la Campagna romarria sia stata scelta per presentare al pontefice una zona in cui non era ancora spento lo scisma guibertino, e quindi intimorirlo con tale prospettiva, p. 220) e prima di tornare indietro per un nuovo attacco a Roma lasciò il pontefice con due vescovi e quattro cardinali al castello di Tribuco di proprietà di Farfa e quindi di fatto in custodia all'abate di Farfa (Relatio Registri Paschalis II, in Mon. Germ. Hist., Legum Sectio IV, Constitutiones et acta publica imper. et regum, I, a c. di L. Weiland, Hannoverae 1893, p. 148). Ma Pasquale II si piegò ben presto all'accordo con l'impero, che comportava il riconoscimento delle investiture imperiali e l'incoronazione imperiale, avvenuta il 13 aprile di quell'anno. Proprio in questo periodo si pone la composizione della Orthodoxa defensio imperialis, il secondo trattato uscito dall'ambiente di Farfa.
L'autore è stato da molti identificato con Gregorio di Catino, la personalità di maggior rilievo sul piano culturale del monastero (cfr. Bethmann, p. 558; I. Giorgi, IlRegesto di Farfa..., in Arch. d. Soc. Rom. di storia patria, II,[1879], p. 458; L. Heinemann, in Mon. Germ. Hist., Libelli de lite imper. et pontif., II, Hannoverae 1892, p. 534: l'edizione della Defensio è a pp. 535-542; C. Mirbt, Die Publizistik im Zeitalter Gregors VII., Leipzig 1894, pp. 75 s., 151, 158 s., 519-521 e passim); ma più che le affinità sembrano rilevanti le diversità di stile e di tono della Defensio rispetto alle altre opere di Gregorio (Heinzelmann, pp. 115 ss., ma il problema richiederebbe uno studio più approfondito). L'autore si proclama uno dei monaci più anziani, e questa dichiarazione induce a escludere che si tratti dell'abate, anche se B. fu il fermo sostenitore sul piano pratico di quelle idee espresse qui teoricamente. Quanto alla data di composizione i pareri non sono unanimi, ma la più probabile sembra quella dell'estate 1111, o comunque dopo l'aprile di quell'anno, dato che l'autore è al corrente dell'incoronazione di Enrico V, e prima dell'autunno, quando si colloca la composizione del De honore ecclesie di Placido di Nonantola, che sembra conoscere la Defensio (R. Kayser, Placidus von Nonantula: De honore ecclesie, Kiel 1888, pp. 41 s.). Il trattato nasceva da esigenze di difesa dei monastero contro coloro che sostenevano che la fedeltà all'impero li poneva fuori della Chiesa, il che rivela ancora una volta la fortissima opposizione presente in ambiente romano contro Farfa; e su un piano più generale di difesa dell'imperatore dalla scomunica che alcuni ambienti chiedevano (Mirbt, p. 76). Gli argomenti trattati non sono certo nuovi; l'interesse maggiore dell'opera nascerebbe proprio da un parallelo con le altre opere farfensi (un primo tentativo in Heinzelmann, pp. 116 ss.), per ricostruire un ambiente politico-culturale nel suo insieme, e con il resto della pubblicistica di parte imperiale, per vederne le fonti e l'eventuale diffusione: purtroppo manca ancora uno studio approfondito (cfr. però Mirbt). Contro l'esclusione dell'imperatore dalle elezioni pontificie, l'opuscolo proclama che il re è "caput ecclesiae", cui è affidato un preciso compito religioso di mantenimento della disciplina e di lotta all'eresia, là dove non basti la parola del sacerdote; e come tale non è strano che a lui sia reso il "debitum subiectionis" prima che al sacerdote il "munus honoris" e che quindi i vescovi prima ricevano l'investitura dall'imperatore e quindi la consacrazione dal papa. Tale investitura, di cui si precisano i limiti (Mirbt, p. 520), non è certamente contro la fede, ma anzi resa assolutamente necessaria dallo sviluppo dei beni delle chiese, che avendo sotto di loro vassalli e soldati costituirebbero un tremendo pericolo per l'imperatore se non fossero a lui legate dal giuramento di fedeltà. Il modo di elezione dei vescovi risulta dunque costituito da tre momenti: elezione, fatta dal clero e dal popolo, investitura, consacrazione da parte del papa. Non manca poi la difesa dell'unità dei due poteri in un ordine che solo dei pazzi innovatori, spargitori di inutile sangue, volevano sovvertire (p. 538), come pure la difesa da ogni condanna dell'imperatore che solo Cristo poteva giudicare ("melius est enim, iniquae potestati iustum debitumque exhibere honorem quam Dei paceni eclesiae impie perturbare, p. 541).
La fedeltà di B. a Enrico V e la sua opposizione a Pasquale II si mantenne costante anche quando cominciarono a manifestarsi vive opposizioni al cedimento del pontefice, e, tornato l'imperatore in Germania, egli rimaneva senza appoggio. I rapporti personali, indubbiamente avuti con l'imperatore durante il soggiorno di questi in Italia, sembrano avere rafforzato la sua posizione politica e il suo prestigio presso di lui, tanto che egli appare svolgere un importante ruolo di informatore di Enrico V proprio al momento del concilio del Laterano dei marzo 1112, che cassava le concessioni di Pasquale II dell'anno precedente e condannava l'operato dell'imperatore.
Una lettera di quello stesso anno diretta dall'abate di Farfa ad Enrico V informa infatti che l'imperatore lo aveva consultato sopra la situazione italiana ed egli aveva già inviato notizie tramite gli ambasciatori imperiali; con questo scritto, da cui traspare una viva preoccupazione per la situazione creatasi a Roma, egli desiderava soprattutto metterlo in guardia contro le intenzioni malevole del pontefice, tutto volto "ut inrecuperabile vobis detrimentum operari valeat": la lettera che Pasquale II aveva inviato all'imperatore era sicuramente volta, nell'interpretazione di B., che tuttavia confessava di non conoscerne il contenuto, a tranquillizzarlo, fingendo ad arte sulle sue vere intenzioni, e a dissuaderlo dal venire in Italia; persino il rifiuto di scomunicarlo nella sinodo lateranense, della quale B., che aveva temuto di recarvisi personalmente "ob vestri honoris defectionein", aveva avuto precise informazioni da suoi inviati fidatissimi, è visto alla luce di questa malafede del pontefice. L'abate esortava perciò l'imperatore a eliminare al più presto ogni difficoltà che gli potesse impedire di venire in Italia "ne forte adversantium fraus contra vestram coronani diu inveterata roboretur"; dietro questo pressante invito non è difficile individuare anche una preoccupazione per la propria situazione personale (in questo invito egli non era solo: cfr. Meyer von Knonau, VI, p. 267).Dava poi notizie, probabilmente richiestegli dall'imperatore, di quella ambasceria che stava per recarsi a Costantinopoli (sui rapporti di Pasquale II con Alessio I, cfr. Meyer von Knonau, VI. pp. 248 ss.).Tanti servigi e tanta fedeltà non erano però completamente disinteressati: la lettera si chiude infatti ricordando all'imperatore i favori promessi al monastero di Farfa l'anno precedente e non ancora concessi, per motivi che l'abate giustificava completamente, sperando tuttavia che le cose in futuro sarebbero andate diversamente (lettera di B. in Udalrici Babenbergensis codex, in Monumenta Bambergensia, Bibl. Rer. Germ., a c. di Ph. Jaffè, V, Berolini 1869, pp. 289-290, n. 162).
In questa costante e decisa opposizione di B. e di Farfa a Pasquale II un problema è rappresentato da un documento contenuto nel Regesto di Farfa (V, n. 1317, pp. 301 s.) con il quale i monaci farfensi - l'abate non è nominato - si rivolgevano al papa chiedendo giustizia per usurpazioni subite, allegando un elenco di beni. Il documento non èdatato se non con l'indicazione generica del tempo di Pasquale II e di Enrico V, e con il riferimento a una sinodo; manca inoltre dell'escatocollo e delle sottoscrizioni; se si può dubitare che un documento cosi incompleto sia stato presentato al pontefice, esso rimane per lo meno indicativo di una esigenza manifestatasi a Farfa e forse di una effettivamente avvenuta richiesta verbale. La datazione del 1116, al tempo del concilio lateranense del marzo, proposta in via del tutto ipotetica dagli editori del Regesto, ma accettata senza più discussione in tempi più recenti (Schuster, p. 254), presenta alcune probabilità di essere vera, soprattutto in base alla considerazione che, perché Farfa osasse rivolgersi al pontefice per ottenerne benefici, ci si doveva trovare in un momento di relativa distensione nei rapporti tra papato e impero o almeno di tentativo di accordo (altra indicazione in tal senso è data dalla menzione sia di Pasquale sia di Enrico nella datazione del documento), e tale può essere considerato l'inizio del 1116, quando Enrico V, venuto in Italia, sperava di staccare Pasquale II dal partito più intransigente e inviava proprio al concilio lateranense del marzo l'abate di Cluny Ponzio (sul concilio cfr. C-J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des Conciles, V, 1, Paris 1912, pp. 554 ss., e Meyer von Knonau, VI, pp. 350-356;su Ponzio: G. Tellenbach, La chute de l'abbé Pons de Cluny, in Annales du Midi, LXXVI [1964], pp. 255-262). Non si elimina però il dubbio della partecipazione all'iniziativa di B., che alcuni vogliono addirittura presente al concilio, dove, "sentendosi meno isolato in quell'ibrida mentalità dell'adunanza", avrebbe approfittato per presentare al papa le richieste dei monastero (Schuster, p. 254), e si sarebbe tentati di pensare piuttosto a un'iniziativa dei monaci, o almeno di una parte dei monaci, forse quelli non favorevoli a B. - non mancava infatti nel monastero un'opposizione all'abate, come si rivelerà al momento della sua morte -; tutt'al più, data anche la mancanza del nome di B. nel documento, si può pensare che se anche egli fu al corrente dell'iniziativa, ritenne più opportuno non figurare direttamente, ai fini stessi forse della sua buona riuscita.
Tanto più difficile pensare a un accostamento di B. al pontefice in questa occasione, quando l'anno successivo egli si presenta tra i principali sostenitori di Enrico V, al momento della sua venuta a Roma nella primavera del 1117.Non si ha notizia di una partecipazione di B. a quelle lotte, che, iniziate in Roma all'indomani del concilio del 1116, per la nomina del prefetto della città - contro il volere del papa fu eletto Pietro della famiglia Corsi, - si erano poi estese al Lazio, capeggiate da Tolomeo di Tuscolo (Brezzi, pp. 287s.); egli era però con Tolomeo e con Giovanni (non un Frangipane, ma un Ottaviani della famiglia Crescenzi, come dimostra il Klewitz, p. 230:le vicende politiche interne di Roma avevano mutato le alleanze) tra i "consiliarii familiaresque" dell'imperatore, come dice il Liber pontificalis (III, p. 153), non appena l'imperatore, chiamato forse proprio dal prefetto, entrava in Roma, da dove il pontefice era costretto ad allontanarsi, ed era qui di nuovo solennemente incoronato ad opera dell'arcivescovo di Braga Maurizio Burdino (C. Erdmann, Mauritius Burdinus, in Quellen und Forsch. aus italien. Arch. und Bibl., XIX [19271, pp. 221 ss., e Klewitz, p. 229).
L'atteggiamento di B. non mutò con la morte di Pasquale II (18 genn. 1118) e l'elezione di Gelasio II. La ricompensa per tanta fedelta all'impero, espressa già da numerosi doni, come ricorda Gregorio, gli veniva da Enrico V il 31 maggio 1118, che di nuovo a Roma, dove sarebbe stato incoronato due giorni dopo per mano di Maurizio, eletto antipapa coi nome di Gregorio VIII (ibid., pp. 229 ss.), confermava dettagliatamente i vastissimi possessi dell'abbazia di Farfa; ricordando anche le "incommoffitates, invasiones et subreptiones, a viris nefandis nostrique coronae imperii adversariis", sofferte dal monastero, di cui lo stesso abate si era lagnato, chiedendo giustizia e insieme la conferma della libertà del monastero (Reg., V, n. 1318, pp. 302-308; Chronicon, II, pp. 279-287);rifacendosi ai privilegi dei suoi predecessori, egli definiva inoltre la prassi di elezione dell'abate, che, eletto, secondo le norme della regola di s. Benedetto, dalla congregazione, doveva presentarsi "imperiali patrocinio", affinché "gratis roboretur" e infine essere consacrato dal papa.
Dopo questo atto mancano notizie dei rapporti di B. sia con l'imperatore che col papa; ma se ancora con Gelasio II la sua posizione era ben salda, nella precaria situazione in cui si trovava a Roma il pontefice legittimo, costretto infine a recarsi in Francia, dove moriva il 29 genn. mq, si può supporre che qualche difficoltà, o, per lo meno, minore sicurezza, dovesse derivargli dall'elezione di Callisto II (2 febbr. 1119, incoronato il 9), il cui atteggiamento fin dai primi mesi di pontificato tendeva chiaramente a un accordo con l'imperatore (in particolare sul concilio di Reims dell'ottobre mq e sulle successive relazioni con l'imperatore, Meyer von Knonau. VII, pp. 122 ss.). Impossibile dire quale sarebbe stata la sorte di B.; ma egli moriva il 14 dic. 1119 e nulla si sa di lui negli ultimi mesi della sua vita, all'infuori di quel che dicono i documenti farfensi sulle vicende patrimoniali del monastero.
Significativo per una valutazione complessiva sull'abbaziato di B. è, oltre i giudizi, limitanti, di Gregorio sul favoreggiamento dei parenti e quello dei nemici, da lui riportato, di tiranno e dilapidatore dei beni del monastero, il manifestarsi all'indomani della sua morte di un'opposizione all'elezione di un altro abate proveniente dalla gens Anscarina, nominata accanto ai Camponeschi e agli Ottaviani; i monaci che si opponevano sono definiti nel Chronicon come "abbatiae populi fautores": "populus" che interveniva a loro sostegno, incitato "per quendam seductorem. rusticanorum", col favore "quorundam equitum nostrorum" (p. 293): erano cioè quelle stesse forze che, sempre nel racconto di Gregorio, B. all'inizio dell'abbaziato aveva inteso mettere a freno. Contro abati legati a famiglie nobili, essi tentarono di imporre un abate di modeste condizioni, il sacrestano Guido. Ma nelle contese per la successione l'imperatore, memore indubbiamente della fedeltà di B., a ogni altro candidato doveva preferire proprio un nipote di lui Berardo IV (Chronicon, IL pp. 304 ss.; cfr. Vehse, p. 164).
Fonti e Bibl.: Gregorio di Catino, Il Regesto di Farfa, a c. di I. Giorgi e U. Balzani, V, Roma 1892, pp. 160 ss.; Liber largitorius vel notarius monasterii pharphensis, a c. di G. Zucchetti, II, Roma 1932, pp. 151-248; Il Chronicon Farfense di Gregorio di Catino...,a c. di U. Balzani, Roma 1903, in Fonti per la storia d'Italia, XXXIV, ad Indicem; Liber pontificalis, III, a c. di L. Duchesne e C. Vogel, Paris 1957, pp. 147 s., 153; L. C. Bethmann, prefazione a Gregorii Catinensis Opera, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, XI, Hannoverae 1854, pp. 552, 554, 557; K. Heinzelmann, Die Farfenser Streitschriften, Strassburg 1904, pp. 40-64, 113-120; G. Meyer von Knonau, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Heinrich IV., und Heinrich V., V, Leipzig 1904, ad Indicem;VI-VII, ibid. 1907, ad Indicem;G. Bossi, I Crescenzi di Sabina Stefaniani e Ottaviani, in Arch. della Soc. rom. di storia patria, XLI (1918), pp. 140-145; I. Schuster, L'imperiale abbazia di Farfa, Roma 1921, pp. 238 ss.; O. Vehse, Die Pätstliche Herrschaft in der Sabina...,in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XXI (1929-30), pp. 158-164; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel medio evo, VII, Roma 1940, pp. 10, 13 s., 54, 57; P. Brezzi, Roma e l'impero medioevale, Roma 1947, pp. 280, 289, 295; H.-W. Klewitz, Reformpapsttum und Kardinalkolleg, Darmstadt 1957, pp. 229 s.