BEOLCO, Angelo, detto Ruzzante
La tradizione che risale allo Scardeone lo vuole nato nel 1502.
I contributi biografici più recenti concordano nel voler retrodatare l'anno di nascita del B. a un termine che non dovrebbe superare l'anno 1500. In un documento pubblicato dal Menegazzo (Ricerche...) il 23 apr. 1526 il B. "aveva l'età legale per concludere un accordo davanti a notaio". Il che verrebbe a confermare un'ipotesi del Sambin (Lazzaro e Giovanni Francesco Beolco...) secondo cui il B., figlio naturale di Giovan Francesco, sarebbe nato prima che questi si sposasse, prima cioè del 1500; in questo caso egli sarebbe da considerarsi il primogenito degli altri sei figli avuti da Giovan Francesco dopo le nozze: Lazzaro (al quale, come primogenito dei legittimi, venne dato il nome del nonno), Pietro, Ludovico, Lazzaro jr. (nato sicuramente dopo la morte del primo), Caterina e Paola. Più incerte, e ancora a livello di pure supposizioni, sono le ipotesi che riguardano la madre del Beolco. La più recente (del Sambin) vorrebbe scorgerla in una Maria che serviva nella casa di Paola, madre di Giovan Francesco.
Fu detto Ruzzante dal nome di un personaggio che egli introdusse nelle sue commedie e che egli stesso interpretò sulla scena rendendolo famoso. Fu padovano: tale può essere considerato anche se, come è stato supposto, fosse nato in qualche luogo del contado. Cittadino padovano era suo padre, laureato in arti e in medicina, appartenente a quel ramo della nobile famiglia milanese dei Beolco che si era trasferita nel Veneto almeno fin dal 1459.
Il B. fece parte della famiglia paterna, la cui ragguardevole posizione gli permise di formarsi nello stesso ambiente colto e signorile dei suoi fratelli coi quali ebbe costanti e intimi rapporti anche dopo la morte del padre. Gli incarichi di affari, talora anche delicati che egli ebbe da loro, come dal suo grande amico e protettore Alvise Cornaro (col quale risulta in rapporti sin dal novembre dei 1525): affari che erano spesso legati all'amministrazione dei campi - dei quali sì occupò pure come affittuario -, mostrano la sua disposizione anche a una vita sanamente attiva e la fiducia che egli dovette godere per certa sua perizia di uomo pratico, per il suo equilibrio e la sua onestà. Per tali doti fu anzi ripetutamente impiegato dal Cornaro (almeno dal 1529 al 1537, come dimostrano i documenti pubblicati dal Sambin: Altre testimonianze...) in qualità di "nuncius" o "commissus" al quale il patrizio affidava l'incarico di comperare terreni. Incarichi che contrastano con le tendenze alla vita scioperata in lui supposte da alcuni; e provano che egli seppe industriarsi per vivere. Di modo che, se non fu certo adatto al lucro e condusse un'esistenza assai modesta, non dovette poi trovarsi nella nerissima povertà descritta dallo Speroni nel suo dialogo L'usura, che, a intender bene il testo, vuole in tal modo idealizzare la figura dell'artista.
Né scioperato, né poverissimo (quando entrò al servizio del Comaro già aveva riscosso la modesta eredità lasciatagli dal padre), non fu neppure un dissoluto (nel 1527 risulta unito in matrimonio con una figlia di Benedetto e Speronella Palatino), come invece si è voluto dedurre da un altro documento: e cioè dalla lettera in cui Alvise Cornaro - l'autore dei Discorsi sulla vita sobria - piangeva la sua morte; poiché se in questa lettera il Cornaro affermava che gli uomini muoiono giovani solo per i loro "desordini" e si riferiva anche al suo caro Ruzzante, in realtà esprimeva una regola generale, assiomatica; che per giunta doveva essere interpretata tenendo presenti i citati Discorsi, secondo il cui spirito appaiono come "desordini" anche le minime deviazioni dall'incredibile misura che il Comaro si era imposta per attuare il suo ideale di vita. Sfatata la leggenda di una esistenza sregolata da povero bohémien, connessa a una romantica concezione dell'artista, non bisogna poi cadere nell'eccesso opposto, dimenticando quel pieno, gioioso senso del vivere, che fu nel B. un fondamentale carattere.
Ma le cose che lo Speroni, il Cornaro o altri illustri contemporanei hanno detto del B., come pure i rapporti che essi ebbero con lui, interessano in particolare sia perché gettano una luce di alta simpatia sull'uomo e sull'artista, sia perché profilano meglio il raffinato ambiente in cui egli visse. Del Cornaro fu sempre ospite graditissimo, sia nelle ville di campagna, sia nel suo palazzo di Padova; dal Cornaro ebbe aiuti e incitamenti al lavoro, sì che gran parte della biografia artistica del B. (come attore e come autore) appare strettamente legata alle consuetudini della nobile famiglia.
Esordì come attore probabilmente il 13 febbr. 1520 (la data è offerta dal Sanuto) allorché recitò una commedia rusticana a Venezia, a palazzo Foscari, in onore di Federico Gonzaga. Anteriore di poco al febbraio 1520 è la stesura della Pastoral, mentre la Betìa - che forma con la precedente la sola produzione teatrale in versi - andrebbe collocata alla fine del 1521 (alcun i studiosi propongono come data più probabile il 1524). Nel settembre del 1521 il B. recitava al Banco d'asolo il discorso detto Prima orazione per festeggiare il cardinale Marco Comaro che entrava in possesso della diocesi di Padova. Durante il 1523 è attestata la presenza del B. a Venezia come attore (3 marzo e 5 maggio): tale attività si documenta più sporadicamente anche nel biennio 1525-1526. Nel 1528 (unica data sicura nella cronologia delle opere ruzzantiane) cade la rappresentazione del Ménego, l'opera che insieme con gli altri due dialoghi (Reduce e Bìlora)inaugura una seconda fase dell'arte ruzzantiana. Il Reduce è sicuramente posteriore (anche se di poco) a Pastoral e Betìa. Immediatamente prima del Ménego andrà posta la Moschetta (composta tra il 1527 e il 1528 e rappresentata nel carnevale del '28); poco dopo la Fiorina (che risale al 1529 0 1530). Successiva al Ménego (ma sempre del 1528) è la Seconda orazione recitata al cospetto del cardinale Francesco Comaro.
Nel 1529 il B. si trova a Ferrara ove recita madrigali e canzoni "alla pavana" in occasione di un banchetto offerto al duca dal figlio Ercole d'Este. Probabilmente ancora nel 1531 e '32 il B. recitò a Ferrara, ma da questo periodo (che corrisponde alla stesura delle commedie cosiddette "classicheggianti": Anconitana, da collocarsi probabilmente fra il 1529 e il 132, Piovana e Vaccària, composte non molto prima del febbraio 1533) egli lavora pressocché stabilmente nella casa padovana dei Cornaro, ove muore nell'anno 1542, mentre era occupato alla messa in scena della Canace di Sperone Speroni per incarico ricevuto dagli accademici Infiammati.
La cultura del B., per una predilezione romantica - il mito dell'arte spontanea, aurorale -, fu per molto tempo posta in ombra, quasi fosse cosa trascurabile: errore di valutazione, favorito sia dalla mancanza di notizie dirette dei suoi studi, sia dalla superficiale conoscenza o valutazione delle sue opere, sia dagli stessi atteggiamenti polemici dello scrittore contro la letteratura in nome del "naturale". Ma proprio le sue opere, oltre che l'ambiente in cui visse, dimostrano che egli ebbe una educazione letteraria assai fine, anche se non vasta e profonda. Tra i nostri scrittori ebbe larga e diretta conoscenza del Petrarca - si sa pure che egli scrisse poesie alla sua maniera -, ma anche del Poliziano, del Sannazzaro e di altri; né gli mancò la possibilità di leggere gli scrittori latini nel testo originale, come provano specialmente due sue commedie - la Vaccària e la Piovana - che, discese direttamente dall'Asinaria e dal Rudens di Plauto, contengono anche puntualissime rielaborazioni. Tracce evidenti di tale cultura si hanno solo in parte delle sue opere; nelle altre, e sono quelle in cui egli attuò più decisamente la sua antiletteraria poetica, ogni traccia di cultura sembra quasi assente. Ma essa operò ugualmente, tacitamente, come affinamento di un gusto che aiuta le native qualità dello scrittore. Possiamo anzi dire che, senza di essa, il B. non avrebbe potuto darci la poesia dei suoi più alti momenti, nella cui semplice ma concentrata forza, stile e immagini hanno tuttavia il segno di una classica discendenza; e, senza di essa, sarebbe forse rimasto soltanto uno scrittore "dialettale".
Se da una parte il B. muove da un'educazione letteraria d'alte origini, dall'altra si riconnette anche alle esperienze della letteratura popolaresca dialettale: di quella pavana essenzialmente, ma anche della bergamasca, non senza altri occasionali influssi. Gli Antichi testi di letteratura pavana, pubblicati da E. Lovarini (Bologna 1894), ci permettono di conoscere un complesso di motivi e di atteggiamenti d'arte a cui il B. si ricollega non per estrinseche ragioni di simpatia regionalistica ma per intima congenialità. Questi testi, avverte il Lovarini, "ci presentano preziose reliquie di alcuni generi popolari"; ma "popolari" per il tono, poiché gli autori, tutt'altro che rozzi, sono spesso anzi dotati di un'evidente cultura. Il Lovarini concentra l'attenzione su certi componimenti drammatici - i "mariazi", contrasti tra innamorati che si concludono in genere col matrimonio -, perché pensa evidentemente al fatto che il Ruzzante scrisse quasi soltanto commedie; ma è tutto il complesso di quei componimenti, teatrali e non teatrali, che interessa per un atteggiamento fondamentale di scarna sodezza rappresentativa, per certi motivi che toccano specialmente il dramma quotidiano della povera gente di campagna, infine per lo stesso tono del riso che passa dalla carnosa malizia a punte amare; e senza che mai il villano sia oggetto di umiliazione o di schemo come invece per lo più avveniva in simili componimenti di altre regioni. Si trattava in genere di motivi grezzi, appena accennati, ma è certo che essi ben si accordavano con lo spirito del B. e confluirono nella sua visione trasformandosi spesso in significative voci di poesia.
Tra le opere giunte fino a noi la più antica deve essere sicuramente la Pastoral, che risulta scritta dal B. appena ventenne. Si tratta di un componimento teatrale in versi che in qualche modo può essere ravvicinato alle egloghe pastorali senesi, dove, in contrasto con ninfe e pastori, compaiono insolenti figure di contadini. Ma nella Pastoral troviamo una compatta contrapposizione di due mondi - quello della farsa rustica e quello dell'egloga pastorale letteraria -, una contrapposizione che, al di là del semplice scopo di divertire il pubblico con effetti comici, vuole mettere di fronte due diversi climi e toni d'arte. Qui il mondo idealizzato della bella letteratura - pastori che gemono e si uccidono per amore, declamando melodiosi versi e parole peregrine - soccombe sotto il ridicolo mentre si afferma, con la scabra forza di ben altri versi e di ben altro linguaggio, un mondo esuberante, istintivo, di gente rustica, che si esprime col suo dialetto - il pavano ma anche il bergamasco -, un mondo in cui, tra altre figure, già s'accampa il contadino Ruzzante e sul cui piano d'ideale rusticità si pone anche la carnosa figura di un medico di Bergamo con la sua grossa scienza e con il suo sghignazzante senso realistico.
La Betìa - così ormai si suole denominare questa commedia pervenutaci senza titolo - fu scritta poco dopo la Pastoral, come ha dimostrato il Lovarini, che è stato il primo a pubblicarla (in Antichi Testi). La Betìa, scritta in versi come la Pastoral, discende dai "mariazi" della precedente letteratura pavana, ma in quell'arte di gusto puramente popolaresco s'innesta la scaltrita finezza dell'uomo di cultura, la quale si rivela soprattutto nel modo con cui dalle parvenze realistiche di un mondo contadinesco sorge un mobilissimo giuoco di fantasia, trascorrente per una ricca serie di variazioni su comunissimi aspetti della vita e sul tema centrale dell'amore, ma per giungere fino all'iperbolico e all'assurdo, mentre la trasfigurazione comica sfiora talvolta una nascosta serietà. Anche nella Betìa, come nella Pastoral, c'è l'intenzione di contrapporsi alla poesia dei letterati; intenzione che appare apertissima nel prologo, dove, riprendendo gli accenni già contenuti nella prima Orazione - che è del 1521 e che fu indirizzata al "cardinal Cornaro vecchio" -, egli espone la propria poetica con piena coscienza e con singolare fervore polemico, mostrando come siano giunti a una piena chiarificazione gli atteggiamenti impliciti nella Pastoral.
Questa poetica, che si chiarisce dunque poco dopo la Pastoral già con la prima Orazione e poi col prologo alla Betìa, sarà ribadita dal B. anche nei prologhi di altre commedie e, qua e là, un po' in tutti i suoi scritti. Premesso che il Rinascimento ebbe in vario modo il culto della natura e che un ideale di naturalezza fu variamente perseguito anche da scrittori ben lontani da toni e gusti popolareschi, bisogna avvertire che il "naturale" vagheggiato dal B. è da lui inteso in senso elementare e integrale come ispirazione che deve essere tratta dal mondo più vicino a uno stato di natura - quello della gente semplice, soprattutto della campagna - e come uso della lingua più spontanea e più conforme a quel mondo, cioè il dialetto, anzi il dialetto rustico. Ma la rivendicazione di questo mondo naturale e del dialetto come suo necessario linguaggio, se si presentava con accenti di appassionata battaglia antiletteraria, voleva in sostanza essere soprattutto una difesa della dignità dell'arte in tutte le sue forme, mentre affermava la libertà dell'artista di rappresentare tutto ciò che egli veramente sentiva e di esprimersi nel modo a lui più consono. Questa poetica portava anche verso nuovissime aperture di comprensione umana; come notiamo soprattutto nelle Orazioni e nei tre dialoghi in lingua rustica. La graduale chiarificazione di questa poetica non resta una semplice conquista sul piano teorico, ma coincide con una maturazione che permetterà all'artista di attuarla con maggior pienezza e con alcuni dei suoi più schietti accenti di poesia. Ciò avverrà in un gruppo di cinque lavori - i tre dialoghi in lingua rustica e le due commedie Moschetta e Fiorina - i quali, anche se non per tutti si hanno datisicuri, possono per molte ragioni ritenersi composti in un periodo intermedio tra la Betìa e le tre commedie così dette classicheggianti. Anzitutto con questi lavori è abbandonato definitìvamente il verso per la prosa, e ciò, mentre segna un distacco anche da certi modi della precedente letteratura pavana, che aveva decisamente preferito il verso alla prosa, lascia intendere che la prosa dovette certo sembrare all'artista come l'espressione più naturale, come la più intonata alla elementare umanità dei suoi personaggi e coincide di fatto con la creazione di una particolarissima prosa tutta modulata sulla sintassi di un discorso interiore, che segue le pause, gli sbandamenti, i grovigli di cervelli cauti o lenti al pensiero e che è la segreta mimica dei personaggi stessi: gente grossa e impacciata o diffidente astuta e guardinga. I cinque lavori sopra indicati - scritti tutti in pavano, salvo qualche rara intrusione di battute in altri dialetti o in italiano - sviluppano l'orientamento, già chiaro nella Pastoral e nella Betìa, verso una particolare arte di gusto realistico, mentre l'attenzione, contrariamente a ciò che avviene in genere nella commedia cinquecentesca, continua a volgersi più ai motivi e alle figure che alla vicenda, tanto che questa diventerà spesso l'elemento meno importante e si ridurrà a un'estrema semplicità. Di tutto ciò si ha un particolare esempio in due dei dialoghi, e cioè nel Parlamento e nel Bìlora.
Nel Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo (cioè "parlata, discorso di Ruzzante che era tornato dalla guerra") troviamo un contadino, Ruzzante, che è andato alla guerra solo per tentar di uscire dalla sua estrema miseria e per amore della moglie che gliela rinfacciava come una colpa. Ma dalla guerra egli è tornato più povero di prima e con l'aggiunta di una allucinante paura, che, dopo averlo spinto a fuggire, continua a, dominarlo nei più vari riflessi, divenendo un alto motivo di poesia accanto alla sua miseria e al suo amore, schernito ora senza pietà dalla donna che si è data ad altri amori. Le figure, i sentimenti, il linguaggio di questi personaggi sono scavati con la dura forza della loro umanità ora dolente, ora cruda e amara; mentre il dramma, acquistandone una più segreta eloquenza, ha ingannevoli aspetti di farsa. Con un simile stile, in un simile ambiente, con una situazione iniziale che ha vari punti di contatto con quella del Parlamento e sui due motivi della miseria e dell'ambre, si svolge la vicenda di Bìlora, un contadino che, proprio per la sua miseria, è stato anche lui abbandonato dalla moglie, ma che poi - al contrario di Ruzzante - reagisce uccidendo con agghiacciante freddezza il vecchio signore che gli ha preso la donna enon vuole assolutamente restituirgliela.
Il Dialogo facetissimo et ridiculosissimo (o il Ménego, come lo designa il Lovarini) prospetta due motivi - il paradiso dell'allegrezza e il dramma della carestia -, ma senza approfondirli sufficientemente e armonizzarli: forse per la fretta con cui fu composto il lavoro e per lo scopo non impegnativo a cui era destinato; e cioè svagare la brigata di Alvise Comaro, riunita a Fossòn per una caccia nel 1528.
Rispetto ai tre Dialoghi, la Moschetta, con i suoi cinque atti e la sua più mossa azione, tende a inquadrarsi entro un organismo teatrale più ricco e vario. Un motivo essenziale, come in altri precedenti lavori, è ancora l'amore, ma portato interamente sul piano comico; e si riunisce a quello dell'astuzia che, in un saporoso giuoco di riflessi, crea nella commedia un clima tutto ilare e festevole e furbesco che, se non c'inganniamo, diventa il vero legame di un'azione non priva di sbandamenti. I personaggi sono tutti di origine contadina, ma più o meno smaliziati dal vivere in ambiente cittadino. E tutti, a loro modo, sono furbi o tentano di esserlo; mentre su tutti domina l'indiavolata scaltrezza della donna che è al centro della commedia. L'ambiente, assai più realistico che nella Betìa, è ancora il fondo per un giuoco di fantasia, che ha il suo vertice nell'ultimo atto con la bellissima avventura notturna di Ruzzante, portata in un clima così assurdamente fiabesco, che il poveretto, annientato dalla paura e ancora una volta raggirato, non sa più capire se le sue peripezie siano state realtà o sogno.
La vicenda della Fiorina - altracommedia in cinque atti - è di un'estrema semplicità e si svolge in pieno ambiente campagnolo. Qui l'autore, come nella Betìa, risale direttamente alla tradizione pavana dei "mariazi", con l'intento di portare questo semplice genere di contrasto matrimoniale entro una più decisa struttura di commedia e ad un particolare raffinamento d'arte. Ma se tale raffinamento si rivela fin dal garbatissimo prologo, la poesia balena solo a tratti - sono le scene in cui la campagna è nostalgicamente vagheggiata come un mito dell'anima - disperdendosi in un organismo piuttosto povero e non privo di semplicistiche ingenuità.
L'Anconitana, la Piovana e la Vaccària sono le commedie dette "classicheggianti" e appartengono a un medesimo, tardo ciclo di esperienze. Ponendosi sulla stessa linea ideale della nostra commedia cinquecentesca, che, pur discendendo dai comici latini, aveva iniziato con l'Ariosto una proficua ricerca di nuovi atteggiamenti, il B. qui tenta un personalissimo esperimento, accostando o fondendo insieme, con diversi intenti, il gusto, il mondo, i modi della commedia classica e quelli delle sue precedenti commedie in dialetto. E il dialetto egli qui continua a usare; salvo in quei luoghi in cui ha usato l'italiano o anche il veneziano accanto al pavano: per particolari ragioni d'arte.
Le Orazioni riflettono i sentimenti, i pensieri e l'arguto umore che informano tanta parte delle commedie, ma serbando quella immediatezza che sentiamo nei prologhi delle commedie stesse, dove l'autore si presenta solo con la propria persona: trasfigurata certo anch'essa, ma non col distacco che avviene nei miti della scena. In queste Orazioni domina l'affettuosa simpatia per la gente contadina, che è poi tutta la gente povera, oppressa, ingiustamente misconosciuta. Tale simpatia, che in modo più o meno aperto pervade quasi tutta l'opera del B., nelle Orazioni assume la forma più appassionatamente polemica in difesa degli uomini delle "ville", nei quali, inoltre, si riflette quel sogno della vita "naturale" che per l'autore coincide anche con la piena sanità dello spirito. Due sono le Orazioni che si possono attribuire con sicurezza al B.: quella diretta al cardinal Marco Comaro (1521) e quella diretta al cardinale Francesco Cornaro (1528). Una terza, indirizzata al cardinal Pisani e ritenuta apocrifa con ragioni in parte valide, sembra tuttavia muovere da un fondo ruzzantiano; e certo il B. vi si riflette in modo tale, sia nello spirito sia nello stile, da doverla in ogni modo considerare come diretta proiezione della sua personalità e come documento dell'influenza da lui esercitata.
La lettera, indirizzata al carissimo amico e compagno d'arte Marco Alvarotto - "da Padova, il giorno della Epipliania, 1536" -, si presenta come l'ultimo degli scritti del B. a noi pervenuti ed è certo il suo testamento spirituale, la più suggestiva sintesi dello spirito con cui egli guardò l'arte e la vita. Essa infatti non solo raccoglie pensieri e sentimenti presenti nelle precedenti opere, ma li compone tutti insieme intorno a un mito che, dopo tante balenanti apparizioni, 'si precisa nella sua piena luce: il mito di "Madonna Allegrezza". Qui il "naturale", che egli propugna nell'arte e vagheggia anche nella vita, s'identifica sostanzialmente con un pieno senso dei vivere, convergente verso una totale e particolare armonia fissata appunto nell'immagine dell'Allegrezza.
Nella prospettiva della letteratura del suo tempo il B. occupa un posto ben suo, poiché perseguì in senso estremo quel "naturale" a cui variamente mirava il Rinascimento e, in nome della sincerità e della libertà dell'arte, lui, uomo di non scarsa cultura, combatté la più decisa battaglia antiletteraria; introducendo inoltre nel regno della poesia, e con un singolare interesse umano, il trascurato mondo della gente più umile anche nel dramma della sua trista vita quotidiana. Questo interesse lo spingeva a studiare dal di dentro i caratteri ora grotteschi ora pietosi dei suoi personaggi; a far sì che la vicenda fosse dominata dal loro umano peso e talora da qualche alto motivo di poesia: diversamente dalla commedia rinascimentale che, salvo rare eccezioni - come la Mandragola o il Candelaio o la Venexiana -,era disposta ad accogliere intrecci più o meno tradizionali con lo scopo principale di intesservi variazioni di battute, scene, personaggi, con risultati talora anche assai vivi ma episodici per il prevalente gusto del rilievo figurativo e di un caleidoscopico giuoco d'intelligenza.
Premesso che di realismo in senso assoluto non è mai possibile parlare, si vuole insistere su un errore in cui è facile cadere pensando a certi aspetti regionali dell'arte ruzzantiana. In realtà la campagna pavana e la sua gente sono solo state il diretto nutrimento a una certa visione della vita e a quel gusto di sodezza realistica, al quale si riduce il realismo dei B.; poiché quei luoghi e quelle persone diventano miti dell'anima e della fantasia; mentre il dialetto - a differenza del valore puramente o prevalentemente pittoresco che ha in altri scrittori, e si ricordi il contemporaneo Andrea Calmo - è non solo la lingua connaturata a quei personaggi, ma si trasforma anch'esso in una personale creazione, non tanto per le parole inventate o adattate secondo un ideale gusto contadinesco, quanto per il complesso delle loro varie modulazioni in una sintassi che segue le intime sfumature delle idee e dei sentimenti.
Un ultimo cenno occorre riguardo ai rapporti tra il B. e la commedia dell'arte, della quale molti hanno visto in lui uno dei più diretti precursori o addirittura l'iniziatore. Certi aspetti sembrano convalidare questa opinione e per esempio: il ritorno di figure che parrebbero destinate a occupare ruoli fissi; il grande valore più o meno apertamente conferito alla mimica; alcune scene o battute, specialmente farsesche, che si ripetono talora in modo quasi identico. Solo in quest'ultimo caso potremmo vedere già il mestiere dell'attore che si serve di un procedimento pratico usato poi largamente dai comici dell'arte; ma quelle ripetizioni di scene o battute sono cosa sporadica e ne potremmo trovare anche nella contemporanea commedia letteraria, dove, inoltre, il ritorno di determinate figure con caratteri e ruoli quasi ricorrenti è forse meno raro che nel B.; e certo egli non giunge mai a una tipizzazione in senso stretto e paragonabile a quella delle future maschere. A tale proposito basti pensare, per esempio, alla intima diversità del personaggio di Ruzzante nelle sue varie incarnazioni, che vanno dalla farsa al dramma. In quanto al valore della mimica, il B., che fu anche un grande attore, dovette sentirlo in modo vivissimo ma, dato che era soprattutto un poeta, lo sentì intimamente connesso col valore della parola, poiché alla parola egli affidò sostanzialmente la sua arte e non ai sottintesi del gesto o dell'espressione del volto a cui tanto si affidavano i comici dell'arte. I quali dal B., senza tuttavia attingerne i valori più intimi di umanità e di poesia, poterono trarre un singolare esempio per quella forza di caratterizzazione che sarà essenziale al vigoroso ma quasi immutabile rilievo delle maschere e una suggestione di qualità teatrali che egli in sommo grado possedeva. Poiché il B. nei suoi momenti più felici fu un poeta e quasi sempre un geniale artista, ma sempre un grande uomo di teatro; anche se quest'ultima qualità si riferisca non al semplice mestiere - di cui possedeva rara esperienza - ma a una innata disposizione per cui le creature umane gli si presentavano spontaneamente nell'atto di tradurre in rappresentazione i loro casi, i loro pensieri, i loro sentimenti: tutta la loro vita. Ma, certo, anche il B. ebbe dei limiti. Infatti i suoi motivi non furono molti e presto si esaurì la sua più schietta vena. Ebbe però una singolare potenza trasfiguratrice e, sotto l'apparenza di un'arte veristica e regionale e dialettale - e pur entro limiti non vasti -, creò un mondo eternamente vivo nelle sue modeste vicende ora amare ora comiche ora grottesche. Commedia e farsa furono da lui spesso innalzate con geniali motivi; ma furono pure le vie antiretoriche attraverso cui passò anche il dramma. E fu il dramma della povera gente. portata per la prima volta, con quegli accenti, nel vietato regno della poesia.
Edizioni e traduzioni. Nessuna opera del B. fu pubblicata vivente l'autore. La migliore edizione cinquecentesca è: Tutte le opere del famosissimo Ruzante ristampate da Giorgio Greco, Vicenza 1584. Vi mancano due opere pubblicate per la prima volta dal Lovarini: La Pastoral (Firenze 1951) e la Betìa (in Antichi testi di lett. pavana, Bologna 1894). L'edizione di tutto il B. - testo, traduzione e note di vario genere - è stata intrapresa da L. Zorzi e G. De Bosio, ma non ultimata (Padova 1951 ss.). Il Viola, in appendice a Due saggi di lett. pavana (Padova 1949), ha pubblicato testo e traduzione del Parlamento, dei Bìlora e della Fiorina. Altre traduzioni più libere e senza testo a fronte: Moschetta, Fiorina e i tre Dialoghi a cura del Lovarini (Roma 1940 e 1941) e i tre Dialoghi a c. di G. A. Cibotto (Torino 1953). Testo e parziale traduzione in nota ha fornito A. Borienghi di Pastoral, Moschetta, Fiorina, Bìlora, in Commedie del Cinquecento, Milano 1959, II, pp. 555-575 e 991-1067. Del Bìlora ha dato testo e traduzione G. Barbarisi in appendice al corso di E. Bonora, Novelle e commedie del Cinquecento, Torino 1960. L. Zorzi ha presentato testo e traduzione della Moschetta, Torino 1963 (con una Scheda per Ruzante, pp. 115 ss.). Passi dal B. postillati da M. Dazzi in Il fiore della lirica veneziana, I, Venezia 1956, pp. 197-213. Cfr. inoltre Il RuzzanteAngelo Beolco, trad. e testo a c. di G. A. Cibotto, Milano 1958, e la Moscheta nel Teatro Veneto, a cura dello stesso, Parma 1960 (per entrambi i lavori cfr. la rec. di L. Zorzi, Rassegna di studi teatrali [in margine a due antologie venete], in Lettere italiane, XIII, 3[1961], pp. 335-363).
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, Diarii, XXVIII, Venezia 1890, pp. 255, 264; XXIX, ibid. 1890, p. 536; XXXIII, ibid. 1892, p. 9; XXXIV, ibid. 1892, p. 12, XXXV, ibid. 1892, p. 393; XXXVII, ibid. 1893, pp. 560, 572; XL, ibid. 1894, p. 789; LVII, ibid. 1902, p. 528; B. Scardeone, De antiquitate urbis Patavii et claris civibus patavinis...,Basileae 1560, p. 255; S. Speroni, Dialogo dell'Usura, in Opere, I, Venezia 1740, pp. 114 ss.; J. F. Tomasini, Illustrium virorum elogia, Patavii 1630, pp. 31 ss.; G. M. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 907 ss.; P. L. Ginguené, Hist. littéraire d'Italie, VI, Paris 1813, pp. 300 ss.; M. Sand, Masques et buffons, Paris 1862, II, pp. 77-118 e passim;S. Pieri, Un commediografo popol. del sec. XVI, in Nuova Antol., 15 luglio 1881, pp. 214-237; L. Stoppato, La commedia popol. in Italia, Padova 1887, passim;V. Rossi, introduzione a Le lettere di Messer Andrea Calmo, Torino 1888, passim;R. Wendriner, Die paduanische Mundart bei Ruzante, Breslau 1889; A. D'Ancona, Origini del teatro italiano, I, Torino 1891, pp. 415 e passim;A. Böhm, Fonti plautine del Ruzzante, in Giorn. stor. della lett. ital., XXIX (1897), pp. 101-104; E. Lovarini, Notizie sui parenti e sulla vita del Ruzzante, in Giorn. stor. della letter. ital., suppl. n. 2 (1899), pp. 1-50; Id., Nuovi documenti sul Ruzzante, in Miscell. di studi critici pubblicati in onore di G. Mazzoni, I, Firenze 1907, pp. 419-432; Id., Galileo interprete del Ruzzante, in Bollettino del Museo Civico di Padova I-II (1907); Id., La Betía del Ruzzante, in Rivista italiana del dramma, I, 2 (1937), n. 6; Id., I Prologhi della Moschetta, in Riv. ital. del teatro, 15 nov. 1942; Id., Del tradurre Ruzzante, in Nuova Antologia, 16 ott. 1943, pp. 263-267; Id., Ruzzante a Venezia, in Arch. veneto, LXXIII (1943), pp. 147-167 (cfr. ora E. Lovarini, Studi sul Ruzzante..., a c. di G. Folena, Padova 1965); A. Mortier, Essai sur les manuscrits et la bibliographie de Ruzzante, in Etudes italiennes, V (1923), pp. 65-79, 148-166, 209-226; Id., Un drammaturge populaire de la Renaissance italienne: Ruzante (1502-1542)..., Paris 1925-26; G. Boldrin, A. B. detto il Ruzzante, Padova 1924; A. Cataldo, Il Ruzzante, Milano 1933; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933, pp. 290-98; M. Apollonio, Storia del teatro ital., II, Firenze 1940, pp. 103 ss.; Id., Lettura della "Pastorale"del Ruzzante, in Drammaturgia, I (1954), pp. 72 ss.; F. Neri, Poesia nel tempo, Torino 1948, pp. 31-35; R. Viola, Due saggi di letteratura pavana, Padova 1949; E. Crepaz, Note su uno studioso di Ruzzante: Alfred Mortier, in Atti e Mem. dell'Acc. patavina di sc. lett. ed arti, LXIV (1951-52), pp. 154-171; V. Pisani, recens. a Ruzzante, La Pastorale, in Paideia, VII (1952), pp. 78-99; B. Brunelli, Il ritorno di Ruzzante, in Riv. di studi teatrali, I (1952), pp. 12-21; L. 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Angelini, Saggio su Ruzzante, in Arena, II, 2 (1954). pp. 57-73; F. Vitali, La Piovana del Ruzante e la Rudens di Plauto, in Boll. del Museo Civ. di Padova, XLV (1956), pp. 143-182; M. Baratto, L'esordio di Ruzante, in Revue des études italiennes, III (1956), 92-162, e ora in Tre saggi sul teatro (Ruzante, Aretino, Goldoni), Vicenza 1964, pp. 11-68 (al saggio del Baratto, cfr. la rec. di M. Dazzi in Letterature moderne, VIII [1958], n. 1, pp. 98-100); M. Milani, L'educaz. letteraria e l'"oratoria", del Ruzzante, in Misc. di studi offerta a A. Balduino e B. Bianchi per le loro nozze, Padova 1962, pp. 51 ss.; N. Borsellino, La datazione dell'Anconitana, in Giorn. stor. della lett. ital., CXXXIX(1962), pp. 246-55; Id., introduzione a Commedie del Cinquecento, Milano 1961, passim;E. Menegazzo-P. Sambin, Nuove esploraz. archivistiche per A. B. e A. Cornaro, in Italia medioevale e umanistica, VII (1964) (I, P. Sambin, Lazzaro e Giovanni Francesco Beolco, nonno e padre del Ruzzante, pp. 133 ss.; II, E. Menegazzo, Ricerche intorno alla vita e all'ambiente del Ruzzante e di A. Cornaro, pp. 180 ss.; III, P. Sambin, Altre testimonianze [1525-1540] di A. B., pp. 221 ss.); Encicl. dello Spett., VIII, coll. 1342-1349.
Di utile consultazione, per inserire l'opera del B. nella tradizione dialettale, sono le seguenti opere, oltre agli Antichi testi..., editi dal Lovarini: Le rime di Bartolomeo Cavassico, con intr. e note di V. Cian e con illustraz. linguistiche e lessico di C. Salvioni, 2 voll., Bologna 1893-94; D. Merlini, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano, Torino 1894; Farsa de Ranco e Tuogno e Beltrame, a c. di L. Zorzi, Padova 1956. Cenni sul B. in E. Carrara, La poesia pastorale, Milano 1917, passim;G. Fiocco, A. Cornaro e i suoi trattati dell'architettura, in Memorie dell'Acc. dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filol., s. 8, IV (1952), pp. 197 s., 202, 204 s.; Id., La casa di Alvise Cornaro,in Miscellanea in onore di R. Cessi, II, Roma 1958, pp. 69-77; G. Devoto, Profilo di storia linguistica italiana, Firenze 1953, p. 93 e passim;I. Sanesi, La Commedia, Milano 1954, pp. 459 ss.; D. Valeri, Caratteri e valori del teatro comico, in La civiltà veneziana del Rinascimento, Firenze 1958, pp. 16-21; E. Battisti, L'Antirinascimento, Milano 1962, passim;C. Dionisotti, Per una storia della lingua italiana, in Romance philologo, XVI (1962), n. I, pp. 41 ss.; C. Segre, Polemica linguistica ed espressionismo dialettale, in Lingua, stile e società, Milano 1963, pp. 383 ss. (rec. di P.V. Mengaldo, in Belfagor, XVIII[1963], pp. 617 ss.).