REVELLI, Benvenuto
REVELLI, Benvenuto (Nuto). – Nacque a Cuneo il 21 luglio 1919, da una famiglia della media borghesia cittadina, ultimo di quattro figli di Ermete (funzionario della Cassa di risparmio di Cuneo) e di Maria Girardi.
Diplomatosi come geometra presso l’istituto tecnico F.A. Bonelli di Cuneo, nel 1939 entrò nella Regia accademia militare di Modena e, nel luglio del 1942, in qualità di sottotenente, poi tenente, venne inviato sul fronte russo, con la divisione Tridentina, 5° reggimento alpini, battaglione Tirano. Un’esperienza che segnerà la sua vita, con la tragica ritirata dalla linea del Don, del gennaio del 1943, lungo la quale risultarono dispersi, o vide morire, la maggior parte degli uomini che erano con lui.
Rimpatriato il 17 marzo 1943, con postumi di congelamento e affetto da pleurite, venne ricoverato in ospedale e restò in licenza per convalescenza fino all’8 settembre 1943. Avendo maturato negli anni di guerra una profonda ostilità per il regime e sentimenti di critica verso l’esercito, subito dopo l’armistizio entrò nella Resistenza, organizzando dapprima in modo spontaneo una sua banda denominata Compagnia rivendicazione caduti e aderendo poi alle formazioni di Giustizia e Libertà che lo videro operare fino alla Liberazione come comandante partigiano sui monti del Cuneese e, quindi, sul versante francese. Qui, in particolare, riportò gravissime ferite e mutilazioni al volto che ne cambiarono la fisionomia, conferendogli un’accentuata asimmetria.
Nel maggio del 1945 si sposò con Anna Delfino, sua compagna per la vita, negli anni solidale figura di riferimento. Nel 1947 nacque il figlio Marco.
Con due medaglie d’argento conseguite sul fronte russo, diverse altre decorazioni e una promozione da capitano a maggiore per meriti di guerra in seguito ad attività partigiana, ottenne poi di essere collocato nella riserva e quindi definitivamente in congedo (dal luglio del 1949). La motivazione recitava «per grave stato di salute», in realtà, come Revelli teneva a sottolineare, l’esperienza vissuta l’aveva portato a «odiare la divisa», tanto da giurare a sé stesso di non indossarla mai più. Scriveva ad Aldo Garosci, nel maggio 1948: «Il partigianato non solo mi ha cambiato i connotati ma anche… la testa e a risentire parlare di divise, di colonnelli, onor militare etc. mi sento venir freddo» (Archivio Nuto Revelli, faldone 127.10).
Posto, quindi, nel dopoguerra di fronte alla necessità di una collocazione da civile cercò dapprima di operare come geometra, poi diede inizio all’attività in proprio di compravendita di materiale in ferro (ditta Nuto Revelli-Ricuperi metallici) che avrebbe portato avanti, ampliandola, fino al 1978.
Contemporaneamente urgeva in lui la necessità di testimoniare quanto vissuto, perché non fosse dimenticato, avviandolo a un compito di narrazione e ricerca che si sarebbe fatto negli anni vero e proprio monumento alla memoria («Ho sempre avuto il culto della memoria. Appartengo alla categoria di quelli che hanno voluto e vogliono ricordare. Io credo nella memoria. Ricordo che in uno dei momenti più drammatici della mia esperienza di guerra giurai a me stesso di non dimenticare. E mantenni la promessa», Archivio Nuto Revelli, faldone 152.17, appunti preparatori, 1992). Si impegnò in particolare intorno a due temi, tra loro strettamente intrecciati: innanzi tutto l’esperienza della guerra, su cui continuò costantemente a intervenire, ripercorsa compiutamente nei primi quattro lavori, sia in prima persona sia come tramite di racconti e ricordi di altri «testimoni» fino a quel momento inascoltati (Mai tardi, il suo diario di Russia, pubblicato nel 1946 a Cuneo e poi riedito da Einaudi, che resterà il suo editore; La guerra dei poveri, del 1962, comprendente l’esperienza del fronte russo e quella partigiana; La strada del Davai, del 1966, dove raccolse per la prima volta, stenografandole, le testimonianze di reduci della prigionia in Russia, e infine L’ultimo fronte, del 1971, raccolta di epistolari e ultime lettere alle famiglie di caduti e dispersi sui diversi fronti, soprattutto quello russo). Il secondo tema si sviluppò in modo naturale dalle ricerche per il primo. Fu entrando nelle case della campagna povera del Cuneese, sulle tracce dei suoi alpini, che venne infatti ulteriormente maturando in Revelli la volontà di raccogliere «le voci dal basso», per dare la parola ai «sordomuti» della storia – come tante volte dirà nelle riflessioni autobiografiche (per tutte, oltre alle introduzioni ai suoi diversi volumi, I conti con il nemico. Scritti di Nuto e su Nuto Revelli, a cura di L. Bonanate, Torino 2011) – insieme a un’accorata denuncia dell’abbandono, e conseguente spopolamento, del mondo contadino della montagna e dell’alta collina di fronte allo sviluppo industriale della pianura, nella veloce trasformazione dell’Italia del dopoguerra.
Nacquero così Il mondo dei vinti (Torino 1977) e L’anello forte (Torino 1985). Nel loro insieme una selezione di più di cinquecento storie di vita contadina, ripartite per area territoriale (la pianura, la collina, la montagna, le Langhe), questa volta registrate su magnetofono e tutte raccolte, in anni di ricerca, come per il complesso dei suoi lavori, nell’ambito della provincia di Cuneo. Nel secondo caso un affondo sulle figure femminili e, al loro interno, sulla vicenda delle «calabrotte», le spose venute dal Sud tramite matrimoni combinati. Due libri che gli diedero celebrità in Italia e all’estero e che lo resero riferimento significativo tra quanti, proprio in quegli anni, andavano affermando anche in Italia l’importanza delle fonti orali.
Chiamato, con sempre maggiore frequenza, a dibattiti, incontri pubblici e trasmissioni radiotelevisive, teneva però a ribadire: «[…] non sono né uno storico, né un sociologo, né un antropologo. Sono un autodidatta della ricerca, sono una persona che vuole capire la società in cui vive. Sono quello che sono e basta» (Una esperienza di ricerca nel mondo contadino, in Storia orale e storie di vita, a cura di L. Lanzardo, Milano 1989, pp. 43-51, in partic. p. 44). E, di fatto, il lavoro di Nuto Revelli si configura per molti versi come un unicum, per l’unione tra la sistematica, rigorosa e paziente ‘lentezza’ della raccolta (resa possibile grazie a fondamentali figure di «mediatori») e la forte tensione umana, attenzione all’ascolto e valenza morale sottese al suo incontro con un mondo che gli sembrava altrimenti destinato a essere dimenticato.
Videro la luce infine Il disperso di Marburg (Torino 1994), ancora una volta un meticoloso lavoro di indagine sulle tracce di un soldato tedesco da tutti ricordato, al limite del fabuloso, come ‘buono’, ricerca complessa nella concreta individuazione delle fonti e per profondità di riflessione sul suo stesso modo di sentire, in cui affrontò e venne a patti con il pregiudizio antitedesco radicato nell’esperienza giovanile; Il prete giusto (Torino 1998), lunga storia di vita di un curato di campagna dal coraggioso percorso ‘ribelle’; Le due guerre, a cura di M. Calandri (Torino 2003), frutto di un ciclo di lezioni – su fascismo, guerra, Resistenza – tenute nel 1986 presso l’Università di Torino su invito di Giorgio Rochat.
Un complesso di opere strettamente legate al territorio documentato e alla sua rappresentazione e, al tempo stesso, di ben più ampio respiro. Contributo per gli studi di storia sociale italiana della seconda metà del Novecento che gli valse, soprattutto tra gli anni Ottanta e Novanta, premi e riconoscimenti, nonché diverse occasioni a livello accademico (tra queste, la serie di lezioni presso l’Università della Calabria, nella primavera del 1982, che – insieme al viaggio tra le popolazioni colpite dal terremoto dell’Irpinia, nel gennaio dell’anno precedente, accompagnato da Manlio Rossi Doria con il quale aveva da tempo intessuto un rapporto – costituirono il suo incontro con la realtà del Mezzogiorno) e istituzionale (come la partecipazione, nel 1987, alla Commissione ministeriale Leopoli, sul presunto eccidio di migliaia di soldati italiani nel settembre del 1943 da parte tedesca, conclusasi, di fronte al nulla di fatto, con una sua polemica relazione di minoranza). Fino al conferimento della laurea honoris causa dall’Università di Torino, nel 1999: il discorso qui tenuto, Sull’ignoranza, si configurò come una sorta di testamento morale e insieme esegesi di tutto il suo percorso («Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi […]. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della ‘generazione del Littorio’ […]», testo riportato in I conti con il nemico, cit., p. 7).
Parallelamente al lavoro di ricercatore e scrittore, ma a esso coerentemente collegato, è dunque da ricordare anche l’ininterrotto impegno civile di Revelli. Fin dalla Liberazione divenne, infatti, figura di riferimento negli ambienti laico-democratici di Cuneo (tanto più dopo la morte accidentale, nel 1953, di Dante Livio Bianco, suo ‘maestro’ nella guerra partigiana); mai legato davvero a un partito, dopo lo scioglimento di quello d’Azione in cui militò nell’immediato dopoguerra, e refrattario a qualsiasi forma retorico-celebrativa, fu però catalizzatore costante di idee e progetti sia politici sia culturali. In particolare, oltre a battersi a lungo per i dovuti provvedimenti a favore dei reduci di guerra, il cui abbandono lo indignava, prese parte attivamente, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, a iniziative significative per la città e il suo territorio (dalla ripresa, nel 1956, della testata risorgimentale La Sentinella delle Alpi, che divenne palestra di incontro con le più giovani generazioni, al comitato antifascista Cuneo brucia ancora, nato nel 1958 intorno a un tentativo di comizio del Movimento sociale italiano osteggiato da larghe componenti della popolazione, alla fondazione, nel 1964, in accordo con l’amministrazione provinciale, dell’Istituto storico della Resistenza di Cuneo, al quale rimase legato). Nell’ambito del suo impegno divulgativo si occupò, inoltre, anche di mettere in evidenza i pericoli insiti nella scarsa attenzione per la montagna all’interno del processo di ‘modernizzazione’ del Paese: «Tre giorni di pioggia torrenziale e avviene il disastro. I torrenti di montagna impazziscono – scriveva sulla Stampa il 6 novembre 1994 – […] Aver trasformato con superficialità migliaia di montanari, di specialisti nella manutenzione del territorio, in operai generici, è stato un errore imperdonabile» (Archivio Nuto Revelli, faldone 205.12). Frequenti, tra l’altro, gli interventi nelle scuole di ogni grado, compito cui non si sottrasse mai fino agli ultimi anni.
Morì a Cuneo il 5 febbraio 2004.
Successivamente alla sua scomparsa, dall’iniziativa congiunta della famiglia, di amici e collaboratori è nata la Fondazione Nuto Revelli, con sede nella casa di Cuneo dove aveva vissuto e dove è conservato il suo archivio. L’attività della Fondazione intende il lascito metodologico e documentario di Revelli come ponte dinamico tra conservazione della memoria, riflessione sul presente e progettazione futura (in tal senso: il progetto audiovisivo Il popolo che manca, che «riveste» le voci contadine raccolte da Revelli con le immagini, nella contemporaneità, dei luoghi a cui si riferiscono; il recupero delle baite di Paraloup, la borgata del comune di Rittana, in Valle Stura, sede tra il settembre del 1943 e la primavera del 1944 della banda Italia Libera, di Giustizia e Libertà, capitanata tra gli altri da Duccio Galimberti. Località emblematica dell’itinerario partigiano di Revelli, divenuta dal 2010 centro di incontri e manifestazioni).
Tutte le opere di Revelli sono state più volte ristampate e, in alcuni casi, ridotte in edizione scolastica e tradotte in francese, inglese, tedesco e giapponese.
Fonti e Bibl.: Cuneo, Archivio Nuto Revelli (l’archivio, stimato in 55 metri lineari, conserva la documentazione raccolta e prodotta da Revelli relativamente alla sua vita privata, all’esperienza resistenziale e come ricercatore, scrittore, divulgatore. Qui sono inoltre conservati i nastri originali delle testimonianze da lui raccolte sul campo, il cui restauro digitale si è concluso nel 2016).
Il presente e la storia, 1999, n. 55, monografico: N. R. percorsi di memoria, a cura di M. Calandri - M. Cordero; G. Cinelli, N. R. La scrittura e l’impegno civile, dalla testimonianza della Seconda Guerra Mondiale alla critica dell’Italia repubblicana, Torino 2011 (in questo volume, come nel precedente, ampi riferimenti biografici e indicazioni bibliografiche; così come per approfondimenti biografici, M. Calandri, Per Nuto, in Il presente e la storia, 2003, n. 64, pp. 307-314); N. Revelli, Il popolo che manca, a cura di A. Tarpino, Torino 2013; N. Revelli, Il testimone. Conversazioni e interviste, 1966-2003, a cura di M. Cordero, Torino 2014; P. Agosti, Il destino era già lì. Le donne de L’anello forte e Il mondo dei vinti di Nuto Revelli in quarantasei fotografie di Paola Agosti, Boves 2015.
Per quanto riguarda le attività della Fondazione si vedano: Fondazione Nuto Revelli, Il popolo che manca, serie documentaria. Il lavoro/la terra/le migrazioni, tre film di A. Fenoglio - D. Mometti (con testi degli stessi e M. Revelli), Cuneo 2011; Resistenze. Quelli di Paraloup, a cura di B. Verri - L. Monaco, Torino 2013; collana Quaderni di Paraloup: Il recupero di Paraloup, luogo simbolo della Resistenza, Cuneo 2007; Atlante dei borghi rurali alpini, il caso Paraloup, a cura di D. Regis, Cuneo 2012.
Per immagini di Revelli e dei suoi luoghi partigiani si vedano i film-documentari, Nascita di una formazione partigiana, di E. Olmi e C. Stajano, realizzato per Rai Uno nel 1973, e Le prime bande, realizzato da Paolo Gobetti con l’Archivio nazionale cinematografico della Resistenza, 1983. Si veda inoltre: Fondazione Nuto Revelli, Breve storia di un ritorno, contributo video di T. De Luigi, 2011.