CIMA, Benuttino
Nacque verso la metà del sec. XIV in Cingoli (Macerata) da Tanarello di Pagnone, dell'antica famiglia dei Cima, e da Elisabetta Silvestri.
Il capostipite della famiglia, Attone, era signore del castello di Cyma o Cuma, nei pressi di Cingoli, fino al 1030, anno in cui il castello fu distrutto dai Normanni. In quell'occasione i Cima si trasferirono nel vicino castello dello Staffolo, ma nel sec. XIII furono costretti a risiedere in Cingoli, poiché quel Comune voleva esercitare un controllo diretto sul proprio contado. Nella città i Cima presero parte attiva alle lotte tra guelfi e ghibellini, ponendosi a capo della fazione guelfa. Tanarello, padre dei C. e imparentato con il vescovo di Firenze Francesco Silvestri, poiché ne aveva sposato la nipote Elisabetta, fu vicario pontilicio di Cingoli nel 1347.
Guelfo secondo la tradizione familiare, il C. militò al servizio dei cardinale Albornoz insieme col fratello Pagnone, contri buendo validamente alla riconquista dei territori della Chiesa, che il prelato spagnolo andava in quegli anni compiendo. Sperò in questo modo di ottenere la nomina pontificia a vicario di Gingoli - carica che già aveva ricoperto, oltre al padre Tanarello, anche il nonno Pagnone - e ristabilirvi così il dominio dei Cima. I suoi desideri, però, non furono esauditi, e il C., deluso per non aver ottenuto la nomina, si mise dalla parte della Repubblica fiorentina, partecipando alle ostilità che la Repubblica intraprese contro Gregorio XI, chiedendo come controparte appoggio per impadronirsi del governo di Cingoli. Nel 1375 riuscì ad entrare nella città con l'aiuto dei fratelli, grazie ai contingenti di truppe inviatigli da Firenze al comando di Bartolomeo Smeducci, e ricacciò l'esercito pontificio fino ad Argiano. Si fece quindi proclamare signore di Cingoli e riconquistò per intero il territorio che in antico era appartenuto alla città e che era stato smembrato tra i Comuni vicini; si impadronì inoltre di Montefilottrano strappato al Comune di Osimo.
Il colpo di mano del C., e ancor più il fatto che egli si fosse schierato al fianco di Firenze nella guerra degli Otto santi, partecipando alla rivolta generale degli Stati di dominio pontificio, provocarono durissimi provvedimenti da parte della Sede apostolica: il signore di Cingoli e la sua famiglia furono scomunicati dal vescovo di Osimo per ordine dì Gregorio XI. Cingoli stessa fu posta sotto interdetto per aver accettato la signoria del Cima.
Sembra comunque che nel 1377, nel corso delle operazioni militari che portarono alla riconquista dei possessi della Chiesa nell'Italia centrale, la Sede apostolica riuscisse a ristabilire la sua autorità su Cingoli e ad imporre come rchore del Comune un legato pontificio. Nel 1378, conclusisi felicemente a Sarzana. grazie anche alla mediazione di Barnabò Visconti, i contatti preliminari per un accordo, il papa Urbano VI, succeduto a Gregorio XI, concedeva ai Fiorentini e ai loro alleati la pace ed il perdono (28 luglio). Nel trattato furono compresi anche il C. ed i suoi familiari, i quali ottennero la reiroca dei provvedimenti che l'autorità ecclesiastica aveva preso nei loro confronti; ottennero anche che il governo di Cingoli ritornasse nelle loro mani.
Nel 1380 il C., desideroso di ampliare il proprio dominio con la conquista di Montecchio, scese in guerra aperta contro il Comune di Osimo, che gli era ostile a causa della perdita di Montefilottrano: le operazioni militari, tuttavia, non furono favorevoli al C., che si vide costretto a mettere Cingoli sotto la protezione di Ancona e a richiedere la mediazione della, città adriatica per venire ad un accordo di pace con Osimo. Nel 1382, obbligato dalla alleanza che lo legava ad Ancona, mandò in aiuto di quel Comune centocinquanta fanti che parteciparono alla riconquista, della rocca di San Cataldo, occupata da Luigi d'Angiò, sostenitore dell'antipapa Clemente VII e da questo spinto contro Ancona, fedele a. Urbano VI. Il C. sottrasse Cingoli alla pesante protezione anconetana solamente nel 1393 e grazie ad un accordo col papa: in quell'anno infatti fu nominato da Bonifacio IX, con una bolla del 14 maggio, vicario di Cingoli e dei suo territorio per un periodo di dodici anni. Dal canto suo il nuovo vicario, che del resto già da tempo esercitava personalmente il potere sulla città - forse dal 1386, anno della morte del fratello maggiore, Masio -, aveva dovuto prestare giuramento di fedeltà al papa e alla S. Sede.
Secondo l'Avicenna il C. avrebbe sfruttato il potere quasi assoluto che esercitava sul Comune di Pingoli dopo la morte del fratello per arricchirsi comprando a prezzi irrisori vasti appezzamenti di terreno dai contadini, che minacciava di far arrestare per reati che non avevano commesso, ma di cui egli avrebbe fornito le prove all'autorità giudiziaria, se non si fossero sottomessi ai suoi voleri.
Ottenuto dalla Curia il riconoscimento ufficiale della sua signoria su Cingoli, riconoscimento esteso anche a suo figlio Giovanni e al nipote Giovambattista, il C. dovette far fronte a un tentativo di rivolta delle famiglie cingolane più potenti, guidate dalla casata dei Maria, desiderose di estromettere i Cima dalla loro ormai consolidata posizione di potere. Soffocata la ribellione, egli strinse alleanza con diversi nobili signori e Comuni della Marca di:Ancona per debellare definitivamente le bande dei mercenari brettoni, che, scesi in Italia al servizio dell'antipapa Clemente VII e in seguito sconfitti da Biordo Michelotti, continuavano a devastare l'Italia centrale con saccheggi e violenze; avevano infatti occupato a tradimento, Castel Sant'Angelo nelle Marche e ne avevano fatto la propria base nella speranza di impadronirsi anche di Cingoli. La campagna condotta dal C. si concluse rapidamente con la dis.fatta dei brettoni.
Nel delicato periodo di riorganizzazione degli Stati di dominio pontificio che seguì al ritorno della Sede apostolica a Roma, il C. godette della fiducia e della stima di Bonifacio IX, certamente anche perché amico intimo di Andrea Tomacelli, fratello del papa e governatore della provincia della Marca. Prova ne è il fatto che ottenne da Bonifacio IX che sua figlia Anfelisia fosse nominata nel 1395 badessa del monastero di S. Caterina di Cingoli e che a questo monastero venisse unito quello di S. Giacomo di Colleluce. In quell'occasione anzi il papa donò al C. alcune reliquie che, montate in una croce d'argento, furono offerte al monastero di S. Caterina. Ma il segno più evidente della stima e fiducia di cui il C. godeva presso il papa è che in quegli anni Bonifacio IX lo insignì della Rosa d'oro, una delle più alte onorificenze pontificie, concessa solitamente a sovrani o a chi si fosse dimostrato fedele servitore della Chiesa.
Nel 1395 il C. concesse ai territori sottoposti alla sua autorità nuovi statuti, che vennero ratificati, a nome della Sede apostolica, da Matteo dell'Amatrice, giudice curiale di Andrea Tomacelli. Nel 1400 egli venne nominato da Bonifacio IX senatore di Roma. Le ragioni della scelta sembrano doversi ricercare nella necessità, in cui si trovava il pontefice, di consolidare e rendere effettivo il suo potere su Roma eliminando l'ingerenza della nobiltà e degli esponenti delle fazioni popolari cittadine dalla gestione politica e dalla amministrazione della città. Per raggiungere tale scopo il papa doveva quindi mettere nelle posizioni-chiave del governo di Roma uomini di provata fedeltà o quanto meno non tanto influenti da poterglisi opporre, qualità tutte e due che il C. aveva dimostrato di possedere. Entrato in carica, confermò gli statuti di alcune arti di Roma: quelli dei mercanti il 27 marzo, dei merciai il 2 aprile, dei banchieri il 30 aprile e dell'arte della lana il 31 maggio.
Morì con ogni probabilità a Roma nello stesso 1400; ebbe splendidi fimerali e fu sepolto nella chiesa dell'Aracoeli, come ricorda una lapide nella cappella dell'Immacolata Concezione, fatta porre da Pietro Iacobo Cima nel 1619.
Il C. ebbe in moglie Ambrosina figlia di Giovanni conte dell'Anguillara, che gli diede, oltre ad Anfelisia, due figli maschi, Giovanni, che sarà anche lui senatore di Roma, e Giovambattista, morto senza figli.
Fonti e Bibl.: A. Theiner, Codex diplomaticus domimi temporalis S. Sedis, II, Romae 1862, p. 76n. XXVI; G. B. Gatti, Statuti dei mercanti di Roma, Roma 1885, p. 120; E. Stevenson, Statuti delle arti dei merciai e della lana di Roma, Roma 1893, pp. 56, 158; V. Scampoli, Discorso apologico in difesa della militia ecclesiastica, Foligno 1644, pp. 173 s.O. Avicenna, Mem. della città di Cingoli, Jesi 1644, pp. 176 ss., 196, 198, 243, 269, 321, 329 s.;C. Cartari, La Rosa d'oro Pontificia, Roma 1681, p. 66;O. Romano, Mem. istor. della Chiesa e convento di Santa Maria. in Araceli di Roma, Roma 1736, pp. 235 s.;A. Vendettini, Serie cronologica de' senatori di Roma, Roma 1778, p. 66;D. M. Manni, Osservaz. Storiche sopra i sigilli antichi, IV, Firenze 1790, pp. 23, 40; A. Vitale, Storia diplomatica de' senatori di Roma, II, Roma 1791, pp. 359 s.;F. Raffaelli, Della fedeltà dei Cingolani alla S. Sede apostolica, Macerata 1850, p. 29;O. Vitalini, Sigilli di Rinaldo e Benotino Cima, in Bull. di numismatica e sfragistica, II (1884), pp. 251-255; E.Colini Baldeschi, Signorie e vicariati nella Marca d'Ancona, in Atti e mem. della R. Deput. di storia patria per le Marche, s. 4, II (1925), p. 50; A. Salimei, Senatori e statuti di Roma nel Medioevo, II, Roma 1935, p. 155; M. Natalucci, Ancona attraverso i secoli, I, Città di Castello 1960, pp. 390-393; A. Esch, Bonifaz IX. und der Kirchenstaat, Tübingen 1969, pp.80, 546, 599 s.; P. Litta, Le fam. celebri ital., sub voce Cima di Cingoli.