BENTIVOGLIO
. Vuole una tardiva leggenda popolare che la famiglia Bentivoglio derivasse da re Enzo e da una giovane di Viadagola di nome Lucia, alla quale, in prova di affetto, Enzo re, che era prigioniero dei Bolognesi, ripeteva Ben ti voglio: ma la leggenda non ha fondamento alcuno di verità, tanto più che prima di re Enzo vediamo ricordati nelle carte bolognesi spesse volte dei personaggi appartenenti a questa cospicua famiglia. Tra la fine del sec. XIII e il principio del XIV parecchi membri di essa ebbero parte nelle fazioni e nelle vicende storiche della città, quantunque in sott'ordine; e val la pena di ricordare un Albertinello, un Bentivoglio, un Giacomo e un Ivano (1323) che ebbero qualche fama e che appartennero tutti alla fazione popolare o guelfa, più o meno legata ai Pepoli. Maggior potere acquistarono i B. nel sec. XIV. Per la loro fedeltà alla fazione pepolesca, anche dopo la vendita della città che Giovanni e Giacomo Pepoli fecero ai Visconti, si esposero all'ira di Giovanni da Oleggio divenuto signore di Bologna nel 1354: in quell'anno Michele B., fu mandato a morte, mentre altri membri della famiglia, come Francesco, Antoniolo di Bertuccio, Antoniolo di Albertinello, Andrea e Andalò, per ricordare solo i principali, poterono salvarsi con l'esilio. Alla caduta dell'Oleggio nel 1360 e con l'entrata vittoriosa in Bologna del cardinale Egidio Albornoz, legato del papa, i B. poterono tutti rientrare in patria; e da questo punto, protetti dalla Chiesa, ebbero non poca importanza e influenza nella storia cittadina. Antoniolo fu inviato spesso ambasciatore ai potentati italici dal comune bolognese; Salvuzzo, suo figlio, ebbe parte cospicua nei Raspanti, ebbe uno dei primi posti nella rivoluzione del 1376-77 e morì nel 1394, combattendo per i Bolognesi contro Niccolò d'Este; Andrea d'Antoniolo (morto nel 1403) fu esiliato dagli Zambeccari nemici dei B., e Bente e Andalò di Michele sulla fine del sec. XIV coprirono parecchi notevoli uffici nella città. Poi, nella storia di Bologna del sec. XIV, dalla famiglia escono i capi della città, o come veri e proprî signori o come primi cittadini e dominatori. Già sulla fine del sec. XIV si contendevano il primato in Bologna due ricche e potenti famiglie: quella dei Gozzadini rappresentata da Nanne, e quella degli Zambeccari rappresentata da Carlo. Ad un certo momento lo Zambeccari ebbe la preponderanza; ma di tali contese si giovò Giovanni I B. che, aiutato dai suoi parenti e con l'appoggio dei Manfredi e dei Visconti, il 27 febbraio 1401 si proclamò signore di Bologna. Sennonché cominciarono tosto i guai e le gelosie: contro di lui mossero le armi due grandi condottieri: Alberico da Barbiano e Iacopo dal Verme; in città si ordivano congiure; non gli rimaneva per restare al potere se non una grande vittoria. Ed egli la cercò a Casalecchio il 24 giugno 1402, combattendo contro i viscontei: subì invece una tremenda sconfitta, nonostante che combattesse da prode. Ricoveratosi in Bologna, fu scoperto e trucidato. Anton Galeazzo, suo figlio, dovette per parecchi anni stare assente da Bologna; ritornato, ebbe parte cospicua nella ribellione del 1416 contro il papa, e, quantunque i Bolognesi si accordassero con Martino V nel 1417, Anton Galeazzo, che aveva in città alte cariche, nel 1420 s'impadronì del palazzo e divenne signore della città. Contro di lui mossero tosto i Canetoli ed altre famiglie; il B. cedette di nuovo Bologna al papa, ma con certi capitoli a favore dei concittadini che furono come una vittoria e si ritirò a Castelbolognese. Allontanati i Canetoli da Bologna, Anton Galeazzo poté rieritrare in città il 4 dicembre 1435, accolto come un trionfatore. L'entusiasmo popolare e le pubbliche manifestazioni che si fecero nei giorni seguenti misero in sospetto il legato pontificio: questi, invitato Anton Galeazzo il 23 dicembre nel suo palazzo a udire la messa, dopo la sacra funzione lo fece prendere dagli sgherri, e ai piedi della scala del palazzo gli fece tagliare la testa. Il figlio Annibale B. dovette andare in esilio. Ritornato in Bologna nel 1438, favorì l'indipendenza di Bologna dal giogo visconteo; e perciò Niccolò Piccinino lo fece incarcerare nella rocca di Varano presso Parma (1442), di dove sarebbe certo passato al supplizio, se non fosse stato liberato, con un'impresa che ha del meraviglioso, da Tideo e Galeazzo Marescotti. Invece del supplizio, ebbe le acclamazioni del popolo al suo ritorno in Bologna; il governatore visconteo venne cacciato; Luigi Dal Verme fu sconfitto nel 1443 a San Giorgio; il castello di porta Galliera, simbolo della signoria, fu abbattuto, e Annibale divenne il primo cittadino di Bologna. Non volle proclamarsi signore; ma ciononostante i Ghisilieri e i Canetoli gli si mostrarono contrarî; ed egli finì vittima di un tradimento. Invitato a far da padrino in un battesimo dei Canetoli, per amor di pace accettò; ma all'uscita della chiesa fu pugnalato e steso morto a terra il 24 giugno del 1445. Il fatto destò tanto orrore e sdegno nei Bolognesi, che insorsero tutti, uccisero quanti trovarono dei Canetoli e ne distrussero le case. Nel primato della città ad Annibale poté così succedere Sante B., figliuolo naturale di Ercole a sua volta figliuolo di Giovanni I. Viveva Sante come nascosto in Firenze impiegato nell'arte della lana, col cognome di Cascese, presso un Antonio che passava per suo zio. Poiché Giovanni, figliuolo di Annibale, era in tenerissima età e i Bolognesi volevano dare alla famiglia un capo forte e tale da tenere in rispetto le altre fazioni, deliberarono di chiamare Sante: e questi, col consiglio di Cosimo de' Medici e di Neri Capponi, decise di accettare. Entrò in Bologna il 15 novembre del 1446 fra le acclamazioni del popolo. Quantunque giovane (aveva poco più di vent'anni), dimostrò tosto moderazione e senno. Egli comprese che non si poteva governare la città rimanendo in continua guerra con i potentati vicini e soprattutto col pontefice che ne aveva il sovrano dominio e che lo reclamava. Niccolò V che era stato vescovo di Bologna e che amava la città, consentì il 24 agosto del 1447 a stipulare con Sante B., e perciò con i Bolognesi, quel famoso concordato che durò sino al periodo napoleonico. Vi si stabiliva che Bologna riconoscesse la protezione della Chiesa; che avesse nel senato con 16 riformatori, anziani, confalonieri e massari delle arti; che un ambasciatore dei Bolognesi, detto oratore, risiedesse in Roma e che il pontefice tenesse a Bologna un legato dal consenso del quale doveva essere confermata ogni deliberazione del comune. Dopo ciò, Sante B. si mostrò inflessibile contro le fazioni che turbavano la città, sopprimendo ora l'una ora l'altra, quando non si poteva con il consiglio, con la forza, cosicché poté vivere sicuro sino al 1 ottobre 1462. Il suo governo fu saggio e provvido, la sua politica acuta e senza scrupoli. Sante diede inizio a quel rinnovamento edilizio di Bologna che fu poi continuato dal suo successore e pose le fondamenta, nella via di San Donato, del famoso palazzo bentivolesco. A Sante successe Giovanni II. Figlio di Annibale, era nato in Bologna il 13 febbraio del 1443; fin dal 1459 era stato ammesso nel senato tra i 16 riformatori e aveva potuto farsi un notevole seguito fra tutti coloro che avevano simpatizzato per il popolarissimo padre suo. Appena morto Sante, fu dal senato nominato confaloniere e assunse la carica con grande apparato: poco tempo dopo ottenne da Paolo II di essere tenuto come capo perpetuo del senato con diritto a due voti negli scrutinî (1466) e poco dopo ottenne anche la facoltà di poter cedere la sua carica al figliuolo primogenito. Era una signoria larvata, a guisa di quella che teneva Lorenzo de' Medici in Firenze. Cura di Giovanni B., politico senza dubbio fornito di abilità, fu di collegarsi e amicarsi con i maggiori principi d'Italia; pochi mesi dopo la morte di Sante sposò Ginevra Sforza, figlia del signore di Pesaro e parente del duca di Milano; ai Medici di Firenze porse più volte aiuto e in particolar modo nel 1478 in occasione della congiura de' Pazzi; difese gli Estensi nel 1482 contro i Veneziani; aiutò nel 1488 i Riario a riconquistare il dominio di Forlì; concesse in moglie a Galeotto Manfredi sua figlia Francesca (1481), la quale poi trucidò il marito per gelosia; diede Violante nel 1489 a Pandolfo Malatesta signore di Rimini: strinse insomma parentele e amicizie con i maggiori vicini. E ne ebbe onori e ricompense: parecchi feudi dal duca di Milano; il diritto di usare del cognome D'Aragona dal re di Napoli nel 1482; l'iscrizione al patriziato veneto nel 1488; la nomina a governatore generale delle armi da Lodovico il Moro. E aveva poi impiegati presso i potentati maggiori italici i suoi figliuoli Alessandro, Annibale ed Ermes in qualità di condottieri d'arme. Mentre così consolidava la sua posizione al di fuori, nell'amministrazione e nella vita della città portava il fasto, le feste, la cultura. Superba la costruzione del suo palazzo; insigni le chiese che egli fece erigere; importanti i lavori di abbellimento della città e specialmente la costruzione di vie e di piazze nuove; affollata la sua corte di letterati, pittori e artisti; saggio e frequente l'incoraggiamento dato alle industrie e al commercio. Tanta fortuna aveva destato le gelosie delle prime famiglie della città, in particolare di quella dei Malvezzi che ordì contro di lui la celebre congiura del 1488; e in tale occasione il vecchio senatore Malvezzi in pieno senato gli rinfacciò la servitù in cui tentava di ridurre la patria. Ma i Malvezzi furono o impiccati o incarcerati o esiliati, e i loro beni confiscati. A questo scempio si aggiunse nel 1501 quello dei Marescotti, a cominciare da Agamennone, capo della famiglia, sino ai nipoti e ai parenti e agli amici in numero di 200; scempio compiuto dai feroci figliuoli di Giovanni, da lui forse non istigato, ma tollerato certo ed accolto. Tali misfatti gli alienarono l'amore dei cittadini, nei primi anni così intenso. D'altra parte la calata in Italia di Carlo VIII aveva sconvolto tutto quel piano di alleanze e contro-alleanze che lo facevano primeggiare; e caduti i Medici, caduti gli Sforza, non gli rimase se non di affidarsi ai Francesi i quali gli promisero bensì (dietro lauti compensi) di salvargli lo stato, ma non di salvarlo dai diritti di signoria che aveva la Chiesa. Ond'è che quando Giulio II, nel 1506, deliberò la riconquista di Bologna, Giovanni B. si trovò solo. Luigi XII mandò lo Chaumont ad attaecare il B. a Castelfranco, mentre Giulio II si avanzava per la Romagna, vincitore a Castelbolognese. La notte del 2 novembre 1506 Giovanni abbandonò per sempre Bologna con tutta la numerosa famiglia. Tentò di restare Ginevra per gettarsi ginocchioni dinnanzi al papa; ma questi le ordinò di uscire prima che egli entrasse. Ginevra, che era stata non piccola cagione della sventura del manto per il suo contegno e le sue parzialità, morì a Busseto presso il Pallavicino il 16 maggio del 1507; e Giovanni B. ridottosi di città in città, scomunicato, a Milano fu chiuso in quel castello, ove morì di sgomento e di crepacuore nel 1508. I figli Annibale ed Ermes tentarono poco dopo di rientrare in Bologna, ma altro non fecero che dar occasione alla furia del popolo di distruggere il loro magnifico palazzo. Poterono, è vero, rientrare in signoria nel maggio del 1511, con l'aiuto dei Francesi, ma nel 1512 vennero ricacciati in seguito alla battaglia di Ravenna; e i tentativi posteriori del 1514, del 1522 e del 1527 subirono la stessa sorte. La famiglia B. riparò, nel suo principale nucleo, a Ferrara, e là fiorì nei secoli seguenti. Ad essa appartennero dotti e valorosi uomini fra cui i due celebri scrittori e diplomatici, cardinali Guido e Cornelio (v.).
Bibl.: P. S. Dolfi, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna, Bologna 1667; V. Armani, Della famiglia Bentivoglio, Bologna 1682; P. Litta, Famiglie celebri, Bentivoglio, Milano 1834; G. Gozzadini, Memorie per la vita di Giovanni II Bentivoglio, Bologna 1839; C. Malagola, Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro, Bologna 1878; R. Honig, Bologna e Giulio II, Bologna 1904; L. Sighinolfi, L'architettura bentivolesca in Bologna e il palazzo del podestà, Bologna 1909; G. Zucchini, Il palazzo del podestà in Bologna, Bologna 1912; R. Sorbelli, Il carteggio mediceo-bentivolesco dell'Archivio di stato di Firenze, Bologna 1917; G. B. Picotti, La neutralità bolognese nella discesa di Carlo VIII, in Atti e memorie della Deputazione romagnola di storia patria, s. 4ª, IX (1919); F. Bonfà Sorbelli, Il fondo storico delle "Porrettane" di Sabadino degli Arienti, Bologna 1927.