BENONE (Bennone)
Non si conosce la data e il luogo della sua nascita. La tradizione erudita del Cinque-Settecento, risalente almeno al Parivinio, lo dice di origine germanica, notizia accolta con un certo favore anche nella letteratura storica posteriore, che ha voluto trovarle una conferma nelle particolari espressioni di lode di cui B. si serve in uno dei suoi scritti per designare Goffredo di Lorena. Questo, unito alla circostanza che, a partire dal Ciacconio, B. compaia spesso come titolare di S. Sabina, fra i cardinali creati da Stefano IX, fratello del duca Goffredo, ha fatto supporre una sua origine lorenese.
La tradizione erudita è peraltro estremamente confusa nei suoi riguardi: il nome stesso oscilla fra le forme Beno, Benno, Bruno, e questo contribuisce a frequenti casi di sdoppiamenti, sotto diversi pontificati (Stefano IX, Alessandro II, Clemente III, Urbano II). La forma esatta del nome sembra essere, stando alla tradizione manoscritta delle opere, Beno, e quel che è certo - perché dichiarato da lui stesso - è che fu creato cardinale precedentemente al pontificato di Gregorio VII; da una sottoscrizione si può ricavare inoltre che nel 1082 il suo titolo era quello dei SS. Martino e Silvestro (titolo di Equizio).
Il 4 maggio 1082 B. partecipava a una riunione di cardinali che prendevano posizione negativa circa la legittimità di impiegare beni ecclesiastici nella lotta contro Guiberto di Ravenna, eletto da Enrico IV antipapa col nome di Clemente III. I cardinali dichiaravano "sacras res ecclesiarum nullatenus in militia saeculari expendendas" (cod. Vat. lat. 586, f. 125 v; cfr. Mansi, XX, col. 578, che dà la lezione "exponendas"), in quanto da riservarsi esclusivamente a opere di carità. Se si tiene presente che in quell'anno (stando a una glossa di un cod. canosino riferita dal Bethmann in nota all'ediz. della Vita Mathildis di Donizone, v. Mon. Germ. Hist., Script., XII, Hannoverae 1856, p. 385 n.) Gregorio VII impiegava nella lotta i beni della Chiesa di Canossa, la formulazione molto netta del principio da parte dei cardinali ha un sapore di critica alla linea di azione del pontefice e sembra quindi da considerare già come un primo sintomo di quella opposizione, di quella esigenza ad un controllo sull'operato del papa, che porteranno pochi anni dopo buona parte dei membri di questa riunione ad uno scisma clamoroso. Nel 1084, quando Enrico IV in Roma intronizzava Clemente III, tredici cardinali fra preti e diaconi si dichiaravano dalla sua parte, riconoscevano la deposizione di Gregorio VII e confermavano l'elezione di Guiberto; B. era fra questi. Il 4 novembre di quello stesso anno sottoscriveva insieme con altri undici cardinali (fra cui due nuovi vescovi creati da Guiberto) un privilegio dell'antipapa per S. Marcello.
I fondamenti e i motivi di tale presa di posizione B. espone in due scritti - pervenutici in corpo unitario con altri otto, tutti usciti dall'ambiente cardinalizio guibertino - il primo dei quali è preceduto' nella tradizione manoscritta, dal titolo Gesta Romanae Ecclesiae contra Hildebrandum.
Solo la più recente edizione (curata dal Francke e riveduta dal Dümmler per i Mon. Germ. Histor., Libelli de lite..., II, Hannoverae 1892, pp. 369-380) ristabilisce il titolo autentico, che in tutte le precedenti, a partire dall'editio princeps (s. l. né d. [Colonia 1532? Basilea 1530-34?], anteriore, in ogni caso, al 1535, anno in cui appare a Colonia già la seconda edizione, nel Fasciculus rerum expetendarum et fugiendarum di Ortwinus Gratius), compariva come Vita et gesta Hildebrandi. Il vecchio titolo, ad ogni modo, che metteva in rilievo un contenuto narrativo degli scritti, sembra aver continuato a pesare nella letteratura storica, che ha generalmente inteso anche il titolo autentico nel senso di 'storia' della Chiesa romana. Già il Fliche notava l'incoerenza, in ultima analisi, di tale titolo con l'effettivo contenuto, ma senza trame ulteriori conseguenze. Una interpretazione più fondata e plausibile ha dato viceversa lo Erdmann, traducendo gesta con "atti sinodali", espressione che si accorda pienamente sia con la specificazione contra Hildebrandum, sia con la forma dei due scritti, lettere entrambi, indirizzate la prima "reverentissimae matri sanctae Romanae aecclesiae", la seconda ai cardinali, "venerandis aecclesiae Romanae patribus". È sulla base di tale interpretazione che lo Erdmann può procedere a determinare la data di composizione, rimasta precedentemente nel vago, e situata generalmente ancora molto vicina al pontificato di Gregorio VII sulla base dei soli argomenti intemi, che sono in realtà molto poveri: il primo degli scritti infatti parla solo di Ildebrando (la cui morte risulta unicamente da un'espressione molto vaga dei I cap.); il fatto che B. si presenti come "cardínalium archipresbiters e specifichi che al tempo dell'abbandono di Gregorio VII da parte dei cardinali tale carica era ricoperta da Leone - così come il fatto che allora arcidiacono fosse Teodino, mentre al momento in cui B. scriveva tale officio spettava al cardinale Giovanni - sono notizie solo parzialmente utilizzabili ai fini di una più esatta datazione, data la scarsa conoscenza di dati biografici sul collegio cardinalizio di questo periodo: ché di Leone e Teodino risulta unicamente, dalla loro sottoscrizione al privilegio per S. Marcello, che erano ancora in vita nel novembre 1084. li secondo scritto, poi, allude esplicitamente ad Urbano II, col soprannome di "Turbanus", senza altri elementi di maggiore approssimazione. Se peraltro le due lettere (che in effetti, pur mancando di una vera e propria linea di sviluppo dall'una all'altra, conducono un discorso unitario e coerente) sono da porsi ambedue in rapporto con la riunione di un concilìo, Erdmann osserva che l'unico che si possa prendere in considerazione è quello del 1098, a cui si riportano, immediatamente o mediatamente, anche gli altri otto pezzi della silloge. È ancora dello Erdmann l'osservazione che non appartiene sicuramente a B. - come correntemente ritenuto nella letteratura storica, tranne vaghe osservazioni in senso contrario del Fauser - il terzo scritto, Contra decreta Hildebrandi: il chiaro rimando che esso contiene agli scritti precedenti ("... sicut plenius invenitur in libro, quem transscripsimus de Romanae aecclesiae gestis", Lib. de lite..., II, p. 394) mostra infatti - dato il significato di "transscribere", che non può intendersi altro che "trascrivere", "copiare" - che l'autore di questo scritto è anche il redattore di tutta la raccolta, compiuta probabilmente poco dopo il sinodo stesso, e persona ovviamente diversa da B.; da identificarsi con molta probabilità con il cardinale diacono Ugo, autore sicuro di almeno tre di questi scritti, fra cui una lettera indirizzata allo stesso B. ed al cardinale Romano.
Il sinodo in questione veniva tenuto a Roma dai soli cardinali scismatici, nell'estate 1098, in occasione dell'assenza di Urbano II (in viaggio nel Sud, dove convocava il concilio di Bari), ma, anche, in assenza di Guiberto, ormai definitivamente estromesso dall'urbe e soggiornante allora a Ravenna. In tre riunioni tenute dal 5 al 7 agosto i cardinali, rinnovata la condanna delle "eresie ildebrandine", redigevano una lettera ai loro colleghi fedeli ad Urbano, in cui offrivano garanzie perché "per maiores suos" - ossia Rainerio (il futuro Pasquale II) e Giovanni Burgundio - venissero a trattare la loro causa al concilio; più che una citazione, la lettera sembra voler essere invito ad un colloquio. La proposta veniva respinta, e in una successiva riunione, di cui ignoriamo la data, i "guibertini" pronunciavano contro gli avversari una solenne condanna, convocandoli ancora una volta - ma, ora, in ben diverso tono - davanti a un sinodo che avrebbe dovuto aver luogo il 10 novembre, e davano alle fiamme i decreti di Urbano. La presenza di B. a questi avvenimenti è testimoniata sia nella intitulatio della lettera ai cardinali "ildebrandini" (Lib. de lite..., II, p. 405), sia nella sottoscrizione alla condanna solenne dei canoni di Piacenza (ibid., p. 410).
I due scritti di B. riprendono i motivi chiave del decreto del sinodo di Bressanone, che nel 1080 aveva eletto antipapa Guiberto. Trovano così largo posto e quasi pittoresco svolgimento i motivi scandalistici riguardanti la persona di Ildebrando: la sua crudeltà ed "hausteritas", la sua avidità di potere e di denaro, l'usurpazione della carica di arcidiacono a spese di Mancio che già la occupava, la responsabilità - per tramite del complice Brazuto - nell'avvelenamento di tutta una serie di pontefici, i dubbi sull'eucarestia (in rapporto alla questione di Berengario di Tours), gli attentati contro la vita di Enrico IV, vengono ripresi ed illustrati con ampio materiale di episodi, fatti e personaggi tratti dalla vita romana. Nel secondo degli scritti, in particolare, il discorso viene ampliato risalendo ai "maestri" di Ildebrando, con la ricostruzione di una sorta di scuola di negromanzia, che parte da Gerberto (Silvestro II) per giungere fino a Ildebrando attraverso Teofilatto (Benedetto IX), Lorenzo d'amalfi, Giovanni Graziano (Gregorio VI): è un quadro di corruzione che abbraccia tutto il papato della prima metà del sec. XI e che procurerà a B. un notevole successo di attenzione e di edizioni, all'epoca della Riforma, e l'inclusione, - fra l'altro, nel 1556, nel Catalogus testium Veritatis di Flaccio Illirico (ma, anche, l'inserimento già nell'Indice di Paolo IV del 1559: v. H. Reusch, Die Indices librorum prohibitorum des XV. Jh.s, Tübingen 1886, pp. 180, 225, 467). Tale conferma a posteriori del decreto di Bressanone vuol però forse significare qualcosa di più di un pretesto per ribadire particolari piccanti: riallacciarsi a quel decreto, che era stato sottoscritto in prima linea da Ugo Candido, allora cardinale prete di S. Clemente, "vice omnium. cardinalium Romanorum" (v. Mon. Germ. Hist., Constit., I, p. 120), significava, sostanzialmente la volontà di ricondurre lo scisma imperiale pienamente all'interno di quella tradizione di deposizioni di pontefici ad opera congiuntamente dell'imperatore e di an sinodo romano che non mancava certo di precedenti, dall'epoca soprattutto degli Ottoni, e riaffermare quindi, in ultima analisi, l'ideale dell'"unitas ecclesiae": ossia di quell'armonia e collaborazione fra il regno tedesco e la Chiesa romana, che Gregorio VII aveva infranto, ma che doveva essere uno dei punti base del programma dei cardinali scismatici, sul modello dei rapporti fra Enrico III e la Chiesa romana nel 1046, quali B. li ritrae (ibid., p. 378), con l'intenzione di creare nell'elezione di Clemente II - compiuta da Enrico III, ma "religiosorum cardinafium precibus effiagitatus", e "ipsis auctoribus" - il preciso precedente e parallelo dell'elezione a pontefice di Clemente III ad opera di Enrico IV.
Su questa linea peraltro la posizione di B. non si esaurisce in una semplice conferma del decreto di Bressanone, ma tende anzi a correggerlo nel senso indicato dal precedente del 1046 e, soprattutto, nel senso delle particolari concezioni e pretese del gruppo cardinalizio circa il governo della Chiesa. Così, se a Bressanone si era insistito sulla illegittimità - sulla base soprattutto del mancato consenso del re - dell'elezione di Gregorio VII, giustificando quindi il procedimento come diretto contro un usurpatore, B., che pure avanza anch'egli forti riserve contro la canonicità di quell'elezione, e protesta che i cardinali si erano rifiutati di sottoscriverla, omette tuttavia qualsiasi riferimento al decreto del 1059 sull'elezione pontificia. Il fatto non ha mancato di colpire gli storici (cfr. Schnitzer, p. 34, Fliche, III, p. 252 n., e soprattutto Krause, p. 251 n. 50) e appare tanto più strano in quanto, nel secondo dei suoi scritti, a proposito di Clemente II, Leone IX e Cadalo, B. traccia un "ideale" di elezione papale, basato sulla stretta collaborazione dei cardinali con la corte tedesca, che corrisponde in pieno a quello espresso dalla redazione falsificata del decreto del 1059 (v. Krause, p. 250). Ma, in effetti, B. preferisce impostare la deposizione di Gregorio VII non tanto come estromissione di un invasore dalla Sede apostolica, quanto come procedimento, all'interno della Sede stessa, contro un papa eretico: il che offre indubbiamente maggior possibilità di rilievo per il ruolo dei cardinali. Il nucleo dell'argomentazione è imperniato così sull'eresia di Ildebrando che ha autorizzato l'intervento dei cardinali, garanti dell'ortodossia romana. Questo loro diritto è fin dalle prime righe fondato essenzialmente sul richiamo a due precedenti: la condanna di papa Liberio ad opera di Eusebio, per cui B. si rifaceva ai Gesta Eusebii Presbyteri (v. Acta Sanctorum augusti, III, p. 166), e la condanna di Anastasio II ad opera del clero romano, secondo la relazione del Liber pontificalis (ed. Duchesne, I, p. 258). È su questi due esempi che B. impianta la giustificazione e difesa dell'operato suo e dei suoi colleghi nel 1084; e, nello sforzo di adeguamento perfetto ai precedenti, è sulla scorta dei modelli adottati che B. "costruisce" l'eresia di Ildebrando, la quale si articolerà dunque in due punti principali. Innanzitutto, Ildebrando ha errato nella fede quando, nel decreto di scomunica contro Enrico IV (pur ingiusto ed emanato contro la volontà dei cardinali), ha eccettuato dalla sentenza coloro che comunicassero in terzo grado con gli scomunicati, eccezione che, secondo B., comporta una grave violazione dei canoni, anzi della stessa unità della fede: è evidente l'intenzionale parafielismo stabilito qui con le espressioni del Liber pontificalis circa Anastasio II, dalla cui comunione "multi clerici et presbiteri" si erano ritratti, "quod communicasset... Fotino, qui conimunis erat Acacio". Il Liber pontificalis specificava che Anastasio aveva così agito "sine consilio presbiterorum vel episcoporum vel clericorum cunctae ecclesiae catholicae": motivo particolarmente caro a B., che di conseguenza abbina regolarmente il tema della comunione in terzo grado con scomunicati a quello della rottura dell'"unitas ecclesiae".
La seconda accusa di eresia concerne la validità del battesimo amministrato "extra ecclesiam", che, secondo B., sarebbe stata riconosciuta da Gregorio VII, mentre costituirebbe un grave errore. La singolarità del fatto che si adduca in proposito proprio e solo il caso del battesimo (in genere lasciato fuori dalla discussione, molto viva e attuale invece sul problema delle consacrazioni: per la larghezza di consensi sulla validità in ogni caso del battesimo, cfr. Saltet, Les réordinations, p. 221) chiarisce la portata astrattamente polemica dell'argomento, che trae con ogni probabilità spunto dall'accenno dei Gesta Eusebii circa l'accordo di Liberio con la politica filoariana dell'imperatore Costanzo II, "ut non rebaptizarent populum".
È interessante notare lo sviluppo esuberante del motivo negli altri scritti del gruppo cardinalizio. È da osservare in complesso che, nella generale omogeneità degli argomenti circolanti nella raccolta, le lettere di B. sembrano avere una funzione di decisa introduzione, di polemica enunciazione dei temi su cui si svolgerà - in più ampio contesto, e, soprattutto, con maggior copia di documentazione canonistica, che in lui è assai scarna - la discussione, o meglio la confutazione delle posizioni. avversarie. Così, in particolar modo, il n. III (Contra decreta Hildebrandi) e il n. X (lettera di Ugo diacono alla contessa Matilde), sulla linea tracciata da B., riprendono la questione del battesimo, che viene però inserita, ora, in quella più ampia dei sacramenti in genere, e non più ricollegata al precedente di Liberio, ma riportata anch'essa al caso di Anastasio II, sulla base della lettera all'imperatore Anastasio, in cui il pontefice riconosceva esplicitamente la validità dei sacramenti amministrati dall'eretico Acacio (il quale "male bona ministrando sibi tantum nocuit"): si tratta di uno dei testi classici per il problema in questione, continuamente citato in questi anni nel corso della polemica. Certamente lo sviluppo dato qui all'argomento è, in sé, più coerente e compiuto: il procedimento stesso seguito nel n. III, che si attiene ad una critica puntuale di testi gregoriani, la copia stessa del materiale can'onistico impiegato, inducevano a precisazioni e distinzioni. Così si finisce col chiarire, sia pure sempre in forma polemica - aggiungendo quindi di rincalzo l'accusa di incoerenza - come l'adesione di Gregorio VII all'eresia di Anastasio consista in fondo essenzialmente nella menzione del "beatus Anastasius" nella lettera ad Ermanno di Metz (v. Reg., IV, 2, ed. Caspar, p. 295), piuttosto che in una precisa difesa della validità dei sacramenti "extra ecclesiam", cui anzi altre affermazioni nel corso della medesima lettera sembravano opporsi (v. Lib. de lite..., II, p. 396; da cfr. in proposito le osservazioni di G. Miccoli, Le ordinazioni simoniache nel pensiero di Gregorio VII, in Studi mediev., IV, 1 [1963], pp. 109 s., n. 22); e si specifica inoltre (p. 397) che cosa sia da intendersi con l'espressione "extra ecclesiam", da usarsi solo nel caso di un'esplicita, ufficiale scomunica. Resta il fatto che viene qui clamorosamente alla luce la paradossale incoerenza - già presente, ma in forma molto più vaga ed implicita, nel procedimento di B. - con l'insegnamento proprio di quel Guiberto che si vuole eletto dai cardinali a sostituire Ildebrando, macchiatosi di "eresia anastasiana" il quale Guiberto nel concilio tenuto a Roma nel 1089 aveva proclamato esplicitamente, in polemica contro tesi sostenute nel campo gregoriano, la validità dei sacramenti amministrati - extra ecciesiam", sulla base, fra l'altro, proprio dei discusso testo di Anastasio (cf. Decretum Wiberti, in Lib. de lite..., I, p. 625).
Al di là degli espedienti polemici volti a fondarlo e a puntellarlo, ad ogni modo, ciò che rimane chiaro è il motivo fondamentale del diritto a giudicare il papa eretico come diritto esclusivo dei cardinali romani. Motivo non nuovo, né isolato, se si pensa che un gregoriano quale Bemoldo di Costanza aveva anni prima, in polemica con il concilio di Worms, ravvisato l'aspetto più scandaloso del procedimento contro Gregorio VII proprio nella pretesa a giudicare il pontefice romano da parte di "peregrini episcopi"; senza negare la possibilità e legittimità di un procedimento contro un pontefice, in caso di eresia - conformemente alla clausola "nisi a fide" - Bernoldo lo riservava però a una - Romana synodus": e in casi dubbi, solo con il consenso del pontefice stesso (v. Lib. de lite..., II, pp. 50 s.). Una traccia della tradizione canonistica che esigeva questo consenso del papa nei riguardi dei proprio giudizio (tradizione fondata sui falsi simmachiani: cfr. in proposito Zimmermann, Papstabsetzungen des Mittelalters, I, pp. 2 s.) è d'altronde presente -sia pure in forma paradossalmente polemica - nello stesso B., che dà rilievo al tema (presente e discusso anche in altri libellisti: da cfr. in particolare il passo di Bonizone di Sutri, in Lib. de lite…, I, pp. 616 s.) della falsa profezia di Ildebrando, nel 1080, sulla morte entro un prossimo termine di Enrico IV, unita allo scongiuro: "nullo modo habete me pro papa ulterius, sed ab altari me avellite...". L'uso che B. intende fare dell'episodio è chiarito dal commento: "Et divino nutu actum. est, ut a se ipso quoque dampnaretur hereticus" (pp. 371 s.). Anche in questo caso, il motivo toccato da B. viene ripreso e canonisticamente fondato dal diacono Ugo, che ai falsi simmachiani fa riferimento esplicito e dà preciso rilievo, proprio però nella direzione richiesta dalla sua polemica, che vuoi portare alle estreme conseguenze e liberare da ogni riserva il diritto all'intervento dei cardinali: così, quello che ad Ugo preme sottolineare, a proposito dello pseudo-sinodo di Sinuessa, non è affatto la parte svolta da papa Marcellino con la sua autocondanna, ma l'iniziativa del clero romano, che sola quell'autocondanna riesce a suscitare, e che sola rende possibile la deposizione (cfr. in proposito Zimmermann, Papstabsetzungen, IV, p. 91); così come del Constitutum Silvestri Ugo ignorerà il canone III, riservante a Dio solo il giudizio del "praesul summus", per discutere viceversa il canone XX, sul primato giudiziario della prima sedes. La clausola "nisi a fide", che non appare citata né da Ugo né da B., è al tempo stesso resa superflua ed implicitamente ovvia: ché il caso di eresia si esaurisce e si risolve all'interno stesso della prima sedes, intesa come costituita collegialmente dal clero romano. Ora, è proprio in questa concezione della prima sedes e in queste pretese avanzate sul suo privilegium (cfr. p. 375) che risiede l'originalità e l'importanza della teoria che B. rappresenta e che Ugo diacono precisa e formula: ché non è in questione solo il caso eccezionale e di emergenza dei papa eretico, ma l'esigenza di una continua, concreta e reale corresponsabilità dei cardinali nel governo della Chiesa. Così, al di là dei temi scindalistici di Bressanone, l'accusa sostanziale di B. contro Gregorio VII è in realtà quella di essersi sottratto alla collaborazione con i cardinali: "a consilio removit cardinales sacrae sedis" (p. 370; cfr. p. 380); continua appare la preoccupazione, ad ogni atto riferito, di sottolineare il dissenso del collegio ("praeter voluntatem et consilium cardinalium.", p. 370; "contradicentibus cardinalibus", p. 371, ecc.), e a più riprese per gli atti fondamentali del pontificato di Ildebrando si nota: "sed nullus cardinalium subscripsit" (p. 380; cfr. p. 370). Ugo diacono, da parte sua, giungerà ad una definizione netta delle prerogative dei cardinali - e specificherà: cardinali preti e diaconi - nel senso di un diritto a una continua e regolare assistenza, e fisserà la regola della sottoscrizione agli atti pubblici del pontefice, pena la loro invalidità (per la formulazione forse più precisa e più spinta di queste esigenze, v. p. 418). Ma anche a questo proposito, se di novità e originalità si può indubbiamente parlare, non si può però parlare di isolamento: aspirazioni di questo tipo - senza le asprezze polemiche, naturalmente, e senza che ne fossero tratte le estreme e sistematiche conseguenze che ne trae un Ugo - si ritrovano contemporaneamente anche fra i cardinali rimasti fedeli alla linea gregoriana (da vedere per es., sulla posizione di Deusdedit, e su altre voci analoghe, St. Kuttner, Cardinalis, in Traditio, III [1945], pp. 176s.). Ed è d'altronde proprio in questo periodo - e proprio, come risulta soprattutto dagli studi del Kehr e del Klewitz, in gran parte sotto lo stimolo dell'esempio e, per così dire, della "concorrenza" di Guiberto - che lo sviluppo del collegio cardinalizio, quale aveva cominciato a delinearsi a partire dal pontificato di Leone IX, si afferma e consolida, soprattutto con l'ascendere, al suo interno, della dignità dei cardinali preti accanto a quella dei vescovi: sì che il pontificato di Urbano II si pone come tappa rilevante nella sua storia. Non è pertanto senza significato l'emergere di queste tesi in occasione di un concilio che, autonomo da qualsiasi capo ("in hoc sacro conventu non fuit timenda imperatoris praesentia... etiam papa praesens non fuit...", specificava in una lettera indirizzata ai fedeli il cardinale Romano: v. Lib. de lite..., II, p. 407), aveva sperato di ricongiungere - con ogni probabilità, proprio su questo terreno - l'unità spezzata del corpo cardinalizio.
Dopo il 1098 non abbiamo più notizia alcuna di Benone. Il 18 ott. 1099, a Tivoli, Guiberto emanava, in favore del cardinale Romano, una bolla a cui sottoscriveva il collegio scismatico quasi al completo; B. manca, e questo induce il Kehr a congetturare che fosse già morto. Nel moi il titolo di Equizio appare occupato da Benedetto, cardinale ortodosso (Klewitz, p. 214, II, n. 14).
Senza alcun fondamento rimane l'ipotesi avanzata da Pflugk-Harttung (Iter Italicum, Stuttgart 1883, p. 729) tendente ad attribuire a B. la composizione della satira De Albino et Rufino, contro Urbano II.
Fonti e Bibl.: J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum... collectio, XX, Venetiis 1775, coll. 577 s.; Monumenta Ordinis Servorum S. Mariae, a cura di A. Morini e P. Soulier, II, Bruxelles 1898, pp. 193 s.; O. Panvinius, Romani Pontifices et Cardinales S. R. E., Venetiis 1557, pp. 71, 75; A. Ciaconius, Vitae Pontificum Romanorum, I, Romae 1601, pp. 310, 324, 341; J. Palatius, Fasti cardinalium, Venetiis 1703, pp. 69, 79, 821 105; H. Sudendorf, Registrum, II, Berlin 1891, pp. VII, 71; E. Steindorff, Jahrbücher des Deutschen Reiches unter Heinrich III., I, Leipzig 1874, pp. 477 s.; J. Schnitzer, Die Gesta Romanae Ecclesiae des Kardinals Beno und andere Streitschriften der schismatischen Kardinuäle wider Gregor VII., Bamberg 1892; C. Mirbt, Die Publizistik im Zeitalter Gregors VII., Leipzig 1894, passim (v. specialmente pp. 60 ss., 99, 102. 139 ss., 147 s., 561 s., 567 ss., 595 ss.); G. Meyer von Knonau, Jarbücher des Deutschen Reiches unter Heinrich IV., III, Leipzig 1900, pp. 524 s.; IVI ibid. 1903, pp. 97 ss., 339 ss.; V. ibid. 1904, pp. 44 ss.; L. Saltet, Les réordinations. Etude sur le sacrement de l'ordre, Paris 1907, pp. 255 s.; P. Kehr, Zur Geschichte Wiberts von Ravenna, II, in Sitzungsberichte der preuss. Akad. d. Wissensch., 1921, pp. 976-987. passim;A. Fliche, La réforme grégorienne, I, Louvain-Paris 1924, pp. 372 s., 380; II, ibid. 1926, pp. 32 n., 76, 90 n.; III, Louvain 1927, pp. 249 ss., 323; A. Fauser, Die Publizistik des Investiturstreites, Diss. München 1935. pp. 60 ss.; A. Schebler, Die Reordinationen, Bonn 1936, pp. 242 s., 267 s., 277 n., 278; H. W. Klewitz, Die Entstehung des Kardinalkollegiums, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung f. Rechtsgesch., Kanon. Abteil., XXV (1936), pp. 139 s. n. 5, 170 s., 174 (ripubblicato in Reformpapsttum und Kardinalkolleg, Darmstadt 1957, pp. 38 n. 97, 73, 77 s.); C. Erdmann, Gesta Romanae ecclesiae contra Hildebrandum, ibid., XXVI(1937). pp. 433 ss.; W. Holtzmann, Laurentius von Amalfi, ein Lehrer Hildebrands, in Studi Gregoriani, I, Roma 1947, pp. 207 ss.; H. G. Krause, Das Papstwahidekret von 1059, ibid., VII, Roma 1960, pp. 55 s., 184, 189. 207 n.. 248 ss.; H. Zimmermann, Papstabsetzungen des Mittelalters, I, in Mitteilungen d. Inst. f. üsterreich. Geschichtsforschung, LXX (1962), pp. 65, n. 10, 69 s., 71, n. 27; IV, ibid., LXXII (1964), pp. 87 ss.; A. Becker, Papst Urban II., I, Stuttgart 1964, pp. 98-113; Dict. d'Hist. et Géogr. Ecclés., VII, col. 1371.