ECCLESIASTICI, BENI
Beni ecclesiastici sono tutti quelli, di qualsiasi natura, posseduti da enti ecclesiastici. Cose sacre sono invece quelle destinate al culto, siano esse di proprietà di enti ecclesiastici o di privati.
Storia. - Numerose sono state le ipotesi avanzate per spiegare in modo soddisfacente la formazione, nel mondo romano, di un patrimonio proprio delle comunità cristiane e in qual modo queste possedessero prima del riconoscimento da parte dello stato. La più nota è quella di G.B. De Rossi, ch'esse possedessero come associazioni funerarie riconosciute. Per L. Duchesne in origine i beni dovettero venire intestati a un proprietario singolo: ma questa condizione non era sicura, bastando un mutamento di volontà nel proprietario o nel suo erede per sottrarre i beni alla comunità. Si dovette quindi cercare un mezzo per avere una proprietà appartenente realmente alla comunità: e l'esistenza di beni delle comunità secondo il Duchesne appare provata sin dagl'inizî del sec. III. Quest'esistenza era resa possibile dalla tolleranza o dal riconoscimento della comunità che seguiva (senza ricorso ad alcuna finzione legale come quella prospettata dal De Rossi) in periodi di tolleranza. Negli anni di persecuzione i beni erano sequestrati, ma alla fine della persecuzione, iniziandosi un nuovo periodo di tolleranza, aveva ancora luogo la riconsegna dei beni al vescovo. Dottrina a cui sembra sostanzialmente accedere M. Roberti quando insiste sul concetto che le comunità avrebbero attuato, per quanto potevano, un loro diritto a possedere, indipendentemente da ogni legge dello stato. Secondo O. Marucchi le comunità avrebbero posseduto per interposta persona: o i beni donati sarebbero rimasti intestati al donatore, o il capo della comunità avrebbe raccolto in nome proprio tutti i beni, mobili e immobili. La mancanza di documenti non consente di venire a una conclusione sicura, anche perché è problematico se dappertutto le comunità possedessero sotto la stessa forma o se invece non ricorressero secondo i luoghi e i tempi a mezzi giuridici diversi.
Con il riconoscimento statale la comunità, sotto la direzione del vescovo, appare sicuramente proprietaria di beni: il vescovo dispone di tutto il patrimonio della comunità: solo per le alienazioni egli trova qualche vincolo e per lo più abbisogna del consenso del presbiterio. Egli deve provvedere a tutti i bisogni della comunità. Il sistema lasciava gli ecclesiastici abbandonati all'arbitrio del vescovo: ciò spiega come tra il 450 e il 475 sorgesse nelle diocesi dipendenti direttamente da Roma (e divenisse poi tra il sec. V e l'VIII consuetudine generale per tutta la Chiesa) la regola secondo cui un quarto dei redditi della chiesa (un terzo in Spagna) spetta al vescovo, un quarto al clero, un quarto ai poveri, un quarto è destinato alla manutenzione del tempio. Gelasio I (492-496) confermò l'obbligo della quadripartizione.
Ulteriori riforme mirarono ad assicurare la pubblicità dell'amministrazione e garantire così che i nuovi aumenti del patrimonio diocesano non sarebbero stati sottratti alla quadripartizione. Peraltro tra la fine del sec. V e il principio del VI doveva manifestarsi sempre più intensa la tendenza verso l'assegnazione ai singoli ecclesiastici di un dato immobile con i cui redditi essi avrebbero dovuto mantenersi: ciò che costituiva una semplificazione di amministrazione per il vescovo e una garanzia per l'ecclesiastico, il quale acquistava in tal modo sicurezza per quel che riguardava la misura del proprio reddito. Un concilio francese del 506 ci apprende che questo modo di retribuire i chierici viene già praticato, e papa Simmaco nel 513, mentre riafferma il generale divieto di alienazione dei beni ecclesiastici, ammette che questi possano venire dati in godimento temporaneo ai chierici per i loro meriti (c. 11, C. XVI, q. 3 e c. 61, C. XVI, q. 1 del Decreto di Graziano).
La formazione del patrimonio delle singole chiese non segue dappertutto nello stesso tempo, né probabilmente le vicende di tale formazione sono identiche. A grandi linee con qualche approssimazione si può affermare che rimane fermo per tutto il sec. VI e il VII il concetto che tutti i beni della diocesi formano un'unica massa, dei cui redditi il vescovo deve procedere a quadripartizione: ma si ammette che a singoli ecclesiastici (in genere ai preti delle campagne, ai parroci), siano invece senz'altro lasciati in disponibilità certi beni, situati nelle prossime adiacenze della chiesa cui sono preposti, venendo così a instaurarsi un vincolo tra la chiesa (o meglio un dato ufficio ecclesiastico) e questi beni. Una particolare modalità di questa instaurazione è la concessione in precaria di un terreno da parte del vescovo a dati chierici; pare che i primi esempi si siano avuti in Italia alla fine del sec. V, ma la diffusione maggiore seguì più tardi nelle Gallie e in Spagna. Era fatale che questi terreni finissero col diventare proprietà autonoma della chiesa cui erano stati concessi.
L'evoluzione del diritto patrimoniale ecclesiastico fu anche assai influenzata dalla fondazione di chiese da parte di privati. Col diffondersi del cristianesimo nelle campagne sorsero ivi chiese a opera di proprietari locali, che accompagnavano la fondazione con un dono. Quindi, restando fermo il concetto dell'unità del patrimonio diocesano sotto l'amministrazione del vescovo, sorgevano di fatto patrimonî di singole chiese. La loro condizione era differente a seconda delle disposizioni dei fondatori e delle regioni: quasi sempre il loro reddito non era soggetto alla quadripartizione. Nei paesi dove vigeva il diritto romano esse rimanevano completamente staccate dal patrimonio del fondatore, erano di proprietà della diocesi. Invece nei paesi germanici tali chiese non si staccavano dal patrimonio del fondatore: onde i concetti di Eigenkirche o ecclesia propria, e della dos ecclesiae, che troviamo già alla fine del sec. V. Nell'Italia longobarda il fondatore alla fine del sec. VII rimaneva arbitro dell'esistenza della chiesa, e in ogni caso egli si riserbava ampî poteri: talora metà del reddito della dote della chiesa, talora la facoltà di amministrare e usufruire tale dote vita natural durante, facoltà che qualche volta faceva salva anche per i suoi figli. Le ecclesiae propriae aumentarono di gran lunga nel regno franco attraverso le secolarizzazioni di Carlo Martello. Si ebbero così da un lato le chiese vescovili e dall'altro le chiese private; inoltre si trovavano in particolare condizione i conventi e le chiese regie, sorte su dominî della corona. Nel regno franco tra la fine del secolo VIII e il IX si sistemò la condizione delle Eigenkirchen. Venne meno l'originaria concezione per cui il proprietario del terreno rimaneva arbitro dell'esistenza della chiesa e della sua dote; rimase la libertà di alienazione del terreno, ma il tempio non poteva essere distrutto in seguito a questa, e il servizio divino doveva rimanere assicurato. Nuove fondazioni erano condizionate alla somministrazione d'un patrimonio, adeguato ai bisogni dei chierici futuri, da stabilirsi d'accordo col vescovo. Al vescovo lo stato accordava un potere di vigilanza sulle ecclesiae propriae; gli ecclesiastici da preporsi a queste erano nominati dal proprietario con l'assenso del vescovo cui dovevano obbedienza (sinodo romano dell'826). L'indipendenza delle Eigenkirchen e del loro titolare era garantita da un capitolare a impedire le possibili divisioni di chiese tra gli eredi del fondatore.
Nel sec. VII e anche nell'VIII la proprietà vescovile appariva intatta; le chiese vescovili costituivano agli effetti del rapporto di proprietà una unica massa in ogni diocesi. Dopo il periodo carolingio non era più così; le chiese delle campagne che non fossero Eigenkirchen avevano ormai un proprio patrimonio costituito da immobili, che serviva ai loro ecclesiastici, ed era da questi amministrato. Tale evoluzione fu in parte dovuta al dileguarsi dell'economia monetaria e all'affermarsi esclusivo di quella immobiliare, la quale esige una molteplicità di piccoli centri di amministrazione, in parte all'influenza esercitata dalle ecclesiae propriae su quelle vescovili. Le ecclesiae propriae davano l'idea dell'autonomia delle singole chiese, ma d'altro lato il loro esempio tendeva a livellare la posizione del vescovo e quella del proprietario fondiario, a portare sopra un terreno di diritto privato i rappolti tra vescovi e singole chiese. Questa concezione privatistica, per cui il vescovo riteneva di poter alienare, permutare, concedere le singole chiese, era diffusa nel sec. IX. La pressione del clero (che con l'equiparazione delle chiese vescovili a quelle propriae vedeva garantita la propria autonomia), le necessità di amministrazione, l'esempio delle diocesi longobarde e l'iniziativa di molti vescovi, introdussero il sistema delle Eigenkirchen a Roma e a Ravenna.
Nel sec. IX la sola chiesa cattedrale era rimasta in amministrazione del vescovo, e solo per i redditi di questa si attuava la quadripartizione: rna, verso la metà . del secolo, anche nelle cattedrali il sistema centralizzatore venne meno. Fra così compiuta l'evoluzione, per la quale come regola a ogni ufficio ecclesiastico corrisponde una massa patrimoniale autonoma. Giunti a questo stadio dell'evoluzione del patrimonio ecclesiastico, si delineava il pericolo di un'usurpazione dei beni dei singoli enti da parte dei loro titolari o di uno sperpero di essi. A questo inconveniente ovviarono la saldezza della disciplina ecclesiastica, il rafforzamento dei vincoli gerarchici e una serie di disposizioni, sparse nei secoli: tra quelle dell'età moderna principale la decretale Ambitiosae di Paolo II del 10 marzo 1468, che vietò sotto pena di scomunica ogni vendita, concessione in enfiteusi, infeudazione, locazione ultratriennale di beni ecclesiastici, praeterquam in casibus a iure permissis, ac de rebus, et bonis in emphyteusim ab antiquo concedi solitis. Anche il concilio di Trento diede norme a impedire ogni usurpazione di beni ecclesiastici (sess. XXI de ref., c. 11) e ogni donazione da parte dei titolari ai loro parenti (sessione XXV de ref., decretum de reformȧtione, c. 1).
Diritto della Chiesa. - Soggetti del diritto di proprietà sono la Chiesa universale e la S. Sede (cui la qualità di enti morali e la capacità di possedere spetta ex ipsa ordinatione divina) e i singoli enti ecclesiastici, che acquistano la capacità di possedere con il fatto della loro creazione da parte della superiore autorità ecclesiastica. La S. Sede conserva sul patrimonio dei singoli enti ecclesiastici una suprema auctoritas. Il vescovo esercita un'ampia vigilanza su tutta la vita patrimoniale degli enti minori. Gli enti ecclesiastici possono acquistare e cessar di possedere i loro beni negli stessi modi ammessi per le altre persone. Solo alcuni diritti o attività o beni per la loro natura che contiene elementi spirituali e per la loro indole di diritto pubblico non sono suscettibili di usucapione. In caso di estinzione di un ente ecclesiastico, la successione dei beni spetta di regola all'ente immediate superior.
Il vescovo elegge l'amministratore a quei patrimonî che ne siano privi; e costituisce un consiglio d'amministrazione, presieduto da lui e formato da due o più viri idonei (anche laici) che egli nomina udito il capitolo. Questo consiglio è un organo solo consultivo. Gli amministratori di beni ecclesiastici nominati dal vescovo debbono usare la diligenza del buon padre di famiglia, ogni anno debbono rendere conto al vescovo, e abbisognano del suo consenso per qualsiasi atto che ecceda l'ordinaria amministrazione.
Quanto ai singoli atti in cui si concreta l'attività patrimoniale degli enti ecclesiastici tutti, vige il principio che la validità e gli effetti di essi siano determinati dal diritto statale territoriale. Le alienazioni dei beni (mobili e immobili), cui è equiparato ogni contratto per il quale conditio Ecclesiae peior fieri possit, non debbono effettuarsi senza una giusta causa e senza la licenza del superiore ecclesiastico; debbono essere precedute dalla stima, né seguire a un prezzo minore di quello portato da questa; debbono inoltre aver luogo mediante pubblica licitazione, o almeno ricevere la massima pubblicità. Il superiore competente ad autorizzare l'alienazione o il contratto a essa equiparato è: la S. Sede, se si tratti di cose preziose - e tali sono, tra le altre, tutti indistintamente gli oggetti votivi - o di cose che eccedono il valore di trentamila lire o franchi (secondo autorevoli interpreti lire o franchi oro); il vescovo, col consenso così del capitolo cattedrale come del consiglio d'amministrazione diocesano, se si tratti di cose con valore da lire o franchi mille a trentamila; il vescovo, udito il consiglio d'amministrazione (ma potrà prescindere dal sentirlo ove si tratti di alienare cose di minima importanza), se le cose da alienarsi non eccedano il valore di mille lire o franchi.
Diritto dello Stato. - Durante il Risorgimento italiano si manifestarono più volte aspirazioni verso la confisca dei beni ecclesiastici, che avrebbero poi dovuto essere consegnati dallo stato al laicato cattolico, agevolandosi così una riforma in senso democratico della Chiesa; mentre secondo le correnti meno favorevoli ad ogni idea di religione, quei beni avrebbero dovuto venire destinati a scopi di beneficenza e d'istruzione. Tali aspirazioni non lasciarono però alcuna traccia nel diritto positivo.
Tratto saliente del diritto italiano, anteriore e posteriore agli accordi lateranensi, è di non riconoscere la Chiesa universale come soggetto di proprietà, bensì di riconoscere tale qualità ai singoli enti ecclesiastici (legge 5 giugno 1850; articoli 2,433, 434 cod. civ.; art. 29 lett. d e 30 capov. 1° concordato 11 febbraio 1929; art. 4 e 9 legge 27 maggio 1929 n. 848). Peraltro l'art. 434 cod. civile col disporre: "I beni degli istituti ecclesiastici sono soggetti alle leggi civili" viene a dire che dipende esclusivamente dalla legge civile tutto quanto è rapporto di appartenenza intercedente tra i beni e l'ente proprietario, creazione, modificazione ed estinzione di tale rapporto, commerciabilità dei beni, loro assoggettamento a dati oneri.
Gli enti ecclesiastici in quanto proprietarî (nel senso più ampio del termine) sono assoggettati completamente alle leggi civili. Gli enti ecclesiastici come tutti gli enti morali non possono acquistare beni immobili, né beni mobili a titolo gratuito se non con autorizzazione governativa impartita mediante regio decreto, udito il Consiglio di stato se si superi il valore di trecentomila lire (legge 5 giugno 1850; art. 30 capov. concordato 11 febbraio 1929; art. 9 legge 27 maggio 1929, n. 848; articoli 18-21 regol. 2 dicembre 1929 n. 2262). Gli enti ecclesiastici non possono del pari alienare i loro beni, né compiere atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, senza l'autorizzazione del ministro di Giustizia, se si tratti di vendere beni il cui valore ecceda le lire centomila (o di vendere a trattativa privata beni il cui valore ecceda lire ventimila); dell'ufficio per gli Affari di culto presso la procura generale della Corte d'appello, se si tratti di vendere beni di valore minore (art. 434 cod. civ.; articoli 12 e 13 legge 27 maggio 1929, n. 848; artic. 23 reg. regol. 2 dicembre 1929 n. 2262). Questi i principî comuni al diritto preconcordatario e a quello oggi vigente: con la sola differenza che oggi non occorre l'autorizzazione per gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione agli enti ecclesiastici estranei alle categorie per cui lo stato garantisce ai titolari un reddito minimo.
In altri punti i due diritti non collimano. Così secondo il diritto preconcordatario la legge canonica non aveva valore di fronte allo stato in quanto tendesse a sottoporre a particolari controlli di superiori autorità ecclesiastiche l'esercizio del diritto di proprietà di un ente ecclesiastico. Un parroco di fronte allo stato poteva alienare i beni del suo beneficio col solo consenso degli organi statali, senza che fosse necessario l'assenso del vescovo o del pontefice, prescritto, come si è visto, dal diritto della Chiesa. Invece l'art. 30 del concordato stabilisce che "la gestione ordinaria e straordinaria dei beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico o associazione religiosa ha luogo sotto la vigilanza e il controllo delle competenti autorità della Chiesa" e l'art. 12 della legge 27 maggio 1929, n. 848, prescrive che gli enti ecclesiastici, per compiere atti eccedenti l'ordinaria amministrazione debbano ottenere l'autorizzazione governativa "da concedersi, sentita l'autorità ecclesiastica". Secondo il diritto preconcordatario, gli enti ecclesiastici, salvo le parrocchie, le confraternite (non considerate enti ecclesiastici) e la S. Sede (controvertibile), non potevano possedere altri immobili all'infuori degli edifizî di culto (campanili e sacrestie compresi), delle case di abitazione dell'investito (episcopî, case canoniche) o degli edifici indispensabili perché l'ente potesse raggiungere i suoi scopi (fabbricati dei seminarî): articoli 11, 18 legge 7 luglio 1866. Il concordato agli articoli 29 e 30 invece ha riconosciuto a tutti gli enti ecclesiastici la capacità di possedere beni, senza obbligo di assoggettare gl'immobili a conversione.
Bibl.: G. B. De Rossi, Roma sotterranea, Roma 1864-77, III, p. 512; id., I collegii funeraticii famigliari e privati, in Commentationes in honorem Th. Mommsenii, Berlino 1877, p. 705 segg.; L. Duchesne, Storia della Chiesa antica, trad. ital., Roma 1911; M. Roberti, Le associazioni funerarie crist. e la proprietà eccl. nei primi tre secoli, in Studi dedicati alla mem. di P. P. Zanzucchi, Milano (1927), pp. 89-113.