Folclore, beni demoetnoantropologici e patrimonio immateriale
Termini come folclore, tradizioni popolari e cultura popolare appartengono a una più ampia costellazione terminologica che, a partire dalla seconda metà del 19° sec. e lungo tutto l’arco del Novecento, ha definito un vasto campo di studi sui mondi popolari e sulle culture locali di origine prevalentemente agropastorale. Un ambito, nel tempo divenuto disciplina accademica, che si è sviluppato dapprima seguendo un indirizzo antiquario e filologico e in seguito, nel secondo dopoguerra, avendo come principale fonte di ispirazione le Osservazioni sul folclore (1950) di Antonio Gramsci, secondo cui il folclore rappresenta una specifica categoria sociale ed economica subalterna al ceto egemone.
La densità che hanno avuto in Italia gli studi di tradizioni popolari – accademici e non – è legata a nomi importanti per la cultura (Alliegro 2011), ma si connette anche a una fervida stagione di attivismo culturale e politico, caratterizzata dalla patrimonializzazione della cultura popolare, che già a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta ha prodotto un vasto movimento di valorizzazione del folclore, di ricerca e rivitalizzazione della cultura dei ceti subalterni. Questa cornice di studi e di passioni, che si lega anche all’ambito della storia orale e alla nascita di archivi sonori di documentazione della cultura popolare, ha prodotto negli anni Settanta anche un fenomeno di consumo di massa entro un nuovo processo di democratizzazione della cultura che vedrà protagonisti gli enti locali e la società civile.
Proprio negli stessi anni si produrrà una nuova consapevolezza patrimoniale all’interno del lessico dei beni culturali, che in seguito verrà definita con l’espressione beni demoetnoantropologici. Coniata da Alberto Mario Cirese (1991) per indicare un ambito accademico che riassumeva le tre grandi correnti dell’antropologia praticate sul territorio nazionale in connessione con i panorami internazionali (la demologia italiana, l’etnologia di ambito extraeuropeo e l’antropologia culturale americana), da cui l’acronimo DEA, che sintetizza lo specifico settore disciplinare antropologico nell’accademia italiana, l’espressione demoetnoantropologico alla fine degli anni Novanta è passata a definire, non senza problematicità e con nodi ancora oggi irrisolti in ambito istituzionale, uno specifico campo dei beni culturali, come portato e riconoscimento, da un lato, della grande ricchezza delle culture regionali e, dall’altro, di una specifica tradizione di studi (Clemente, Candeloro 2000; Bravo, Tucci 2006).
La nascita di una sfera patrimoniale di riconoscimento delle culture popolari, più che seguire un coerente disegno nazionale per opera delle politiche pubbliche, ha intrapreso spesso vie locali che solo parzialmente le regioni hanno saputo o voluto sostenere, lasciando per lo più spazio a iniziative spontanee della società civile locale connesse al fenomeno del folk revival. Questa dialettica tra esperienze locali e presenza discontinua delle istituzioni centrali si presta a una duplice lettura e può essere vista sia come espressione di debolezza delle politiche culturali a livello nazionale, sia come vitalità delle periferie e dei mondi locali (Clemente 1996, p. 243).
In realtà, ancora agli albori dell’Unità nazionale, il quadro che si era delineato per il folclore italiano lasciava prevedere nel futuro un più ampio coinvolgimento delle politiche pubbliche all’interno di un progetto nazionale, il quale in seguito fu invece, almeno in parte, disatteso. Il grande progetto di una museografia nazionale, che culminò nel 1911 con la Mostra di etnografia italiana, voluta e coordinata da Lamberto Loria per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’Unità italiana, non ebbe seguito in modo organico nelle successive politiche nazionali e solo 45 anni dopo, nel 1956, avrebbe trovato attuazione nel Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari.
Dopo l’esperienza del 1911 e l’avvio problematico di una museografia nazionale che resterà a lungo congelata in un progetto ancora oggi non adeguatamente valorizzato, le direttrici intorno alle quali si è sviluppato l’interesse nazionale nei confronti delle culture popolari si sono rivolte principalmente all’ambito degli archivi e a quello della catalogazione, entro un quadro legislativo che si svilupperà molto più tardi. Si deve infatti attendere la fine degli anni Novanta per avere a livello nazionale un riconoscimento delle culture popolari sul piano legislativo. Nel decreto Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali (d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 112), i beni demoetnoantropologici per la prima volta entrano a fare parte dei beni culturali (Clemente, Candeloro 2000, pp. 202 e segg.; Bravo, Tucci 2006, pp. 71 e segg.). Tuttavia, sia in esso che nell’attuale Codice dei beni culturali e del paesaggio (d. legisl. 22 genn. 2004 nr. 42) le culture popolari sono riconosciute solo nelle loro testimonianze materiali (beni mobili e immobili) e non nella loro dimensione «immateriale» (Tarasco 2004).
Solo nel 2008, a seguito della ratifica italiana nel 2007 della Convenzione UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) del 2003 (Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale), con un’integrazione al citato codice del 2004, è stato introdotto nel testo di legge l’art. 7 bis (d. legisl. 25 marzo 2008 nr. 62), Espressioni di identità culturale collettiva, che fa esplicito riferimento alla Convenzione UNESCO riconoscendo il patrimonio «immateriale» come espressione di identità collettiva. Recita l’articolo:
Le espressioni di identità culturale collettiva contemplate dalle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale e per la protezione e la promozione delle diversità culturali, adottate a Parigi, rispettivamente, il 3 novembre 2003 ed il 20 ottobre 2005, sono assoggettabili alle disposizioni del presente codice qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l’applicabilità dell’articolo 10.
Il riferimento al patrimonio immateriale contenuto nell’articolo è tuttavia ambiguo, in quanto questo viene riconosciuto solo «qualora siano rappresentate testimonianze materiali», e dunque il nuovo articolo finisce per negare di fatto il valore di gran parte delle espressioni culturali dei territori legate alla cultura popolare (Tarasco 2004).
Nonostante ancora oggi gli aspetti immateriali non risultino ancora chiaramente definiti nella legislazione nazionale, il campo degli archivi e quello della catalogazione a livello nazionale hanno visto riconosciuto in forme meno ambigue il campo delle culture popolari, inclusa la sfera dell’immateriale.
A partire dal 1968, anno della costituzione dell’Ufficio centrale per il catalogo e la documentazione (oggi ICCD), l’Italia ha investito preziose risorse pubbliche nella progettazione di modelli di schede di catalogo su scala nazionale. Da questo punto di vista già negli anni Settanta il folclore appare in un progetto nazionale di catalogazione, dove fin dalle prime sperimentazioni di modelli di schede viene riconosciuto, non solo nella sua dimensione materiale degli oggetti legati all’universo agropastorale, ma anche nella sua dimensione immateriale legata alle feste popolari, alla musica e alla narrativa.
Dopo le prime sperimentazioni di schede di catalogo nazionali specificamente pensate per le culture popolari, realizzate dall’ICCD nel 1978 in collaborazione con il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari (le schede chiamate FK, dove FK sta per Folklore; cfr. Ministero per i Beni culturali e ambientali 1978; Simeoni 1998; Tucci 2005), si è aperta alle soglie del 2000 una nuova stagione di sperimentazione nella catalogazione delle culture popolari con l’introduzione delle due schede BDM (Beni Demoetnoantropologi Materiali) e BDI (Beni Demoetnoantropologici Immateriali). Quest’ultima riguardava i diversi ambiti della cerimonialità festiva, dei patrimoni musicali, della narrativa di tradizione orale, e di altri elementi immateriali (ICCD 2000, 2002-2006). Dunque, ben prima dell’ingresso della nozione di patrimonio culturale immateriale legata alla specifica Convenzione UNESCO, in Italia le politiche sui beni culturali avevano già avviato nella catalogazione un riconoscimento dell’immateriale connesso ai beni demoetnoantropologici, peraltro già aperto a metà degli anni Novanta da Cirese con le distinzioni tra volatile, immateriale, intangibile e inoggettuale (Cirese, in Clemente 1996, p. 251). Sarà proprio l’ambito della catalogazione, tuttavia, a segnare il punto di frattura maggiore, via via più evidente, tra una concezione ‘documentale’ delle culture popolari, dove la catalogazione esprime un modello di conservazione e tutela da parte dello Stato, e una concezione al contrario ‘partecipativa’, così come sarà indicato dalla Convenzione UNESCO, in merito, come vedremo più avanti, alle candidature per l’iscrizione alla Lista rappresentativa. La catalogazione promossa a livello nazionale con questi modelli di schede, si colloca in una concezione scientifico-disciplinare dei beni culturali che coniuga ricerca e conservazione in un modello di inventario nazionale, che da alcuni è stato definito civilizzato, o top-down (Bortolotto, Severo 2011), per indicarne la natura ‘dall’alto’ e non partecipativa da parte delle comunità e dei soggetti portatori del bene, tema questo che sarà invece centrale nei più attuali dibattiti accesi dalla Convenzione UNESCO del 2003 in merito alla funzione ‘sociale’ dell’inventario e alla necessità di una partecipazione attiva da parte delle comunità (Broccolini 2011).
In realtà, non è solo nella catalogazione che si può leggere la prospettiva partecipativa indicata dall’UNESCO, ma è l’intero impianto della Convenzione ad andare verso un coinvolgimento delle comunità, non solo nella realizzazione degli inventari, ma in tutti i processi di identificazione del bene. In questi termini appare più marcata la divergenza tra un paradigma demoetnoantropologico nazionale di tipo documentale e un approccio partecipativo al patrimonio, che vediamo riflessa negli attuali assetti ministeriali, dove i beni demoetnoantropologici e la sfera dell’immateriale, per quanto attiene l’applicazione della Convenzione e le candidature UNESCO, ricadono in competenze e in uffici differenti. Il patrimonio immateriale, che lo Stato italiano ha dovuto iniziare ad assimilare nei suoi assetti istituzionali dopo la ratifica della citata Convenzione, non solo non si identifica tout court con i beni DEA, come vorrebbero alcuni specialisti del settore, in quanto rimanda a una concezione aperta a molti ambiti della produzione culturale, anche di tipo colto, ma non ricade neppure nelle competenze di un unico ministero, perché interessa anche altri ministeri, come quello degli Affari esteri. Questo punto – di fondamentale importanza anche per una valutazione del rapporto Stato-regioni sull’argomento – mostra l’esistenza di una frattura che si è prodotta tra un ambito di beni demoetnoantropologici riconosciuto dal codice (al cui interno si collocano tanto gli aspetti materiali quanto quelli immateriali) e l’ambito dell’applicazione della Convenzione UNESCO del 2003.
In linea generale le regioni italiane, salvo alcuni casi virtuosi, non hanno prodotto politiche culturali particolarmente articolate, o investimenti marcati e di lungo periodo, né nel campo di applicazione del Codice in riferimento ai beni demoetnoantropologici né nell’ambito del patrimonio immateriale. Gli scarsi investimenti regionali hanno interessato soprattutto i musei e la catalogazione, quest’ultima però solo raramente rivolta agli aspetti immateriali delle culture popolari, bensì più orientata alle collezioni. In alcune regioni, soprattutto del Nord, c’è stato un investimento maggiore nel campo degli ecomusei, anche grazie a leggi regionali specifiche: nati svincolati da una visione oggettuale legata alle collezioni, essi infatti si rivolgono alla valorizzazione di porzioni di territorio, del paesaggio e delle attività tradizionali nella loro dimensione sia materiale sia immateriale.
A mostrare in alcuni casi una maggiore vitalità sono state le regioni a statuto speciale. La Sardegna, per es., già dal 1972 ha istituito con un’apposita legge regionale (nr. 26 del 5 luglio) l’Istituto superiore regionale etnografico di Nuoro, che collega lo studio e la conservazione delle manifestazioni tradizionali della vita dell’isola con il suo patrimonio etnografico, in una prospettiva internazionale e mediterranea. Le linee di intervento dell’Istituto seguono una prospettiva sia di tipo documentale (studi e ricerche sulla vita popolare e le tradizioni della Sardegna), sia di valorizzazione, divulgazione e soprattutto salvaguardia del patrimonio etnografico attraverso iniziative e manifestazioni culturali. Anche la Sicilia, come vedremo più avanti, ha sviluppato attraverso il Centro regionale per l’inventario, la catalogazione e la documentazione dei beni culturali (CRICD) un’attività di ricerca e valorizzazione del patrimonio etnografico – anche immateriale – della regione che, nel 2014, in dialogo con la Convenzione UNESCO, ha istituito il REIS (Registro delle Eredità Immateriali della Regione Siciliana). In altri casi a fare da motore per le politiche culturali sul patrimonio etnografico e immateriale sono state le iniziative a favore delle minoranze linguistiche. La Regione Trentino-Alto Adige ha sviluppato diversi programmi per la tutela delle culture ladina, cimbra e mochena, con appositi istituti culturali, la tutela delle minoranze linguistiche e importanti musei alpini (il Museo degli usi e costumi delle genti trentine). Analogamente è accaduto in altre regioni a statuto speciale, come Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia.
Altre regioni italiane hanno per lo più ereditato dallo Stato, a volte passivamente, un paradigma ‘documentale’ demoetnoantropologico su musei e catalogazione, che hanno cercato in modi diversi di portare avanti, dovendo tuttavia anche fare i conti con specifiche storie locali e interlocutori diversi che gravitano entro un ampio bacino di possibili portatori di un patrimonio immateriale, non necessariamente di stretta provenienza agropastorale e ‘tradizionale’.
A livello normativo molte regioni, come si approfondirà più avanti, hanno promulgato leggi sui beni culturali, che mostrano un riconoscimento delle culture popolari in alcuni casi precedente alle normative nazionali. In esse appare una notevole varietà terminologica relativamente ai beni demoetnoantropologici, dovuta, come sottolinea Roberta Tucci (2004, p. 3), al tardivo riconoscimento di tali beni nel codice dei beni culturali, ma anche a specificità territoriali. Si parla quindi di beni demoetnoantropologici, di beni antropologici, di etnologia e tradizioni popolari, di folclore locale, di beni folclorici e così via. Tuttavia, vediamo che più spesso nelle iniziative regionali il settore demoetnoantropologico vive un andamento ‘carsico’ e frammentario, con affioramenti, scomparse e successive ricomparse. Esiguo è il numero delle regioni nelle quali le culture del territorio di tradizione popolare sono state oggetto di progetti articolati e continuativi di valorizzazione. Ancora pionieristiche e isolate a poche regioni (Sicilia, Lombardia e Trentino) risultano invece quelle normative dedicate al patrimonio culturale immateriale in un orizzonte di dialogo con scenari internazionali nell’applicazione della citata Convenzione UNESCO del 2003.
L’azione regionale nei confronti delle culture popolari si è espressa soprattutto nell’ambito museale e nella catalogazione. Alcune regioni hanno emanato leggi che hanno visto la realizzazione di numerosi musei demoetnoantropologici locali, che in parte sono stati finanziati con contributi regionali, mentre la catalogazione, a partire dal 1998, si è allineata agli standard ICCD, secondo le indicazioni fornite dal citato d. legisl. nr. 112 (Tucci 2004, p. 2).
Le regioni, tuttavia, hanno dovuto anche fare i conti con istanze territoriali differenti, con storie e soggetti diversi che dialogano con la vecchia categoria del folclore o con le cosiddette invenzioni delle tradizioni e che per questo non rientrano nell’alveo dei beni demoetnoantropologici. Si possono citare l’ambito della riproposta dei gruppi folcloristici, molto vivo in alcune regioni dell’Italia centrale; le feste storiche, di riproposta o neomedievali; le minoranze linguistiche spesso oggetto di leggi dedicate e interessanti, che si esprimono soprattutto in programmi scolastici; i grandi fenomeni di riproposta che sono entrati nello spettacolo, come nel Salento è l’evento di massa rappresentato dalla Notte della taranta, e le grandi feste urbane. Esiste insomma tutto un campo di azioni che esula da un’idea di ‘autenticità’ della cultura popolare, un campo non riconosciuto come puramente demoetnoantropologico, fatto di soggetti la cui attività richiede alle regioni interventi più vicini alla promozione sociale, ma che proprio per questo dialogano, senza averne a volte consapevolezza, anche con le istanze partecipative portate dalla Convenzione UNESCO sull’immateriale.
In materia di beni culturali i rapporti tra Stato e regioni sono regolati dal titolo V della Costituzione italiana (Le regioni, le province, i comuni) modificato nel 2001 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, «Gazzetta ufficiale», 24 ottobre 2001, nr. 248). Allo Stato è attribuita potestà esclusiva in ambito legislativo sulla tutela dei beni culturali, mentre alle regioni spettano in via concorrente le azioni di valorizzazione e, sempre in via concorrente con lo Stato, potestà legislativa, tra le altre cose, sul governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali (art. 117, 2° co., lettera s). Nei rapporti Stato-regioni l’attuazione della riforma del titolo V della Costituzione è affidata alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, organo della Presidenza del Consiglio dei ministri del governo italiano nato nel 1983, che ha lo scopo di favorire la cooperazione tra l’attività dello Stato e quella delle regioni. Tuttavia, sui beni culturali anche la Conferenza delle regioni e delle province autonome, nata nel 1981, ha costituito una specifica Commissione su beni e attività culturali avente come scopo il coordinamento tra le regioni nelle politiche di valorizzazione e promozione dei beni culturali.
Rispetto al testo originario del titolo V della Carta costituzionale, la modifica operata nel 2001 introduce nell’art. 118 (4° co.) il concetto importante di «sussidiarietà», che in precedenza era assente dalla Costituzione italiana:
Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
Tale principio di sussidiarietà, di tipo ‘orizzontale’, ha importanti implicazioni nei rapporti tra Stato e comunità in quanto porta a concepire il diritto in relazione al primato del cittadino e della comunità; come scrive Antonio Leo Tarasco, esso «consente di considerare il cittadino e le sue manifestazioni di vita associata (gruppi, associazioni, fondazioni, partiti politici, imprese ecc.) come l’elemento fondante dell’organizzazione sociale» (2004, p. 61). In questo senso Stato, regioni ed enti locali sono chiamati a favorire l’azione dei cittadini e le spontanee iniziative private, intervenendo solo in caso di inerzia di questi ultimi. Nel campo dei beni culturali tale principio acquisito dalla Costituzione sembrerebbe favorire una politica bottom-up, in quanto riconosce alla comunità il processo di produzione e di identificazione della cultura in un rapporto che inverte, come indica Tarasco, il tradizionale rapporto ‘Stato›società’ verso un rapporto ‘società›Stato’, in cui la normativa dovrebbe promuovere e tutelare «in modo attivo i processi, le attività e le dinamiche culturali che proprio dalla società partono e si sviluppano» (p. 64). Visto nel quadro dell’attuale Codice dei beni culturali del 2004, tale principio trova tuttavia una applicazione ambigua in quanto, seppur presente il riferimento – non esplicito – alla sussidiarietà attraverso il ricorso ai temi della memoria e della pubblica fruizione (Tarasco 2004, p. 62), manca nel Codice, come si è detto, un esplicito riconoscimento della sfera immateriale e con essa delle dinamiche che producono cultura legate alle comunità.
Le regioni sembrano aver risentito di questa ambiguità (immaterialità/sussidiarietà), perché raramente e in modo disomogeneo si sono fatte interpreti delle istanze provenienti dalle comunità con politiche articolate, in favore della partecipazione nell’ambito dei patrimoni immateriali. Rispetto ai beni demoetnoantropologici e ai successivi scenari internazionali legati alla Convenzione UNESCO, è complesso delineare un quadro definito dei rapporti Stato-regioni, in quanto le attività di documentazione e valorizzazione sono state fino a oggi differenti tra le diverse regioni, con profonde divergenze tra regioni ‘virtuose’, che hanno mostrato sensibilità nei confronti sia dei beni demoetnoantropologici sia relativamente all’applicazione della Convenzione UNESCO, e regioni meno attente se non del tutto assenti, a fronte di diffusi fermenti locali di valorizzazione e reinvenzione di espressioni culturali specifiche del territorio. Per prossimità territoriale e per ragioni politiche, spesso le regioni sono state più attente alla valorizzazione delle culture popolari entro processi di riaffermazione identitaria e di promozione turistica.
La questione è quindi capire in che modo le regioni si sono collocate nelle azioni di valorizzazione delle culture popolari e dei territori, come hanno reagito nei confronti degli scenari internazionali che si sono aperti alle soglie del nuovo millennio, definendo un nuovo campo di azione culturale legato al concetto di patrimonio immateriale, e quali relazioni si possono individuare nelle politiche regionali tra i beni demoetnoantropologici e il nuovo emergente ambito immateriale aperto dalla Convenzione UNESCO, che enfatizza i temi della partecipazione, delle comunità e della democrazia diffusa, ridimensionando le competenze disciplinari entro una sfera di mediazione.
Molto diverso nei singoli territori è il modo in cui le regioni mostrano di affrontare la valorizzazione delle culture dei territori, nel dialogo con gli organi centrali dello Stato, da un lato, e con le istanze globali provenienti dagli scenari internazionali, dall’altro. Emergono panorami diversi, ora di forte ritardo ora di lungimiranza; alcune regioni appaiono più ‘allineate’ alle normative dello Stato, per es. in materia di catalogazione (laddove altre mantengono questa collaborazione solo sulla carta), e si muovono entro l’alveo disciplinare demoetnoantropologico, che si richiama a una specifica tradizione di studi accademici. Altre, invece, collocano in secondo piano gli aspetti documentali e scientifici, sviluppando maggiormente politiche di promozione culturale, ora attraverso semplici finanziamenti a gruppi e associazioni per l’organizzazione di eventi di riproposta, ora attraverso un dialogo più articolato e partecipativo con la società civile e con le istanze che provengono dai territori nell’era globale della comunicazione legata alle politiche dell’UNESCO. A volte l’ambito dell’immateriale ha incorporato il ‘paradigma patrimoniale’ demoetnoantropologico, del quale ha finito per rappresentare l’evoluzione, altre volte i due paradigmi (quello disciplinare e quello dell’UNESCO) camminano su binari diversi, con l’attività scientifica e documentale (banche dati, catalogazione ecc.) che non dialoga con le iniziative di promozione culturale e con soggetti collettivi come i gruppi folcloristici o le feste storiche di riproposta. O ancora molto diverso è il modo in cui le regioni riconoscono il valore sociale del patrimonio immateriale sui temi della partecipazione delle comunità, o dialogano con il panorama internazionale. Ogni regione, quindi, ha sviluppato un suo specifico modo di rapportarsi a un campo che oggi non è solo di studio, ma primariamente di mediazione sociale e culturale.
Spesso, più di recente, nella corsa alle candidature per l’iscrizione nella Lista rappresentativa UNESCO e nel desiderio di molti territori di vedersi riconoscere un bene sul piano internazionale, le regioni sono state scavalcate dalle comunità locali, diventando spettatrici di processi vivaci, nei quali hanno finito per funzionare solo come patrocinatori di iniziative e di dialoghi già avviati da altri, senza riuscire a sviluppare politiche articolate a riguardo, o quantomeno inseguendo un flusso già avviato. In questo scenario, sono state spesso le province o le pro loco a mantenere un contatto più diretto con i territori attraverso iniziative e pubblicazioni locali, a volte di sapore dilettantesco o di promozione turistica, spesso non di spessore scientifico e documentale, ma in dialogo con le associazioni culturali, sportive, religiose, con il mondo giovanile, più raramente con le università.
Fatta eccezione per le citate regioni a statuto speciale, se si prende come osservatorio quello delle normative regionali, si nota a volte un vuoto di indicazioni rispetto alle culture popolari, altre volte una produzione di leggi molto generiche relativamente ai beni culturali che non definiscono una chiara politica sui beni demoetnoantropologici, né mostrano un’apertura verso l’immateriale, altre volte ancora un proliferare di leggi curiose, di salvaguardia di elementi minimi e molto localizzati. Altre regioni, al contrario, hanno mostrato una lungimiranza maggiore rispetto allo Stato, sia in tema di politiche sulle culture popolari sia in riferimento all’applicazione della Convenzione UNESCO, anche se tali esperienze regionali, soprattutto nell’Italia centromeridionale, come si vedrà, restano casi isolati se rapportati al contesto nazionale.
Le regioni che di seguito verranno prese in esame con maggiore dettaglio rappresentano dunque solo dei casi esemplificativi dell’eterogeneità di approcci che, nel bene e nel male, ha caratterizzato le politiche sull’immateriale negli enti locali a livello regionale. In alcune di esse, infatti, si percepiscono una continuità con gli studi di settore in ambito demoetnoantropologico e una volontà di pianificare azioni regionali in dialogo con lo scenario internazionale; in altre, invece, le politiche relative alle culture popolari appaiono fortemente intrise di linguaggi identitari e ‘popolar-romantici’, radicate nella vecchia cornice del folclore e della riproposta, o ancora in azioni di sostegno economico finalizzate alla sola promozione sociale.
Restringendo lo sguardo su alcuni panorami normativi regionali, in un percorso che non può avere alcuna pretesa di esaustività, una prima tendenza che si delinea vede protagonista un numero esiguo di regioni ‘virtuose’, che oggi cercano di guardare alle proprie specificità culturali ponendosi in dialogo diretto con lo scenario mondiale, nel quale intendono portare la propria storia e la propria esperienza. Ai due estremi della penisola, Lombardia e Sicilia, con i loro Registri delle eredità immateriali, mostrano in modi diversi un’articolata e consolidata politica sull’immateriale nell’ottica delle culture popolari; il Veneto appare in fase di elaborazione di un progetto di legge nella medesima direzione; Puglia e Liguria stanno percorrendo strade autonome ma convergenti sull’immateriale. Si tratta, nel caso di Sicilia e Lombardia, di regioni in cui l’ambito demoetnoantropologico ha avuto una storia articolata ed è riuscito ad aprirsi alle istanze internazionali, continuando a guidarne lo ‘spirito’, con politiche e leggi regionali organiche e progetti ben definiti. Tali regioni sono riuscite, con strumenti normativi diversi ma convergenti, a colmare il ritardo legislativo lasciato dallo Stato in materia di salvaguardia dell’immateriale, in relazione allo scenario internazionale.
La Regione autonoma siciliana merita un’analisi a parte, perché rappresenta un caso particolarmente virtuoso di politiche culturali in ambito demoetnoantropologico, soprattutto negli ultimi anni in relazione all’apertura nei confronti del patrimonio immateriale. La regione, infatti, fin dagli anni Settanta ha realizzato politiche pionieristiche nel campo delle culture popolari in stretta connessione con l’Università di Palermo. Già nel 1977, l’importante legge regionale nr. 80, varata dall’Assemblea regionale per la tutela, la valorizzazione e l’uso sociale dei beni culturali e ambientali in Sicilia, riconosceva, tra gli altri, i beni «etnoantropologici» e introduceva le Soprintendenze uniche territoriali. Consapevole di un’importante tradizione demologica e poi antropologica, la Regione Sicilia ha dato vita a un programma illuminato, che dall’ambito normativo ha portato allo sviluppo di importanti azioni sulle culture di tradizione popolare, con attività di ricerca, catalogazione e valorizzazione da parte delle soprintendenze (cfr. Rigoli 2009; Bravo, Tucci 2006, p. 80).
Nel 2005, due anni dopo l’approvazione della Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale formulata dall’UNESCO e in anticipo rispetto sia alla sua entrata in vigore nel 2006 sia alla ratifica italiana avvenuta nel 2007, l’Assessorato regionale ai Beni culturali e ambientali della Regione Sicilia, recependo le indicazioni contenute nella convenzione internazionale del 2003, ha istituito il REI (Registro delle Eredità Immateriali) per la salvaguardia e la valorizzazione delle espressioni intangibili del territorio, un registro che fa della Sicilia una regione pioniera sul piano istituzionale per i beni demoetnoantropologici, questa volta nella loro nuova declinazione internazionale e ‘globale’ di patrimonio culturale immateriale. L’elaborazione del REI, che così fortemente risente di un recepimento dei valori e dei concetti espressi dalla convenzione UNESCO, oltre a essere il risultato di una sensibilità regionale di lunga data nei confronti delle culture di tradizione popolare, è anche l’effetto di una nuova sensibilità che le istituzioni regionali hanno manifestato nei confronti del patrimonio culturale immateriale, soprattutto in seguito alla proclamazione nel 2001 del teatro dei Pupi siciliani a Capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità, primo bene italiano a ottenere un riconoscimento internazionale nella sfera dell’immateriale in un programma che era stato attivato dall’UNESCO in quello stesso anno (Masterpieces of the oral and intangible heritage of humanity), ma poi sostituito a partire dal 2008 dal programma delle liste attivato dalla Convenzione del 2003.
Il REI viene istituito con il decreto attuativo nr. 77 del 26 luglio 2005 e – fatto questo particolarmente rilevante – si ispira esplicitamente a due strumenti di legislazione internazionale, la citata Convenzione del 2003 e la precedente Raccomandazione per la salvaguardia delle culture tradizionali e del folklore, approvata dall’UNESCO nel 1989, che contiene l’espressione Tesori umani viventi (Living human treasures). Questi ultimi sono particolarmente rilevanti nell’articolazione del REI, che infatti prevede la nomina di individui o gruppi detentori di specifiche conoscenze o abilità. Nelle sue premesse il REI contiene anche altri due importanti riferimenti: il primo è l’esplicito impegno della Regione Sicilia a istituire un Programma regionale di interventi nei confronti delle eredità immateriali regionali; il secondo è un forte richiamo all’autonomia regionale e al dovere-potere di rapportarsi direttamente agli organismi internazionali, senza passare attraverso la legislazione o agli organi nazionali.
Il Registro, che assume in toto la definizione che la stessa UNESCO dà del patrimonio immateriale, includendo le conoscenze, le tecniche e in generale gli spazi culturali, è strutturato facendo riferimento nei contenuti ai quattro programmi UNESCO del patrimonio culturale, precedenti la convenzione del 2003, ovvero: Capolavori del patrimonio immateriale ed orale dell’umanità; Tesori umani viventi; Lingue in stato di pericolo; Musiche tradizionali del mondo. Su questa base il REI è organizzato intorno a quattro «libri»: il Libro dei saperi (tecniche e processi legati a una specifica produzione); il Libro delle celebrazioni (riti, feste e manifestazioni popolari); il Libro delle espressioni (tradizioni orali e mezzi espressivi); il Libro dei tesori umani viventi (persone, collettività e gruppi individuali specifici). Il riferimento alla comunità e agli stakeholders risulta centrale nel processo di iscrizione del bene nel Registro, perché questo deve essere avviato formalmente da un rappresentante della comunità che produce l’attività culturale (Rigoli 2009, p. 26). Più di recente è stato emanato un nuovo REI, il già citato REIS (d.a. 5 marzo 2014 nr. 571) che ha introdotto un sensibile cambiamento, portando a sei il numero dei libri del registro, con l’aggiunta di un libro per le pratiche simboliche e un libro per dialetti, parlate e gerghi.
Analogamente alla Sicilia, al Nord il Trentino già nel 2007 aveva deliberato con la Provincia autonoma di Trento l’istituzione di un Registro delle eredità immateriali del Trentino, anche se tra le regioni del Nord è stata la Lombardia ad aver promulgato la prima vera e propria legge regionale (l. reg. 23 ott. 2008 nr. 27, Valorizzazione del patrimonio culturale immateriale) orientata al patrimonio immateriale e ad aver istituito un analogo Registro delle eredità immateriali della Lombardia. La Lombardia è stata inoltre capofila del progetto europeo italo-svizzero E.CH.I.-Etnografie italo-svizzere per la valorizzazione del patrimonio immateriale, che ha interessato in Italia, oltre a questa regione, anche Piemonte, Valle d’Aosta e Provincia autonoma di Bolzano.
La Puglia rappresenta invece un caso diverso, ma vivace e in forte divenire per gli anni più recenti. Già nel 2000 la regione aveva riconosciuto il patrimonio demoetnoantropologico nell’ambito di una legge più ampia (l. reg. 26 nov. 2000 nr. 24), che definiva in materia di beni culturali le competenze della regione. Tuttavia, se questa legge mostra una volontà di collocare le culture territoriali nell’alveo scientifico disciplinare demoetnoantropologico (come è accaduto in diverse altre regioni), alcuni anni più tardi, in una successiva legge regionale dedicata allo spettacolo e alle attività culturali (l. reg. 11 maggio 2004 nr. 6), la regione sembra invece voler ricollocare l’ambito demoetnoantropologico in una sfera più ampia, individuando un nesso tra beni DEA e una promozione sociale e culturale da attuarsi soprattutto attraverso i beni musicali e riconoscendo lo spettacolo come «una componente fondamentale della cultura, un fattore di sviluppo economico e sociale, un’espressione importante dell’identità dei territori» (art. 1). Nella legge, infatti, più volte si fa riferimento alle finalità ‘sociali’ dello spettacolo includendovi anche il folclore locale, la valorizzazione del patrimonio demoetnoantropologico (art. 14) e una generale identità culturale pugliese.
Il rapporto tra beni demoetnoantropologici e forme dello spettacolo che la legge individua risente forse dell’impatto che specifici eventi già in quegli anni avevano iniziato ad avere sul dibattito pubblico. Primo fra tutti il fenomeno della Notte della taranta, conosciuto a livello internazionale, nel quale il revival del ballo della pizzica, legato al tarantismo e a tutto il suo bagaglio demoetnoantropologico, è esploso come evento mediatico internazionale, mostrando anche alle istituzioni la connessione tra il mondo dello spettacolo e il patrimonio musicale di specifici territori. Non stupisce quindi se, a fronte della crescente notorietà dell’evento di Melpignano (nel 2008 la regione si era fatta promotrice della istituzione della Fondazione Notte della taranta), negli anni seguenti sarà proprio la categoria del patrimonio immateriale, così aperta sul contemporaneo, a sostituirsi nel linguaggio normativo alle precedenti espressioni lessicali (folclore, patrimonio demoetnoantropologico). Nel 2012 infatti la Puglia approva, in seguito a un lungo lavoro di discussione che ha visto come protagonisti alcuni operatori del settore, una legge (l. reg. 22 ott. 2012 nr. 30), unica nel suo genere, dedicata alla «valorizzazione delle musiche e delle danze popolari di tradizione orale». Nella legge, che è stata elaborata da Vincenzo Santoro, uno dei maggiori promotori delle iniziative di valorizzazione del patrimonio musicale salentino, e presentata dall’ex sindaco di Melpignano, Sergio Blasi, è esplicito il riferimento al patrimonio culturale immateriale e all’UNESCO, in un’ottica tutta proiettata sul contemporaneo.
Alla legge specifica, che è stata salutata da più parti come esempio di una responsabile politica regionale sul patrimonio immateriale in un’ottica di promozione territoriale, ha fatto seguito l’anno successivo una legge generale sui beni culturali (l. reg. 25 giugno 2013 nr. 17), che supera l’ambito del demoetnoantropologico e si proietta direttamente nella sfera del patrimonio materiale e immateriale.
Anche la Liguria rappresenta un caso interessante, per la capacità mostrata dalla regione di collocare, già negli anni Ottanta, i beni demoetnoantropologici immateriali entro un’ottica di partecipazione sociale. In Liguria, infatti, già una prima legge (l. reg. 22 apr. 1980 nr. 21), incentrata sulla catalogazione dei beni culturali e ambientali e sui musei, inseriva l’ambito demoetnoantropologico (allora definito nei termini di beni etnografici, antropologici, linguistici e musicali) entro una concezione più ampia dei beni culturali, che prevedeva già allora nozioni molto attuali, quali la valorizzazione e gli «usi sociali» del patrimonio, incluso quello etnografico. La legge infatti, che pure ribadiva una visione scientifica della catalogazione e la collaborazione con gli organi centrali dello Stato, appare ancora oggi molto attuale perché mostra un’apertura, piuttosto rara per i tempi, verso gli usi educativi e didattici dei beni culturali e verso una partecipazione «consapevole e creativa» dei cittadini, non relegando i beni a una sola funzione documentale. Il tema dell’uso sociale del patrimonio etnografico torna nella regione in una successiva legge (l. reg. 2 maggio 1990 nr. 32) specificamente incentrata su «dialetti e tradizioni popolari» intesi come beni culturali, dove si fa espresso riferimento a «valorizzazione e uso sociale dei beni culturali linguistici, etnomusicali e delle tradizioni popolari presenti nel territorio regionale» (art. 1), che include fiabe, proverbi, danza, medicina popolare, musica, canti e altri temi classici degli studi demologici. Nel successivo Testo unico sulla cultura (l. reg. 31 ott. 2006 nr. 33) viene ribadita una visione articolata nella quale la tradizione popolare, materiale e ‘verbale-sonora’ è posta in un ambito non solo di ricerca e raccolta, ma anche di valorizzazione connessa all’importanza della comunità.
Proseguendo lo sguardo sui panorami regionali, una seconda tendenza mostra invece regioni, soprattutto dell’area centrale (Lazio, Marche, Emilia-Romagna, Umbria, Abruzzo), che, in linea con le direttive indicate dalle normative nazionali, continuano a guardare principalmente allo Stato come punto di riferimento per le politiche culturali in materia e non si avventurano in esplorazioni di tipo differente, se non in settori specifici, dove si sente il peso di particolari storie territoriali, come accade nelle Marche con i gruppi folcloristici, in Umbria con le feste storiche di riproposta o in Abruzzo con l’ambito della montagna. Si tratta di regioni che continuano ad attuare un paradigma documentale, con iniziative spesso consistenti nel campo museale e della catalogazione, rimanendo ancorate a un modello scientifico-disciplinare che non guarda al dialogo con i territori, né nella restituzione né nella partecipazione. Di questo approccio rappresenta forse l’esempio più significativo il Lazio, dove, fin dagli anni Settanta, con diversi strumenti normativi (l. reg. 6 marzo 1979 nr. 17; d.c.r. nr. 462 del 1979), si è prestata un’attenzione particolare nei confronti della catalogazione dei beni culturali, uniformando le metodologie di catalogazione agli standard ICCD. Riguardo ai beni demoetnoantropologici, l’attività della Regione Lazio si è sviluppata principalmente nel settore dei musei DEA attraverso il progetto DEMOS (Sistema museale demoetnoantropologico del Lazio, istituito con l. reg. 24 nov. 1997 nr. 42) e nella catalogazione, avvalendosi di profili professionali specifici demoetnoantropologici (d.g.r. nr. 3901 del 1996 e d.g.r. nr. 270 del 2002).
Come il Lazio, anche le Marche hanno seguito un percorso analogo, con un allineamento alle normative nazionali nelle procedure catalografiche dell’ICCD. La regione, tuttavia, diversamente dal Lazio, ha dedicato una speciale attenzione anche al sostegno di gruppi folcloristici e di riproposta, particolarmente vivaci nella regione. In questa chiave si possono leggere iniziative di sostegno ad associazioni folcloristiche e l’approvazione di una recente legge regionale di «tutela e promozione della cultura popolare e folklorica» (l. reg. 25 giugno 2013 nr. 14), una legge che in una forma forse anacronistica sul piano lessicale, fa riferimento al folclore (termine ormai quasi del tutto desueto), senza dialogare con i beni demoetnoantropologici o con la sfera dell’immateriale (nell’accezione attuale), ma occupandosi principalmente dell’attività dei gruppi e delle associazioni folcloristiche marchigiani, per i quali viene istituito anche un Registro regionale.
Analogamente, anche l’Umbria procede sul doppio binario del paradigma documentale e della promozione sociale. Se infatti in Umbria il lavoro più consistente nel campo DEA è stato fatto in ambito museale con leggi specifiche (per es. la legge sugli ecomusei del 2007 o l’istituzione di appositi centri di documentazione come nel 1990 il CEDRAV, Centro per la Documentazione e la Ricerca Antropologica in Valnerina e nella dorsale appenninica umbra, che negli anni ha lavorato soprattutto per la realizzazione di un ‘museo diffuso’ nella forma di un Ecomuseo della Valnerina), non meno importante è stato il sostegno alle manifestazioni cosiddette storiche o rievocative, alle quali i beni DEA fanno riferimento in una declinazione più vicina alla promozione culturale e sociale. Oltre alla concessione di contributi per feste storiche (come i Ceri di Gubbio), in anni recenti la regione ha emanato una legge (l. reg. 29 luglio 2009 nr. 16) che si rivolge al sostegno e alla valorizzazione di oltre 50 manifestazioni e rievocazioni storiche, come pali, tornei, giostre e regate presenti sul territorio regionale, dove la festa dei Ceri di Gubbio viene indicata come la «più arcaica espressione culturale dell’identità regionale» (art. 3). Infine nel 2012, presumibilmente in coincidenza con la partecipazione di Gubbio alla Rete delle grandi macchine a spalla candidate all’UNESCO per l’iscrizione alla Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale, che ha acceso il dibattito locale, la regione con una nuova legge ha riconosciuto definitivamente la festa dei Ceri come espressione di identità regionale, senza tuttavia impegnarsi apertamente a dialogare con la sfera dell’immateriale, che nella legge non è menzionata (l. reg. 25 genn. 2012 nr. 1). Nella fase iniziale dell’istruttoria, infatti, Gubbio ha fatto parte della Rete delle grandi macchine a spalla che nel 2013, nel corso del Comitato intergovernativo UNESCO tenutosi a Baku (Azerbaigian), ha ottenuto l’iscrizione alla Lista rappresentativa UNESCO per il Patrimonio culturale immateriale. La Rete era composta dalla festa dei Gigli di Nola (Napoli), dalla festa di Santa Rosa di Viterbo, dalla Varia di Palmi (Reggio Calabria) e dai Candelieri di Sassari, ma Gubbio uscì dalla Rete qualche anno prima dell’iscrizione alla Lista UNESCO, decidendo di candidarsi da sola. Come per le Marche che hanno legiferato in materia di gruppi e di musica di riproposta, anche in Umbria l’attenzione regionale per la cultura territoriale di ambito DEA, oltre a svilupparsi su un terreno specialistico (oggi in sofferenza), si è rivolta di recente ad azioni di promozione sociale e turistica, nella tutela e nel sostegno di feste tradizionali e di feste storiche di riproposta.
In Abruzzo è invece la montagna ad aver prodotto leggi specifiche di interesse antropologico, che si vanno ad aggiungere agli interventi più allineati su musei e catalogazione. L’Abruzzo ha riconosciuto i beni etnoantropologici e la professionalità dell’antropologo (l. reg. 18 giugno 1992 nr. 44), ma parallelamente (l. reg. 18 maggio 2000 nr. 95) riconosce (pur senza menzionare l’ambito demoetnoantropologico) il valore della cultura della montagna e di tutti quei beni culturali legati alla presenza e al lavoro dell’uomo nella montagna, tra i quali i percorsi tratturali, le vie delle castagne e i cammini dei pellegrinaggi.
Una terza tendenza ci porta in una zona grigia dove troviamo regioni che, a fronte di un eccezionale patrimonio materiale e immateriale, non mostrano politiche organiche in merito ai beni demoetnoantropologici. Regioni che non sembrano voler dialogare con l’ambito internazionale del patrimonio immateriale, e neppure si allineano organicamente alle direttive dello Stato, sviluppando campagne di catalogazione, profili professionali o leggi sui musei, ma piuttosto percorrono la strada a macchia di leopardo, ora chiuse in un’ottica regionalistica identitaria, ora con iniziative isolate che appaiono improntate più a contingenze politiche ed economiche che a organiche politiche culturali di valorizzazione.
In Molise non appaiono politiche organiche sui beni DEA, ma iniziative molto circoscritte tra le quali un sostegno alla valorizzazione e al recupero dei trabucchi (tradizionale macchina da pesca fissa che troviamo sulle coste abruzzesi e molisane; l. reg. 22 dic. 1999 nr. 44), un intervento (soprattutto economico) sulle manifestazioni storiche (l. reg. 3 marzo 2005 nr. 12) e, soprattutto, anche qui una legge sulla montagna (l. reg. 23 ott. 2003 nr. 15), la quale, pur non menzionando i beni demoetnoantropologici, indica come aveva fatto l’Abruzzo la necessità di una «tutela sociale» dello spazio montano riconoscendo i «mestieri tradizionali della montagna». Anche per la Campania le principali azioni della regione in materia di beni DEA sono state indirizzate all’ambito museale (con il riconoscimento dei musei demoetnoantropologici) e alla catalogazione (l. reg. 23 febbr. 2005 nr. 12). In precedenza una legge rivolta ai centri storici e agli impianti urbanistici di interesse storico (l. reg. 18 ott. 2002 nr. 26) prevedeva anche «il valore etnografico» dei luoghi, includendo la «salvaguardia della presenza antropica, in quanto presupposto per la conservazione dell’identità storico-culturale dei centri stessi» e il «paesaggio edificato e non edificato di elevata qualità morfologica urbana [...] con valore etnografico» (art. 3). Tuttavia, le attività di catalogazione dei beni demoetnoantropologici portate avanti fino a oggi con finanziamenti della regione (relativamente alle raccolte museali) sono state realizzate con standard differenti da quelli ministeriali e non hanno portato a una fruizione di tali banche dati. Nonostante la grande ricchezza di beni immateriali presenti nel territorio, le iniziative regionali sono state finora frammentarie e non rispondenti a politiche culturali unitarie. Solo di recente la regione ha mostrato una sensibilità sul piano normativo nei confronti del dibattito sul patrimonio immateriale nel dialogo con la scena internazionale, ma a seguito di un evidente riconoscimento internazionale, come è stata l’iscrizione nel 2010 della Dieta mediterranea nella Lista rappresentativa UNESCO, una candidatura transnazionale partita dal Ministero per le Politiche agricole che, come diremo più avanti, ha visto protagonista per l’Italia il Comune di Pollica nel Cilento e a seguito della quale la regione ha emanato una legge regionale sul riconoscimento della dieta mediterranea (l. reg. 30 marzo 2012 nr. 6).
In Basilicata, a fronte di una vitalità delle culture di tradizione popolare, è mancata una legge regionale nella quale i beni demoetnoantropologici fossero adeguatamente compresi, così come non sono state prese misure a favore di una valorizzazione del patrimonio immateriale. Gli interventi regionali mirati alle culture territoriali sono stati, come è accaduto altrove, riservati alle minoranze linguistiche (l. reg. 3 nov. 1998 nr. 40), oppure si trovano frammentati in leggi di natura diversa. In altre regioni, infine, è stata prevalente sul piano istituzionale un’attenzione per lingue e dialetti. In Calabria, gran parte delle azioni regionali sembra essersi mossa con una particolare attenzione nei confronti delle minoranze linguistiche, sia nella legge del 1985 (l. reg. 19 apr. nr. 16), dove il campo è ricondotto alla valorizzazione del «folclore del popolo calabrese», sia in quella successiva del 2003 (l. reg. 30 ott. nr. 15) dedicata alla tutela e alla valorizzazione della lingua e del patrimonio culturale delle minoranze linguistiche e storiche presenti nella regione. Dieci anni dopo sono ancora la tutela e la valorizzazione delle lingue, con l’aggiunta dei dialetti, a fare da traino a una legge regionale dedicata alle culture del territorio, questa volta non più limitata alle minoranze linguistiche, ma estesa all’intero territorio regionale e a diversi ambiti della cultura (l. reg. 11 giugno 2012 nr. 21). Anche questa legge non si rivolge specificamente a un ambito DEA in senso disciplinare e neppure allo scenario del patrimonio immateriale in un’ottica di dialogo internazionale, ma assume questa volta come «bene primario» le categorie di lingua, cultura e identità, in una visione regionalistica che mette al centro «l’identità culturale del popolo calabrese». La sfera dell’immateriale emerge tuttavia in due successive leggi, dello stesso anno; la prima, relativa agli ecomusei, e la seconda, molto specifica, di riconoscimento e salvaguardia di un metodo di vinificazione denominato «Moscato al Governo di Saracena» (l. reg. 15 nov. 2012 nr. 59).
L’ingresso sulla scena nazionale della citata Convenzione UNESCO relativa al patrimonio culturale immateriale ha portato un modo nuovo di guardare ai beni culturali, non solo in riferimento all’immaterialità del bene, ma soprattutto per la centralità che attribuisce alle comunità. Ciò ha rappresentato un potenziale per i territori poco valorizzati o in sofferenza, e ha stimolato la vitalità di soggetti locali che sempre più sono stati spinti a pensare alla propria ‘differenza’ culturale in un’ottica non più campanilistica, ma mondiale, di dialogo interculturale, secondo quello che viene indicato come lo spirito della Convenzione. Tuttavia, il nuovo paradigma ha anche scompigliato non poco gli assetti istituzionali. L’ambito demoetnoantropologico, storicamente legato allo studio scientifico delle culture popolari, che già nel Ministero e nelle soprintendenze faticava ad affermarsi nelle forme documentali (archivi, musei e catalogazione) che abbiamo mostrato, è ora costretto a pensarsi entro una famiglia più ampia di elementi (per es. le arti dello spettacolo), non necessariamente legati alle culture popolari di origine agropastorale, una famiglia che non riconosce più solo la voce dello specialista, il demoetnoantropologo, ma si apre a una concezione del patrimonio connessa a forme partecipative e sociali.
E saranno proprio i territori, la società civile e alcuni gruppi di interesse, stakeholders delle più svariate provenienze, a vedere maggiormente nell’immateriale una piattaforma per un riconoscimento che non necessariamente passa attraverso la competenza scientifica o specialistica. Non solo feste, riti, tradizioni, saperi artigianali popolari o musica tradizionale, ma anche prodotti dell’alta cultura, l’opera lirica, la commedia dell’arte, una grande tradizione liutaia. Infatti, uno degli effetti più evidenti della ratifica italiana della Convenzione e dell’introduzione della Lista rappresentativa del patrimonio immateriale (che ne ha costituito il suo strumento più conosciuto a livello mondiale) è stato quello di attivare un forte fermento locale dal basso, fatto di territori, comuni, gruppi di interesse, associazioni e soggetti delle più diverse provenienze, desiderosi di collocarsi nell’arena globale delle diversità culturali, o più spesso interessati ai potenziali effetti economici, politici e turistici del riconoscimento. In questo senso, le candidature UNESCO degli ultimi anni sono diventate degli osservatori privilegiati di dinamiche culturali e politiche che hanno interessato i territori e gli organi centrali dello Stato.
In questi processi locali le regioni, salvo qualche rara eccezione, sono state piuttosto marginali. Laddove un’azione c’è stata, è stata piuttosto di appoggio o di promozione di specifiche candidature piuttosto che diretta a politiche culturali organiche. I motivi di questa marginalità vanno forse cercati, da un lato, nell’assenza di leggi regionali specifiche sul patrimonio immateriale (con le eccezioni di Lombardia, Sicilia e, di recente, Puglia), che evidenzia una incapacità delle regioni di collocarsi in uno scenario che appare mutato molto rapidamente e che richiede quindi competenze specifiche non sempre possedute dai funzionari regionali; ma vanno cercati, dall’altro, anche nei rapporti tra regioni e organi centrali dello Stato. Quest’ultimo, infatti, nonostante i presupposti partecipativi enunciati in diversi articoli della Convenzione e il continuo riferimento alle comunità, ha mantenuto fino a oggi una salda autorità in merito alle candidature, nelle scelte e nei rapporti con l’UNESCO, senza coinvolgere formalmente le regioni. Sono infatti gli organi centrali dello Stato a doversi occupare delle relazioni internazionali con l’UNESCO e ad accogliere, selezionare e avviare le istruttorie delle candidature, facendo da filtro nei confronti dei territori. Eppure, per la prima volta nella storia dei beni culturali, una Convenzione internazionale offriva alle comunità la possibilità di dialogare direttamente con il mondo in forme nuove, che sembravano poter aggirare uffici e commissioni ministeriali, mentre nella realtà, come si è detto, al di là dei riferimenti alle comunità, la Convenzione lascia ben salda l’autorità agli Stati in tutte le fasi del processo. Nonostante ciò, l’immaginario prodotto dalla Convenzione ha fatto comunque fiorire a livello locale, laddove c’era un terreno fertile, un desiderio di autonomia e di riconoscimento che più volte è entrato in rotta di collisione con gli organi centrali dello Stato. Nell’ambito di queste dinamiche le regioni, salvo qualche rara eccezione, avranno spesso un ruolo marginale.
Un esempio interessante, che mostra il fermento locale attivato dalla Convenzione UNESCO, è rappresentato ancora una volta dalla Sicilia, dove in anni recenti, a seguito dell’istituzione regionale del REI, è stato creato nel 2010, per opera dell’associazione siciliana I World-Associazione mondiale per la salvaguardia e la valorizzazione delle identità dell’umanità, il cosiddetto REIL (Registro delle Eredità Immateriali di Interesse Locale), una sorta di rete tra comuni avente lo scopo di salvaguardare elementi immateriali locali a partire dal registro regionale, e che ha attivato più di un centinaio di comuni siciliani.
È presto per comprendere fino in fondo se e in che misura il paradigma immateriale portato dalla Convenzione, con il suo approccio partecipativo, abbia realmente prodotto nei beni culturali un ‘effetto tsunami’ capace di scompaginarne i vecchi assetti disciplinari e documentali.
La questione appare complessa già a livello centrale nell’attribuzione di funzioni e di ruoli definiti. In Italia, infatti, l’applicazione della Convenzione UNESCO a livello centrale è stata affidata a diverse istituzioni, non sempre in armonia tra loro. La più antica è la Commissione nazionale italiana per l’UNESCO, un organo del Ministero degli Affari esteri, i cui dirigenti sono nominati su base politica. Si tratta di un organo nato nel 1950, all’epoca della fondazione stessa dell’UNESCO, che fino a qualche anno fa si occupava sia del Patrimonio mondiale, sia del programma dei Capolavori precedente alla Convenzione del 2003. Questo lavoro era svolto da un apposito comitato, il Comitato per il patrimonio immateriale e i tesori umani viventi, al cui interno figuravano rappresentanti del Ministero degli Esteri, del Ministero per i Beni e le Attività culturali (MIBAC) e diverse professionalità antropologiche (Mariotti 2008). Tuttavia, già nel 1995 il Ministero degli Affari esteri aveva istituito un protocollo d’intesa non scritto con il MIBAC, che affidava a quest’ultimo la responsabilità tecnica di seguire le procedure di iscrizione del Patrimonio mondiale. Infatti la Commissione nazionale italiana al suo interno aveva rappresentanti sia del Ministero degli Esteri sia del MIBAC. Con il protocollo di intesa tra i due ministeri venne istituito nel 1997 un Gruppo di lavoro interministeriale permanente per il patrimonio mondiale, un organo prettamente politico, che comprendeva diversi ministeri, il cui compito era quello di prendere decisioni per l’attuazione della Convenzione del 1972 e in seguito della Convenzione del 2003. Oggi lo scenario è ancora mutato e più complesso, in quanto se la prima fase delle istruttorie di candidatura è avviata dalla Commissione nazionale UNESCO, è il Segretariato generale del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo (MIBACT) che si occupa delle convenzioni internazionali, ma non è l’unico ministero a rapportarsi alla Convenzione del 2003.
In questo intricato groviglio di competenze ministeriali, non sempre definite e non sempre in accordo tra loro, nella fase che seguì la ratifica della Convenzione, di fronte alle progressive richieste di candidatura provenienti dai territori, la linea contingente che prevalse fu quella che vedeva nell’immateriale una mutuazione del settore dei beni demoetnoantropologici, con tutta la sua portata disciplinare. Per questa ragione, per quanto attiene agli inventari degli elementi immateriali candidati, necessari per poter avviare il dossier di candidatura, fu indicata, o meglio prescritta, la scheda che rientrava negli standard catalografici in uso, ovvero la scheda scientifica rappresentata dalla BDI, laddove la Convenzione sembrava invece lasciare alle comunità facoltà di decidere di quali strumenti dotarsi per poter fare l’inventario del proprio bene candidato. Questa infatti è una scheda che non ha una finalità partecipativa e sociale, bensì scientifica e documentaria. La scelta top-down di una scheda scientifica (che richiedeva l’intervento di uno specialista antropologo) conteneva tuttavia delle incongruenze in quanto non aderiva al modello partecipativo che proveniva sia dalla Convenzione sia dai territori stessi promotori delle candidature.
Al di là del rapporto tra inventari e partecipazione, ampiamente dibattuto altrove (Bortolotto, Severo 2011; Broccolini 2011), che ha rappresentato un nodo ancora in parte irrisolto nelle politiche nazionali, con le regioni, lo ricordiamo, spesso marginali, è interessante illustrare alcuni casi che si sono prodotti nei territori a seguito di alcune candidature. Di questi particolarmente interessanti sono il caso del Palio di Siena, della Rete delle grandi macchine a spalla e della Dieta mediterranea. Delle tre candidature, le ultime due hanno ottenuto l’iscrizione alla lista, mentre il Palio di Siena ne è stato escluso. Tre casi che probabilmente illustrano (senza esaurirla) la eterogenea casistica dei fermenti territoriali, delle modalità regionali e areali con le quali le comunità si sono candidate e soprattutto le criticità che si sono prodotte nel rapporto Stato-territori.
In realtà, il numero delle candidature proposte alla Commissione nazionale UNESCO è stato di gran lunga superiore; dal 2010 al 2013 sono state più di 40 quelle presentate alla Commissione nazionale italiana per l’UNESCO. La maggior parte di esse riguardava performance festive provenienti in buona parte dal Centro (circa 18 dossier) e dal Sud (circa 15 dossier). Di queste, tre proponevano elementi che sono stati in seguito iscritti nella Lista (Dieta mediterranea, Liuteria di Cremona e Rete delle grandi macchine a spalla); mentre delle rimanenti alcune sono state ritirate, come è accaduto al Palio di Siena e alla Giostra del Saracino di Arezzo, un numero esiguo si è candidato per altri programmi UNESCO (Candidature per la salvaguardia urgente e per le buone pratiche), e altre ancora non hanno avuto seguito per problemi legati alla stesura del dossier. A tutt’oggi, sono circa dodici le candidature ancora attive. Nel complesso si tratta quindi di candidature per lo più relative a eventi cerimoniali, a feste tradizionali, ma anche a saperi artigianali, o a elementi che rientrano nelle arti dello spettacolo (per es. l’opera lirica), o nei saperi e nelle tecniche della produzione agroalimentare (lo zibibbo di Pantelleria). Già prima dell’istituzione della Lista, comunque, due elementi italiani avevano ricevuto un riconoscimento UNESCO nel precedente programma dei Capolavori dell’umanità: i Pupi siciliani nel 2001 e il Canto a tenore sardo nel 2005. Tra queste candidature, alcune avevano suscitato un certo scalpore e accesi dibattiti; sotto la lente mondiale dell’UNESCO non tutte le manifestazioni dell’umana creatività culturale hanno trovato accordo nel dibattito pubblico e nella globale gerarchia del valore rappresentata dai temi della pace e del dialogo. Così, per es., la Giostra del Saracino di Arezzo, competizione cavalleresca che prevede l’uccisione rituale del Buratto, incarnazione del Saracino, qualche anno fa fu bloccata perché, rappresentando la vittoria simbolica dei cavalieri cristiani contro i musulmani, rischiava di offendere l’islam.
La Dieta mediterranea rappresenta un caso di candidatura che potremmo definire opposta allo ‘spirito’ della Convenzione, in quanto esemplifica un classico esempio di processo top-down. Si tratta infatti di una candidatura transnazionale che è partita non da una specifica comunità territoriale o areale, e neppure da più comunità entrate in rete (come è accaduto per la candidatura della Rete delle grandi macchine a spalla), bensì dal Ministero per le Politiche agricole, che ha intercettato una richiesta proveniente dalla Spagna. Presentata congiuntamente nel 2009 da Spagna, Italia, Grecia e Marocco, la Dieta mediterranea ha ottenuto l’iscrizione alla lista nel 2010, ma il cammino di questa candidatura è stato travagliato e ha rappresentato un esempio di interpretazione forte dello Stato nei confronti della Convenzione. Inizialmente, infatti, la candidatura non includeva alcuna comunità e solo in un secondo momento, dietro richiesta dell’organo sussidiario dell’UNESCO che ha il compito di valutare le candidature, ha visto il coinvolgimento di una specifica area, quella del Cilento con il Comune di Pollica, scelto in virtù delle ricerche sull’alimentazione mediterranea condotte in quest’area negli anni Sessanta dal medico fisiologo statunitense Ancel B. Keys, che è anche il padre della stessa definizione del concetto di Dieta mediterranea.
È noto che i regimi alimentari che si sono sviluppati nell’area del Mediterraneo nel corso dei secoli, oltre a essere tra loro alquanto diversificati, hanno una tale diffusione da non permettere di individuare una sola comunità o una sola area circoscritta come rappresentativa. L’aver scelto un territorio legato agli studi di un medico statunitense ha rappresentato un’interpretazione scientifica che intercettava interessi ministeriali e politici nei confronti di questa candidatura per via delle ricadute che l’iscrizione nella Lista avrebbe portato in termini di visibilità e di promozione dei prodotti agroalimentari nazionali. Più che una comunità territoriale, fatta di persone e di pratiche alimentari quotidiane, nella candidatura sono stati coinvolti primariamente un museo dedicato alla Dieta mediterranea impostato su una base scientifico-nutrizionale e una ‘comunità’ scientifica, l’Associazione per la Dieta mediterranea di Pioppi nel Cilento nata pochi anni prima allo scopo di valorizzare un tipo di alimentazione definita mediterranea moderna, ovvero di un’alimentazione areale rivista su basi medico-scientifiche. Pur non basandosi su una partecipazione di tipo comunitario, la candidatura e la successiva iscrizione alla Lista hanno tuttavia avuto ricadute interessanti. Oltre all’impegno della Regione Campania con la citata legge del 2012 sulla Dieta, l’iscrizione ha portato anche a un proliferare di iniziative nelle aree limitrofe alla Campania ispirate all’UNESCO e al riconoscimento della Dieta, che rivelano un bisogno di partecipazione all’impresa (e ai benefici) UNESCO più ampia rispetto al solo territorio cilentano. Nel 2010 nasce a Ostuni, in Puglia, una Fondazione Dieta mediterranea che si ispira al riconoscimento UNESCO; nello stesso anno a Nicotera, in provincia di Vibo Valentia, nasce una simile associazione che si ispira alle ricerche fatte nella stessa Nicotera da Keys e che fa registrare alla Camera di commercio del capoluogo il marchio Dieta mediterranea.
Pur andando contro lo spirito partecipativo della Convenzione, che mette al centro le comunità detentrici del bene e la loro consapevolezza patrimoniale, l’approccio top-down della candidatura, con l’invenzione di una comunità patrimoniale basata su un modello scientifico-nutrizionale, ha portato a un processo bottom-up che è ancora in divenire, ma che lascia intravedere una proliferazione di processi di attribuzione di paternità della Dieta mediterranea in numerose aree del Meridione, a seguito però di una decisione centrale e non di un’autonoma identificazione. In questo caso lo Stato ha preso la decisione di presentare la candidatura, ha individuato la comunità (scientifica e territoriale), ha ottenuto il riconoscimento e da lì si sono attivate ricadute che hanno prodotto la ratifica del processo da parte della regione e filiazioni diffuse di ampio raggio. La Convenzione esprime invece un modello esattamente inverso, con le comunità che autonomamente propongono il bene e che nel fare ciò si attivano per una sua salvaguardia (eventualmente con la mediazione delle regioni), con lo Stato che ratifica e favorisce il processo, secondo un principio di sussidiarietà che peraltro è ben presente nella stessa Costituzione.
Rispetto alla Dieta mediterranea, altri casi hanno rappresentato traiettorie diametralmente opposte. La candidatura del Palio di Siena, preparata nel corso del 2010, ha infatti seguito un percorso che possiamo definire bottom-up, essendo partita dalla comunità, anzi dalla molteplicità delle comunità patrimoniali del territorio urbano. Da questo punto di vista, Siena rappresenta forse un caso da manuale per quanto riguarda una modalità comunale di partecipazione e di autonomia dagli organi centrali dello Stato. Infatti, la candidatura è partita dal Comune di Siena (in particolare dall’allora sindaco), che è l’organizzatore ufficiale del Palio, ma con la condivisione formale del magistrato delle contrade, massima espressione della partecipazione delle 17 contrade e del Consorzio per la tutela del Palio di Siena (quest’ultimo una vera e propria comunità patrimoniale antica, nata nel 1981 per tutelare e valorizzare la manifestazione). Si è trattato quindi di una candidatura che – nello spirito della Convenzione – ha avuto una partecipazione ampia nella comunità, nonostante i conflitti che l’hanno caratterizzata sul piano politico.
Diversi anni prima della candidatura, infatti, il Palio era stato oggetto sui media italiani di critiche da parte dei movimenti animalisti, che più volte avevano accusato la manifestazione (e le autorità che la promuovono) di scarsa attenzione nei confronti della salute dei cavalli. Secondo gli animalisti, la corsa senese, a causa del percorso urbano particolarmente pericoloso, mette a rischio l’incolumità dei cavalli e deve pertanto essere abolita. Per tale motivo, proprio per venire incontro a questa problematica e per non mettere a rischio lo svolgimento (e la vita) della manifestazione più identitaria e prestigiosa della città, il comune ha sviluppato negli anni un programma di addestramento e di controllo rigoroso nei confronti dei cavalli scelti per correre, in modo da ridurre al minimo ogni rischio. Non stupisce che la candidatura del Palio sia arrivata proprio in questo clima di polemiche e di debolezza per l’amministrazione sul tema dei diritti degli animali. Ottenendo dall’UNESCO un riconoscimento patrimoniale internazionale – che per molti senesi era scontato – l’amministrazione locale avrebbe messo a tacere per sempre le polemiche e cancellato qualsiasi dubbio o conflitto in merito alla salute dei cavalli. Diventando patrimonio dell’umanità riconosciuto dall’UNESCO, il Palio (e il sindaco) potevano sperare di uscire indenni dalla ridda di polemiche che negli ultimi anni avevano investito tale manifestazione.
È facile allora intuire quale sia stata la motivazione politica che ha portato il comune a presentare la candidatura: la necessità di utilizzare un regime globale come quello UNESCO per superare polemiche nazionali motivate da valori altrettanto globali (i diritti degli animali). Se tuttavia negli anni passati le polemiche sulla salute dei cavalli erano rimaste marginali nel dibattito nazionale e limitate alla sola sfera degli animalisti, nel corso dell’anno in cui Siena ha preparato la candidatura, queste polemiche sono state riprese sui media dal ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla, esponente di un governo di destra opposto a quello dell’amministrazione senese. In seguito a queste polemiche, per evitare che la candidatura contrastata del Palio, ormai fortemente esposta sul piano mediatico, incrinasse i rapporti di governo, la commissione interministeriale, senza dare alla città motivazioni ufficiali, ha deciso di bloccare la candidatura senese, nonostante nel dossier non ci fossero vizi formali. Una candidatura che in seguito non è stata più riproposta dalla città.
L’esultanza degli animalisti e dello stesso ministro del Turismo per l’esclusione del Palio dalla candidatura rivela le ambiguità del paradigma dell’UNESCO e la trama delle dinamiche locali in un contesto fortemente caratterizzato da sentimenti di autonomia comunale. Le voci anti-Palio fanno leva, infatti, sulla non rappresentatività nazionale della manifestazione (il ministro Brambilla dirà che il Palio non rappresenta per l’intero Paese un simbolo in cui identificare la propria appartenenza), laddove nella Convenzione la questione della rilevanza nazionale del bene rimane piuttosto ambigua, sottolineando l’importanza che esso deve rappresentare per una comunità non chiaramente definita. Le voci pro-Palio insistono invece sulla sua rappresentatività nazionale, come manifestazione storica tra le più antiche del Paese e tra le più conosciute a livello mondiale; una conflittualità di vedute nella quale, in questo caso, la Regione Toscana non ha operato alcuna mediazione.
Il terzo esempio analizzato rappresenta invece il caso ‘virtuoso’ di una candidatura nata da un progetto tra comuni, che nell’unione di rete tra territori hanno aggirato le diverse regioni di appartenenza. La Rete delle grandi macchine a spalla, candidata all’UNESCO nel 2010, che nel 2013 ha ottenuto l’iscrizione alla Lista, non ha rappresentato infatti né una candidatura top-down di tipo ministeriale, come è stata la Dieta, né una candidatura che enfatizzava le appartenenze localistiche, come molte altre. Al contrario, si è trattato del tentativo di coniugare il tema della salvaguardia delle diversità culturali entro un progetto di dialogo tra comunità, che al centro della loro vita sociale e culturale hanno eventi religiosi che vedono protagoniste grandi macchine festive portate a spalla. Il progetto, che è stato coordinato non da un soggetto collettivo, bensì da un singolo proponente, la storica calabrese Patrizia Nardi, ha coinvolto, come già accennato, non senza contrasti e criticità locali, quattro comuni localizzati in quattro diverse regioni e le rispettive feste: la festa dei Gigli di Nola, la festa di Santa Rosa di Viterbo, la Varia di Palmi e i Candelieri di Sassari (Ballacchino 2012). È presto per valutare l’impatto sulle realtà locali di tale iscrizione, che da più parti è stata salutata – a ragione – come un successo italiano e un modello di rete auspicabile per altre candidature. Non è certo che si tratti di un tentativo di dialogo del tutto riuscito, visto che a uno sguardo etnografico ravvicinato la candidatura, oltre a stimolare potenzialità di dialogo tra comunità (per il momento solo formali) che solo in futuro potranno esprimersi, sembra anche aver riattivato conflittualità soggiacenti ad alcuni territori. Certamente, la scelta della rete non è partita dal basso, ma da un referente terzo in un processo nel quale, tuttavia, le regioni hanno avuto anche qui una scarsa, se non nulla rilevanza; e ha inoltre escluso a priori altre potenziali comunità festive, come per es. i Misteri di Campobasso, la Vara di Messina, il Carro di Ponticelli, o le numerosissime altre manifestazioni festive che fanno uso di macchine a spalla.
Se lo spirito della Convenzione era quello di stimolare il dialogo nelle comunità e tra le comunità candidate e iscritte, viste a distanza ravvicinata le dinamiche prodotte sembrano mostrare in alcuni contesti un irrigidimento delle vocazioni campanilistiche, che mette in evidenza la contraddizione di fondo contenuta nella Convenzione tra una vocazione universalistica (il patrimonio dell’umanità) e una vocazione relativistica (la diversità culturale); un processo che potrebbe avere proprio nelle regioni un luogo di mediazione positivo, fino a oggi rimasto però disatteso.
In questo scenario solo alcune regioni virtuose, come Sicilia e Lombardia, mostrano una capacità di pensare il patrimonio culturale immateriale al punto di incontro tra uno scenario internazionale fatto di istanze partecipative e una storia regionale che riconosce nelle politiche locali tradizioni dense di ricerche e di studi di ambito demoetnoantropologico. In questo senso, tra le molte regioni – la maggioranza – che annaspano non riuscendo a farsi protagoniste di politiche culturali organiche e aperte, i pochi casi virtuosi nati ai due estremi della penisola rappresentano buone pratiche che evidenziano una sinergia tra l’ambito demoetnoantropologico e il patrimonio culturale immateriale e non una loro contrapposizione, dove le competenze antropologiche vengono valorizzate, ma non si arroccano entro modelli esclusivamente documentali, dove la sperimentazione di strade alternative di tipo partecipativo (per es. sulla partecipazione delle comunità agli inventari) non svilisce le competenze antropologiche e dove il dialogo con l’arena globale messa in moto dall’UNESCO non si riduce a una vetrina di riconoscimenti da sfruttare sul piano politico ed economico, ma corrisponde a progetti aperti verso l’Europa, verso il Mediterraneo e verso il mondo delle diversità culturali.
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Il presente saggio, incentrato prevalentemente sulle regioni del Centro-Sud, è stato pensato e scritto in forma complementare al saggio di Valentina Lapiccirella Zingari, che segue e al quale si rimanda per un’analisi più dettagliata dell’area del Centro-Nord.
Si ringraziano Roberta Tucci, Tommaso Rotundo, Katia Ballacchino, Antonella Iacovino, Daniele Parbuono, Gaetano Pennino, Antonio Fanelli, Stefania Baldinotti e Pietro Clemente.