BENI COMUNI.
- Il problema: ius excludendi alios. De iure condito: usi civici e beni culturali e paesaggistici. De iure condendo. Bibliografia
Il problema: ius excludendi alios. – L’antico brocardo ius excludendi alios staglia plasticamente il concetto di proprietà, trasfuso nelle codificazioni unitarie e giunto sino al nostro art. 832 del codice civile. La proprietà è pensata come diritto esclusivo, il quale preclude al resto del mondo – e così a ogni soggetto diverso dal proprietario – di godere e disporre della cosa. La formula bene comune interroga problematicamente il diritto classico. Si tratta qui, non già di dominio condiviso, ossia di una contitolarità del ius excludendi tra più proprietari, bensì di godimento del bene da parte di terzi. Come coniugare esclusività del dominio e godimento altrui? Il godimento su cosa altrui può ragionarsi da una duplice angolatura: godimento di fatto, il quale si risolverà in empirica tolleranza del dominus, e ben potrà dar luogo alle azioni possessorie del diritto positivo; godimento di diritto, il quale suscita appunto il problema del b. c. e così la pensabilità di uno ius in re aliena diverso dagli iura tipici, previsti dalla legge. Sotto questa luce, parrebbe registrarsi l’esistenza di beni che, ancorché dominicali (ossia appartenenti a un proprietario) implichino una sostanza non già esclusiva, bensì inclusiva; e siano destinati per immanente natura al godimento di altri. Giova allora chiarire l’uso dell’aggettivo comune. Esso esprime non la semplice facoltà di godimento concessa a terzi determinati, la quale appartiene a tradizione millenaria e si traduce negli iura in re aliena del codice civile; bensì una destinazione comunitaria, sorta di immanente nota collettiva del bene, il quale si presta per proprio carattere a essere fruito da un gruppo più o meno numeroso di soggetti indeterminati. Il problema si lascia racchiudere in una domanda: è ogni cosa suscettibile di ius excludendi? o si danno cose inappropriabili in senso pieno ed esclusivo, e così intrinsecamente volte al godimento comune? La formula b. c. non trova definizione normativa; e si dimostra incerta in letteratura.
Il codice civile del 1942 adotta una classificazione formale dei beni pubblici, fondata sulla titolarità pubblica o privata del diritto; senza alcun rilievo della funzione e destinazione pubbliche del bene.
Sullo scorcio del 19° sec., l’appartenenza del bene allo Stato in ragione dell’interesse generale sembra toccata dalla Corte di cassazione; la quale approda a una nozione di b. c. distinta dalla titolarità dominicale. Si tratta della nota sentenza del 9 marzo 1887 sull’uso pubblico di Villa Borghese, che riconobbe ai romani uno ius deambulandi sul parco della villa; diritto di uso pubblico su un bene immobile di proprietà d’un privato. Su questa linea, la giurisprudenza più recente sembra ravvivare la memoria delle res in usu publico nel caso delle Valli da pesca della laguna di Venezia, risolto il 14 febbraio 2011 dalla Corte di cassazione a sezioni unite. La Corte ne stabilisce il carattere demaniale, invocando la nozione di b. c. come strumentalmente volta alla realizzazione d’interessi dei cittadini. Ove un «bene immobile [...], indipendentemente dal titolo di proprietà pubblico o privato» risulti «funzionale ad interessi della stessa collettività» esso «è da ritenersi ‘comune’ vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini». La Corte suprema sembra così sdoppiare il concetto: accanto a un’appartenenza di servizio (o titolarità, in senso classico) si darebbe una seconda forma d’appartenenza, diremo di utilità. Tale ultima appare segnata dalla destinazione al godimento collettivo, funzionale al soddisfacimento degli interessi dei fruitori. Dove trovare indici normativi, sui quali fondare una tale disciplina dei b. c.? La risposta passa dall’analisi delle disposizioni di legge, mercé le tortuose e incerte vie dell’analogia; o lo scrutinio di principi comuni. Muoviamo per questa direzione all’esame di alcuni regimi speciali, i quali sembrano offrire spunti d’interesse.
De iure condito: usi civici e beni culturali e paesaggistici. – Sembra darsi un altro modo del possedere, trasfuso ed espresso nella categoria degli usi civici. Secondo l’art. 1, l. 16 giugno 1927 nr. 1766, gli usi civici sono «diritti di promiscuo godimento». Diritti riconosciuti a una comunità di abitanti di un determinato luogo per una o più determinate utilità (si pensi, per es., al diritto di pascolo, al diritto di raccogliere legna, funghi o castagne). Essi possono toccare così terreni di proprietà demaniale (cd. usi civici demaniali), come pure beni privati (cd. usi civici in senso stretto). In entrambi i casi, i beni non sono usucapibili; non possono circolare senza precise autorizzazioni; hanno un vincolo di destinazione e sono amministrati dall’ente territoriale o dagli enti esponenziali. Ex re oritur ius, potrebbe pur pensarsi. Gli usi civici presuppongono la connaturale destinazione del bene all’utilità collettiva. I beni di uso civico parrebbero modellati, non già sulla titolarità (individuale e assoluta), bensì sulla destinazione funzionale. Un diverso modello di ‘appartenenza’; la quale tocca l’utilitas e in ragione di essa implica vincoli indisponibili e la partecipazione della collettività dei fruitori all’amministrazione e all’accesso.
Su questa linea, ulteriori spunti di diritto cogente sembrano offerti dalla materia dei beni culturali e paesaggistici. Secondo l’art. 2, d. legisl. 22 genn. 2004 nr. 42 (codice dei beni culturali), il patrimonio culturale è costituito dai beni (propriamente) culturali, da un lato, e dai beni paesaggistici dall’altro. Nella prima categoria rifluiscono i beni che «presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà». Sono riconducibili entro la fattispecie «gli immobili e le aree indicate all’articolo 134, costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge» (v. beni culturali). L’art. 2, 4° co., sembra confermare la cd. pluralità di appartenenze. Esso prevede che «i beni del patrimonio culturale di appartenenza pubblica sono destinati alla fruizione della collettività». Indipendentemente dalla titolarità pubblica o privata, il bene culturale è sottoposto a disciplina cogente (artt. 29 e segg., 59 e segg.) con vincoli d’indisponibilità e limiti alla proprietà piena.
De iure condendo. – Financo un ambiente mercantile e liberistico come quello nordamericano registra una teoria economica dei Commons. Elinor Ostrom, economista statunitense (premio Nobel 2009) dimostra come si diano beni o servizi (risorse naturali, acqua, aria, energia, ambiente; territorio, patrimonio culturale e paesaggistico, rete) non rivali, i quali evocano la categoria romanistica delle res communes omnium, inappropriabili e preclusi al commercio giuridico. Essi chiedono di andare sottratti alla logica del mercato, in settori caratterizzati da economie di scala, elevati costi fissi, esternalità; e sembrano implicare la maggior razionalità economica dell’intervento pubblico. Ostrom segnala come la privatizzazione dei b. c. si dimostri fonte di sottoconsumo e sottoproduzione; e come si riveli economicamente più efficiente una gestione dei b. c. da parte di comunità di utenti.
Sono gli anni in cui l’Italia è attraversata dal fenomeno delle privatizzazioni in settori come l’energia, il gas, le comunicazioni, il trasporto. La crisi del modello statocentrico si esprime nel principio di sussidiarietà orizzontale, introdotto con la riforma del titolo V (l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3) nell’ultimo co. dell’art. 118 della Costituzione. L’arretrare dello Stato e la percezione di scarsità delle risorse inducono alla creazione di una categoria, che coniughi rispetto del vincolo di bilancio pubblico e fruizione collettiva dei beni. In questo contesto storico-politico nasce in Italia il movimento dei beni comuni. Allargando lo sguardo al diritto futuro, si segnala il disegno di legge delega elaborato dalla Commissione Rodotà per la novella del libro III del codice civile. La proposta legislativa ha visto la luce nel 2007. Il disegno di legge delega definisce «beni comuni» «le cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona». Titolari di b. c. possono essere persone giuridiche pubbliche o privati cittadini. Viene in rilievo la destinazione del bene alla fruizione dell’intera collettività: i beni privati circolano sul mercato; i beni pubblici sono sottratti al commercio e sono suscettibili di concessioni ai privati per una durata limitata senza possibilità di proroghe. Il legislatore delegato istituisce le azioni inibitoria e risarcitoria. In particolare, attribuisce a ciascun fruitore del bene la legittimazione all’azione diretta per la tutela del «godimento comune», mentre riserva allo Stato la legittimazione all’esercizio dell’azione di risarcimento del danno. Emerge la legittimazione processuale del «chiunque». Chiunque ha diritto di rivolgersi all’autorità giudiziaria per inibire il fatto lesivo e ripristinare la situazione anteriore. Sotto questa luce, la categoria b. c. parrebbe mettere capo ai diritti della personalità; come pure ampliare la nozione di bene pubblico recata nel codice civile, secondo cui il bene è pubblico soltanto se è oggetto di titolarità pubblica.
La teoria dei b. c. sembra condurre a ulteriore esito il concetto costituzionale di funzione sociale della proprietà, frutto e fondamento del dibattito civilistico intorno ai confini e alla dinamica del ‘terribile diritto’. Essa mette capo al fondamentale principio dell’‘essere insieme’ in una comunità (anche) giuridica; la quale non tiene per data e inviolabile la libertà del singolo come sorta di monade escludente. E orienta l’appartenere verso il bisogno dell’altro, secondo un pensiero caro (anche) alla dottrina sociale della Chiesa. Su questo fronte, l’annosa polemica tra naturalità e artificialità del diritto reale cede il passo a una nota logicamente preliminare: essere la proprietà un diritto essenzialmente relativo e segnato da un confine, che esige limitazione e riconoscimento da parte degli omnes. Non è concepibile una proprietà bruta e pregiuridica; dominium è concetto transitivo e derivativo, che implica opponibilità ai terzi e – prima e sopra – il riconoscimento del resto del mondo. Ogni proprietà a ben vedere sembra postulare un’altruità, siccome rilevante per e nella comunità che la concepisce e istituisce. La proprietà si svela, per immanente necessità concettuale, spazio giuridico relativo; non già inaccessibile sacrario di una esclusiva e irrelata solitudine.
Bibliografia: S. Rodotà, Il terribile diritto: studi sulla proprietà privata e beni comuni, Bologna 1981, 20133; E. Ostrom, Governing the Commons. The evolution of institutions for collective action, New York 1990 (trad. it. Governare i beni collettivi, Venezia 2006); A.M. Gambino, Beni extra mercato, Milano 2004; P. Grossi, I beni: itinerari fra “moderno” e “post moderno”, «Rivista trimestrale di diritto e procedura civile», 2012, pp. 1059-85; U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Bari 2012; Oltre il pubblico e il privato. Per un diritto dei beni comuni, a cura di M.R. Marella, Verona 2012; A. Di Porto, Res in usu publico e beni comuni. Il nodo della tutela, Torino 2013; V. Cerulli Irelli, L. De Lucia, Beni comuni e diritti collettivi, «Politica del diritto», 2014, pp. 3-36; N. Irti, L’acqua tra beni comuni e concessioni (o la pluralità delle “appartenenze”), in Dialoghi sul diritto dell’energia, 1° vol., Le concessioni idroelettriche, a cura di M. De Focatiis, A. Maestroni, Torino 2014, pp. 2-9; A. Nervi, Beni comuni e ruolo del contratto, «Rassegna di diritto civile», 2014, pp. 180-203; L. Rampa, Q. Camerlengo, I beni comuni tra diritto ed economia: davvero un tertium genus?, «Politica del diritto», 2014, pp. 253-96.