BENEVENTO (A. T., 27-28-29)
Capoluogo di provincia e di quella parte del Sannio che è compresa nell'odierna Campania. Sorge quasi nel luogo stesso che ebbe sin dalle origini, sopra il colle della Guardia, digradante con dolce declivio nel piano dove il fiume Sabato aflluisce nel Calore. Ma è la sua posizione nella Campariia interna che ci spiega come Benevento, sin dai tempi antichi, fosse considerata città assai importante, e tale si conservasse ininterrottamente in ogni epoca della nostra storia. La conca, in cui la si vede appena sollevata sul colle anzidetto, per la sua salubrità, è veramente il cuore della regione interna; ed ivi affluiscono, come in un vero impluvio, le acque del Sannio campano, che poi trovano la via d'uscita col Calore. Da quel centro si diramano (e si può proprio dire in ogni senso) i solchi naturali più importanti per le comunicazioni con gran parte del Mezzogiorno della penisola.
Non sembra, a chi osservi gli avanzi più antichi della città, che essa abbia avuto con i Sanniti e con i Romanì un'estensione notevolmente più ristretta di quella che ebbe nel Medioevo, quando fu capitale del Ducato longobardo. Uno dei suoi duchi più potenti, Arichi II, l'ingrandì verso il piano e la rinnovò in gran parte.
La città è ancora in buona parte cinta di vecchie mura, che nella loro primitiva struttura risalgono al periodo longobardo; ma sono andate soggette nei secoli a restauri e rifacimenti considerevoli. Fuori di questa cinta la città si è poco sviluppata nei tempi moderni, tranne nei declivî che la congiungono, con belle strade, alle due stazioni, e segnatamente alla centrale; alla quale si arriva per il Corso Vittorio Emanuele, il ponte monumentale sul Calore e il largo Viale Principe di Napoli, fiancheggiato da nuovi e begli edifizî. Ma anche dentro il perimetro delle sue mura la città si è notevolmente rinnovata; sicché il visitatore incontra edifizî maestosi dell'età romana ed altri che rimontano al Medioevo, frammisti a non pochi palazzi dell'età nostra dall'aspetto nobile e severo.
La città, con 20.429 ab., accentra quasi tutta la popolazione del comune, che nel 1921 contava 27.510 ab. Esso, dal punto di vista demografico, è ora in continuo progresso. Nonostante l'esodo assai notevole del periodo anteguerra (ancora nel 1919 però emigrarono 112 ab. e nell'anno successivo 310), la popolazione, in circa mezzo secolo, è aumentata di un buon terzo. Da circa 21.000 (nel 1881, 21.631), la popolazione con l'ultimo censimento era arrivata a 27.510 abitanti, con un aumento di più di 3000 su quello del 1911, che aveva dato la cifra di 24.329 (inferiore a quella del 1891: 24.647); ma già dal 1925 gli abitanti sono più di 30.000. La mortalità è scarsa, e l'eccedenza media dei nati vivi sui morti nel triennio 1922-24 risultò di 16,73 per 1000 ab. (superando di circa 3 la media della regione). Eppure il clima, per gli sbalzi di temperatura e per l'umidità accentuata, non è considerato eccellente. Notevole l'escursione termica (con un cinquantennio di osservazioni si ha una media per gennaio di 5°,7, per luglio di 23°,8, e con un quindicennio di osservazioni si ha una media di temperature massime per gennaio di 1°,1 e per luglio di 17°,3); e degne di rilievo sono anche la nebulosità (osservazioni di un ventennio: nebulosità massima, gennaio, 67; minima, agosto, 25) e la quantità delle precipitazioni (massima a novembre, 105, minima a luglio, 29).
L'agricoltura è la base della vita economica del comune, la cui superficie (kmq. 126,97) è quasi tutta produttiva. Ha uno dei primi posti, nel regno, per la coltivazione del tabacco; ma ha anche abbondante produzione di grano, uva, olive, legumi. Sistemi più moderni e razionali si vanno diffondendo per l'allevamento e le industrie che vi sono connesse. Tra le industrie comuni (fabbriche di laterizî, fiammiferi, cioccolata, biscotti e dolci in genere) due sono caratteristiche di Benevento: la fabbricazione del torrone (che ivi si vuole antica di molti secoli) e la preparazione del liquore chiamato Strega, il cui nome è legato ad una strana leggenda del luogo. Le industrie meccaniche sono ora assai più sviluppate che nel passato: esse hanno nelle officine De Caterina, che costruiscono macchine per la fabbricazione del torrone e per altri usi, un modello del genere. E, sebbene allo stato incipiente, va anche ricordata un'altra industria: la fabbricazione di macchine agricole (con una fonderia per ghisa e bronzo).
Bibl.: R. Garrucci, Le antiche iscrizioni di Benevento, disposte in ordine e dichiarate, Roma 1875; A. Meomartini, I monumenti e le opere d'arte della città di Benevento, Benevento 1889; E. Isernia, Istoria della città di Benevento da la sua origine al 1894, 2ª ed., Benevento 1895-96, voll. 2; A. Dina, L'ultimo periodo del principato longobrdo e l'origine del dominio pontificio in Benevento, Benevento 1899; A. Meomartini, Benevento, Bergamo 1909 (coll. Italia artistica); A. Mellusi, L'origine della provincia di Benevento (1860-61), Benevento 1913; V. Epifanio, Campania, Torino 1925 (coll. La Patria).
Monumenti. - La città, che durante il periodo romano era ancora raggruppata presso la confluenza del Sabato e del Calore, quando i Longobardi vi stabilirono la capitale del loro ducato (571) cominciò a risalire su per il dorso della collina raggiungendo approssimativamente quell'estensione che ancor oggi conserva. Tuttavia sono pochi i resti che ricordano la dominazione longobarda: la necropoli con tombe dei secoli VII e VIII nella pianura oltre il fiume Calore, le mura a mezzogiorno della città, la chiesa di S. Sofia. Nella necropoli sono stati ritrovati frammenti di armi, qualche crocetta ed ornamenti d'oro, oggi conservati nell'archivio municipale; le mura hanno ben poco carattere; solo S. Sofia, consacrata nel 760, presenta un interesse indiscutibile. Dell'antico edificio ancora si conserva, oltre la pianta, parte della struttura originaria. La costruzione è poligonale con doppia cerchia di colonne, che reggono vòlte a tracciato svariatissimo, intorno al vano mediano sormontato da una cupola su alto tamburo esagono. La pianta e la struttura accennano a libera imitazione di modelli bizantini. Il chiostro annesso risale agli inizî del sec. XII; è spartito in quadrifore, che hanno archetti a ferro di cavallo, rivelanti influssi musulmani, che si ritrovano anche nei resti di decorazioni pittoriche dell'introdosso degli archi. Influssi pugliesi si riconoscono invece nelle sculture dei capitelli.
La facciata del duomo, opera dei primi decennî del '200, deriva da quelle pugliesi; fu decorata di marmi da un Ruggero. Le imposte bronzee appartengono ad un maestro meridionale della prima metà del '200. Il candelabro pasquale e alcuni capitelli, riadoperati da Nicola da Monforte nel pergamo (1311), appartengono anch'essi alla prima metà del '200. L'interno della chiesa è diviso in cinque navate da colonne provenienti da qualche edificio classico. Nel campanile, costruito nell'ultimo venticinquennio del secolo XIII, sono incastrati marmi classici. Interessante è, nel duomo, il tesoro ove, fra l'altro, è conservata una cattedra in ferro battuto, detta di S. Barbato, opera del sec. XI. Altro monumento importante della Benevento medievale è il castello, la cui origine risalirebbe ai Longobardi, ma che appare tutto rimaneggiato in varie epoche. In esso ha sede un piccolo museo lapidario.
Del Rinascimento e dell'età moderna, Beneveuto ben poco ha di notevole, se si eccettua qualche palazzetto del '600 e '700 che si eleva sulle case basse, dai profondi cortili, della cittadina, che nelle vie secondarie ancora conserva un piacevolissimo aspetto di silenziosa città papale. Della città moderna l'opera più interessante è certo il gran ponte sul calore, rifatto quasi intieramente dal Vanvitelli.
V. tavv. CLVII a CLXII.
Bibl.: A. Meomartini, Benevento, Bergamo 1909; P. Toesca, Storia dell'arte it., I: Il Medioevo, Torino 1928.
Folklore: il noce di Benevento. - La leggenda del notturno convegno delle streghe recantisi, sopr'acqua e sopra vento, al noce di Benevento, a cavallo di caproni e con in mano scope accese, nonché le superstizioni relative a tale pianta malaugurata, trarrebbero origine dall'albero sacro, adorno d'una vipera bicipite d'oro massiccio, che i Longobardi di quella città venerarono non lungi dalle mura, e che il vescovo Barbato fece divellere nel 663. Il luogo, che fu poi consacrato con la costruzione della chiesa di S. Maria in voto, è ora chiamato Piano della Cappella.
Bibl.: S. Borgia, Mem. istoriche della pontificia città di Benevento, Roma 1763, I, p. 212; M. Camera, Una gita a Benevento, in Arte e Storia, VII (1888), p. 27; P. Piperno, De effectibus magicis... ac de nuce maga beneventana, Napoli 1647.
Storia. - La città antica. - Nell'antichità Beneventum (originariamente Malventum, forse da Malies, Maloenta e Maloentum, mutato superstiziosamente dai Romani in Beneventum, quasi Bonus Eventus) apparteneva alla regione sannitica meridionale, o Irpinia. Un'antica leggenda attribuiva la fondazione di Benevento a Diomede. A questa stessa leggenda potrebbe riferirsi l'emblema del cavallo impresso su monete supposte beneventane, con la scritta Malies. Il nome di Malventum però non apparisce nella storia prima della guerra sannitica, nel 314. a. C. (Liv., IX, 27,14). Quivi Pirro viene battuto dai Romani nel 275 a. C. (v. oltre). Poco dopo, alla fine della guerra contro Pirro, è colà fondata una colonia latina, e di questo periodo appunto è la trasformazione del nome in Beneventum nonché la prima, ed unica, sicura monetazione beneventana in bronzo, con monete dalla testa di Apollo nel recto, con la scritta Benventod e cavallo rampante nel verso.
L'importanza geografica, strategica e commerciale, di Benevento viene accresciuta a dismisura dal prolungamento della Via Appia, effettuato tra il sec. III e il II a. C., da Capua fino a Benevento, e di qui fino a Brindisi. Per cui Benevento, trovandosi all'incrocio dell'Appia con tre altre strade, di cui una conducente a Sepino nel Sannio, e due in Campania, una per Telese, l'altra per Avellino, viene giustamente considerata nodo stradale di prim'ordine tra le città dell'Italia meridionale. Nella guerra annibalica essa rimase fedele a Roma, e anzi presso Benevento, nel 214 e nel 212 a. C., i Romani inflissero due memorabili sconfitte all'esercito cartaginese.
La città ebbe dapprima una costituzione affine a quella di Roma, con i consules e i quaestores, come è attestato da iscrizioni (Corpus Inscr. Lat., IX, 1547, 1633, 1636; come un'aggiunta tarda è supposto dal Mommsen il titolo di praetor in Corp. Inscr. Lat., IX, 1547). Più tardi al posto dei consules subentrano dei pretori e con la cittadinanza romana, ottenuta dopo la guerra sociale, si costituisce il municipium di Benevento, ascritto alla tribù Stellatina, con a capo nuovi magistrati i quali si chiamano quattuorviri (iure dicundo e quattuorviri aediles). Poi i Triumviri nel 42 a. C. dedussero a Benevento una colonia di veterani, che fu rinforzata da Augusto; per cui il titolo completo della città è quello di Colonia Iulia Concordia Augusta Felix Beneventum (Corp. Inscr. Lat., IX, 2165). Con la fondazione della colonia si collega l'apparirvi di duumviri in luogo di quattuorviri. Augusto accrebbe l'estensione già considerevole del territorio beneventano aggiungendovi il territorio confinante di Caudio. Diocleziano separò Benevento dalla regione II (Apulia e Calabria), per includerla nella regione I (Campania).
La città conserva tuttora resti monumentali cospicui del suo fiorire in età romana imperiale. Anzitutto l'arco di Traiano, volgarmente detto Porta Aurea, all'estremità nord della città, inaugurato nel 115 (Corp. Inscr. Lat., IX, 1558), e celebre per i finissimi e ben conservati rilievi storici che l'adornano. Viene quindi il teatro romano, in gran parte nascosto da misere costruzioni moderne, il grande criptoportico, supposto emporio romano, o magazzino granario, in località Santi Quaranta, resti di terme, epigrafi e sculture varie, riunite nel museo al Castello medievale. Ponti romani nei dintorni. Rimangono testimonianze monumentali importanti, tra cui due obelischi, di un tempio e culto locale di Iside, riferibile al tempo di Domiziano. La vita commerciale della città si protrae rigogliosa fino al tardissimo impero.
Bibl.: Hülsen, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, col. 27 segg.; E. De Ruggiero, Dizionario epigrafico, s. v.; H. Nissen, Italische Landeskunde, II, ii, pagina 811 segg.; A. Meomartini, Benevento (coll. Italia artistica), Bergamo 1909; E. Schiaparelli, Antichità egizie scoperte in Benevento, in Notizie scavi, 1893, p. 267 segg.; Meomartini-Marucchi-Savignoni, Benvento, Scoperte archeologiche in S. Agostino, in Notizie Scavi, 1904, p. 107 segg. - Sull'arco traianeo, v. E. Strong, La scultura romana da Augusto a Costantino, II, Firenze 1926, p. 191 segg. Per le monete, Head, Hist. Num., 2ª ed., p. 28, e Sambon, Monnaies antiques de l'Italie, I, p. 114 seg. Iscrizioni in Corp. Inscr. Lat., IX, 1538-2082, con introduzione storica di T. Mommsen a p. 136; ed Ephem. Epigr., VIII, pp. 93-102, 812-14. Per le magistrature di Benevento, v. principalmente Beloch, Röm. Geschichte, Berlino 1926, pp. 490, 500, 513.
La città nell'epoca medievale e moderna. - Anche nel Medioevo B. continuò a rappresentare un saldo punto d'appoggio per il dominio del Sannio. Belisario, intorno al 536, la tolse ai Goti, che la ripresero nove anni dopo. Totila ne fece anzi demolire le mura, ricostruite nell'età successiva. Quando le prime schiere longobarde penetrarono nell'Italia meridionale, Benevento divenne il centro naturale del ducato che gl'invasori fondarono nel Sannio, intorno al 571, con Zottone, e un'ottima base per il consolidamento e l'espansione del loro dominio, sino ai litorali tirrenico e adriatico. Nel 663, si provò invano ad espugnarla l'imperatore bizantino Costante II. Passato ai sovrani franchi il regno longobardo (774), Benevento crebbe di dignità per avere il suo duca, allora Arichi II, assunto il titolo di "princeps gentis Langobardorum" e parve destinata a farsi depositaria delle tradizioni longobarde.
I molteplici rapporti, politici, religiosi, culturali, economici, con le città marinare autonome, con Franchi, con Tedeschi, con Saraceni, con imperatori e con papi, esercitarono un'indubbia azione sulla vita della città. A Benevento si svolse una notevole attività intellettuale, che nel campo letterario produsse l'opera storica di Falcone, nel secolo XII; nel campo artistico lasciò insigni monumenti nel monastero di S. Sofia e nel duomo; e nel campo giuridico si manifestò attraverso la legislazione dei suoi principi, e la fama acquistata dai suoi giuristi (Roffredo Epifanio, sec. XIII; Bartolomeo Camerario, sec. XVI). Beneventani furono Erchemperto, nel sec. IX autore di una storia dei Longobardi di Benevento; e Desiderio, nel sec. XI animatore della cultura di Montecassino, e poi papa col nome di Vittore III. Benevento fu innalzata a sede arcivescovile da papa Giovanni XIII nel 969.
Nei secoli dall'VIII all'XI, la città fu mira di contrastanti aspirazioni: Bizantini, imperatori, papi, Normanni, minacciarono il persistere del dominio longobardo su Benevento. Dall'891 all'895, essa fu occupata dai Bizantini; per due anni, fu poi tenuta da Guido IV, marchese di Spoleto; ritornò nell'897 ai principi longobardi. Intanto, anche tra le classi sociali della popolazione cittadina si svolgevano forze nuove, intese a farsi valere nell'amministrazione di Benevento di fronte al principe. Nel 1015, abbiamo oscura notizia di una "communitas prima" che è indizio d'un avviamento ad organi comunali. Nel 1041, l'accenno ad una "coniuratio secunda" che probabilmente risponde allo svolgersi del processo iniziale nella vita delle autonomie cittadine. Ma subito, a determinare per secoli le ulteriori vicende della città, si ebbe l'intervento di una forza politica esteriore: il papato.
Ciò coincideva col bisogno vivamente sentito dai Beneventani di una protezione contro i Normanni, più efficace di quella che i principi dimostravano di saper dare. Nel 1051, i Beneventani giurarono fedeltà alla Chiesa, dopo aver cacciato i principi; l'anno dopo, Leone IX ebbe dall'imperatore Enrico III il riconoscimento della signoria della Chiesa sulla città; e anche quando i principi vi rientrarono, nel 1055, il loro potere era, di fatto, subordinato a ouello del papa. Gregorio VII fece riconoscere, anche formalmente, a Landolfo VI questa situazione di dipendenza, nel 1073. La morte dello stesso Landolfo VI, avvenuta nel 1077, segnò l'estinzione della dinastia dei principi longobardi. Da allora, Benevento fu retta, per conto della Chiesa, da rettori, sino al sec. XV; da governatori, sino al sec. XVIII; e, dopo il 1815, da delegati. Il modo come si venne sistemando il governo pontificio sulla città, deve essere ancora studiato, soprattutto in rapporto al processo di svolgimento delle autonomie comunali nei confronti prima con i principi, poi con i papi. Specie questi ultimi dovettero ostacolarle per rendere effettivo il proprio dominio. Tuttavia lasciarono alla città particolari privilegi e proprî statuti, risalenti, nella redazione più antica conservatasi, al 1202 e, attraverso successive riforme, rimasti in uso sino al sec. XVIII. Inoltre la città ebbe proprî consoli con propria giurisdizione, forse sorti nel sec. XII. Tale magistrato fu abolito nel 1281 da Martino IV; ma l'istituto dei consoli rivisse, con funzioni ridotte, nel sec. XV, e ancora si conservava nel sec. XVIII. Nel 1695, ai consoli fu anzi concesso il manto senatorio.
I sovrani che si seguirono nel regno di Napoli non mancarono di rivendicare diritti di sovranità su Benevento e talora l'occuparono. Se ne impadronirono Federico II e Manfredi di Svevia; il primo dal 1241 alla sua morte, il secondo dal 1258 circa alla battaglia in cui cadde (1266; v. oltre).
Durante lo scisma d'Occidente, l'occuparono Ladislao, nel 1408, e poi, nel 1414, Giovanna II d'Angiò, che la restituì a Martino V dopo la fine dello scisma, nel 1418. Se ne impadronì nel 1440 Alfonso I d'Aragona, che ottenne da Eugenio IV, nel 1443 di reggerla sino alla morte come suo vicario. Ferdinando I la restituì a Pio II, nel 1459; ma la rioccupò per breve tempo, in occasione della guerra di Ferrara, nel 1482. Anche le milizie di Carlo V d'Asburgo tennero Benevento per due mesi, nel 1528; e dopo la sua abdicazione quelle di Filippo II la minacciarono. Ma, in seguito, il dominio della Chiesa sulla città non fu materialmente turbato sino alla seconda metà del sec. XVIII; la legittimità della signoria papale rimase però uno degli argomenti di polemica tra gli scrittori ecclesiastici e giurisdizionalisti, e fu spesso motivo di contrasti il fatto che a Benevento solevano rifugiarsi i fuorusciti politici del regno di Napoli. Nel sec. XVI, si calmarono anche le lotte tra le fazioni cittadine, che erano state segretamente alimentate da Napoli. Nel 1530, infatti, vennero a pacificazione solenne i due partiti avversarî, dei cosiddetti "di sopra" o "di Castello"; e dei "di basso" o "della Fragola". Quando, tuttavia, tra i Borboni e la Chiesa sorse il conflitto per la richiesta soppressione della Compagnia di Gesù, Benevento fu occupata, dal 1768 al 1774, da Ferdinando IV di Napoli. Alla popolazione non sarebbe dispiaciuto di entrare a far parte del regno, perché, chiusa, com'era, da esso, tutto intorno, ne soffriva gravemente per il commercio. Benevento era stata, inoltre, danneggiata da una terribile peste nel 1656, e da ripetuti terremoti, tra i quali specialmente doloroso quello del 5 giugno 1688.
Quando l'Italia fu invasa dagli eserciti della repubblica francese, anche a Benevento i patrioti eressero, nel 1799, l'albero della libertà. Dopo breve restaurazione del dominio papale, Benevento fu tolta alla Chiesa da Napoleone, che ne fece un principato, di cui investì il Talleyrand (1806). La città fu retta successivamente da due procuratori di quest'ultimo, Alessandro Dufresne de Saint-Léon e Luigi de Beer, i quali introdussero ordinamenti sul modello napoleonico, e presero benefiche misure. Nel 1814, Benevento ebbe la temporanea occupazione delle milizie di Gioacchino Murat; l'anno dopo, vi entrarono i Borboni ma la città fu subito restituita a Pio VII, per decisione del Congresso di Vienna. Furono nuovamente riformati gli ordinamenti cittadini, con un consiglio, un collegio di anziani, un gonfaloniere. Intanto, il fervore dei sentimenti liberali che agitava il confinante regno delle Due Sicilie, per opera dei Carbonari, si ripercuoteva anche in Benevento, dove pure si era formata una borghesia attiva e colta, mentre l'antico patriziato era decaduto nel generale mutamento di forme di vita. Nel 1820-21, i Carbonari fecero ribellare la città alla Chiesa; e Benevento fu dovuta sottomettere con l'aiuto delle milizie austriache intervenute nell'Italia meridionale. Nel 1848, fu represso un moto ancora nella fase di preparazione. Ma, nel 1860, una nuova sollevazione rovesciò per sempre il dominio papale, e Benevento, proclamata con solenne plebiscito la sua volontà di essere annessa al regno di Vittorio Emanuele II, venne, con decreto di Giuseppe Garibaldi, del 25 ottobre 1860, confermato l'anno dopo dal governo italiano, dichiarata capoluogo di provincia. Così, dopo secoli di isolamento che avevano soffocato il suo naturale sviluppo, la città riprendeva il suo posto di centro della regione sannita.
Bibl.: Manca una monografia su Benevento, condotta con criterî scientifici. Si possono consultare, ma con cautela: G. De Vita, Thesaurus antiquitatum Beneventanarum, Roma 1754, e Thesaurus alter antiquitatum Beneventanarum Medii evi, Roma 1764; S. Borgia, Memorie istoriche della pontificia città di Benevento dal secolo VIII al secolo XVIII, Roma 1763-1769 (l'opera si arresta al 1550); D. Zigarelli, Storia di Benevento, Napoli 1860; G. De Blasiis, La insurrezione pugliese e la conquista normanna nel secolo XI, Napoli 1873, pp. 69 e 476, n. 2; E. Steindorff, Zur Geschichte Benevents unter Heinrich III, in Jahrbücher d. deut. Reichs unter Heinrich III, Lipsia 1881, II, pp. 458-467; E. Isernia, Istoria della città di Benevento dalle sue origini sino al 1894, Benevento 1895-1896; A. Dina, Il comune beneventano nel 1000 e l'origine del comune medievale in genere, in Rendiconti del R. Istituto Lombardo, s. 2ª, XXXI (1898), pp. 550-562; P. Conardo, Gli antichi statuti di Benevento sino alla fine del sec. XV, Benevento 1902; A. M. P. Ingold, Bénévent sous la domination de Talleyrand et le gouvernement de Louis de Beer, 1806-1815, Parigi 1916; A. Cangiano, Gli statuti di Benevento del decimoterzo secolo, Benevento 1918; A. Zazo, Sei anni di dominio borbonico in Benevento, in Annuario del R. Liceo-Ginnasio di Benevento, 1925; id., Talleyrand e la presa di possesso del principto di Benevento, in Samnium, I (1928), pp. 7-23; O. Vehse, Benevent und die Kurie unter Nicolaus IV, in Quellen u. Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XX (Roma 1928-29), pp. 57-113.
La battaglia di Benevento. - Presso Benevento, che ancora doveva portare il suo antico nome di Maluento, Pirro, re d'Epiro, combatté nel 275 a. C. l'ultima grande battaglia della sua spedizione in Italia. I Romani avevano diviso le loro forze per combattere contro gl'Italici alleati di Pirro, inviando l'uno dei consoli, Lucio Cornelio Lentulo, contro i Lucani e l'altro, Manio Curio Dentato, contro i Sanniti. Curio era accampato presso Maluento, che non sappiamo bene se era già caduta o stava per cadere in potere dei Romani, quando al soccorso de' suoi alleati Sanniti mosse Pirro, cercando di fare battaglia con Curio prima che l'altro console, avvisato della marcia degli Epiroti, avesse avuto il tempo di congiungersi con lui. Curio, protestando che gli augurî erano sfavorevoli, non si lasciò indurre a battaglia; onde il re deliberò di costringervelo occupando una posizione importante nelle vicinanze immediate del campo romano. L'occupazione doveva avvenire di sorpresa, durante la notte; ma la marcia notturna fu lunga e disordinata, e solo sul fare del giorno le avanguardie di Pirro, alquanto in disordine, cominciarono a mostrarsi sulla posizione prescelta. Curio, cogliendo il momento opportuno, sferrò un vigorosissimo attacco contro gli Epiroti e ne respinse le avanguardie e catturò anche alcuni elefanti. Ma il re, che sopraggiungeva col grosso delle schiere, contrattaccò i Romani, che si erano avanzati troppo lontano dal loro accampamento, e li respinse fin presso le trincee. Qui Curio, ripiegando, fece salire sul vallo a difesa le riserve rimaste nell'accampamento, e alla loro volta gli Epiroti, che s'erano troppo avanzati, ripiegarono di nuovo non senza disordine. I Romani si ascrissero la vittoria. In realtà tatticamente la battaglia era rimasta indecisa; strategicamente Pirro era stato sconfitto; perché, non riuscitagli la sorpresa contro il campo romano, era costretto a ripiegare e ad abbandonare i Sanniti alla loro sorte, non potendo affrontare in campo i due consoli riuniti, dopo aver sofferto un parziale insuccesso contro l'uno solo di essi.
Tale nella sostanza il racconto di Plutarco (Pyrrh., 25), troppo chiaro e coerente per risalire alla malfida tradizione annalistica. Se pure questa tradizione vi ha influito in qualche minimo particolare, esso risale senza dubbio alle fonti greche contemporanee della guerra di Pirro. Esso trova una conferma nei Fasti Trionfali, secondo i quali Manio Curio trionfa de Samnitibus et rege Pyrrho; il collega, invece, de Samnitibus et [Lucaneis].
È noto che secondo la tradizione liviana la battaglia avvenne negli Arusini Campi, in Lucania (Floro, I, 13, 11; Orazio, IV, 2, 3), come precisa Frontino (Strat., IV, 1, 14) circa urbem Statuentum (o Fatuentum). Il nome della città è stato corretto, sembra a ragione, in Maluentum; e per quanto qualche critico abbia voluto trarne che l'intero racconto di Plutarco è fallace e che la battaglia si combatté in Lucania nelle vicinanze di Pesto, l'induzione, per le ragioni accennate di sopra, e particolarmente per la concordia tra Plutarco e i Fasti Trionfali, sembra ingiustificata. O la battaglia è stata trasportata erroneamente in Lucania da qualche annalista per la omonimia tra il fiume Calore nei pressi di Benevento e il Calore di Lucania, ovvero Livio, le cui conoscenze geografiche sono tutt'altro che sicure, all'indicazione dei Campi Arusini ha aggiuito arbitrariamente del suo quella della Lucania, confondendo il teatro della guerra ove operava Cornelio con quello ove operava Curio Dentato.
Due combattimenti presso Benevento, entrambi vittoriosi per i Romani ebbero luogo durante la seconda guerra Punica, nel 214 e nel 212. L'ipotesi moderna che l'uno sia una duplicazione dell'altro sembra infondata. Presso Benevento collocava anche qualche fonte antica la battaglia in cui Tiberio Sempronio Gracco cadde nel 212 combattendo contro Magone. Ma vi sono buone ragioni per credere che questo combattimento sia avvenuto presso il fiume Calore in Lucania.
Bibl.: R. v. Scala, Der pyrrhische Krieg, Berlino 1884, p. 164 segg.; R. Schubert, Geschichte des Pyrrhus, Königsberg 1894, p. 220 segg.; De Sanctis, Storia dei Romani, II, Torino 1907, p. 413 segg.; Beloch, Griech. Geschichte, IV, ii, Berlino 1927, p. 475 segg.
La battaglia di Benevento del 1266. - Fu combattuta e vinta, il 26 febbraio 1266, da Carlo d'Angiò, contro Manfredi, re di Sicilia. Ebbe grande importanza nella storia politica, perché rappresentò, se non l'ultimo, certo il fatto decisivo nella lotta fra gli Svevi e il papato, e diede inizio alla preponderanza angioina (francese) in Italia; nella storia militare, perché esempio tipico di impiego della cavalleria, atto a decidere della giornata. Caduta S. Germano nelle mani dell'Angiò, Manfredi, vistosi aggirato presso Capua, dove attendeva lo scontro, ripiegò nella piana di Benevento. Qui dette battaglia facendo avanzare il nerbo del suo esercito, costituito da arcieri saraceni, seguiti dalla cavalleria (circa 400 cavalieri) divisa in tre scaglioni. Ma agli arcieri Carlo d'Angiò oppose la sua cavalleria, disponendo la fanteria sui fianchi; i Saraceni furono travolti, e la parte dei cavalieri di Manfredi che entrò in combattimento fu scavalcata dagli Angioini, che avevano avuto l'ordine preciso di abbattere i cavalli degli avversarî, lasciando alla fanteria il compito di passarli a fil di spada. Il resto della cavalleria di Manfredi, condotto dai conti di Caserta e di Acerra, abbandonò il campo - non senza sospetto di tradimento. Il re morì da valoroso.
Bibl.: Delpech, La tactique au XIIIe siècle, Parigi 1886, II, p. 99-107; Köhler, Die Entwicklung des Kriegswesens und der Kriegführung, Berlino 1881, I, pp. 446-469 e 494-510, con cartina; A. Meomartini, La battaglia di Benevento, Benevento 1895, con cartina; M. Müller, Die Schlacht bei Benevento, Berlino 1907.
Provincia di Benevento. - La provincia di Benevento, limitata a nord dal Molise, a est dalla Capitanata (Foggia), a sud e a sud-est dal Principato Ulteriore (Avellino), a ovest dalla Terra di Lavoro (Napoli), ha una superficie complessiva di 5588,37 kmq. con 299.665 abitanti e una densità di 116 abitanti per kmq. Fra le provincie della Campania è la più piccola e la meno popolata.
Oltre l'antica delegazione pontificia (comuni di Benevento, Arpaise, Ceppaloni, San Leucio, Sant'Angelo a Cuppolo) comprende il resto dell'ex-circondario di Benevento e i due antichi circondarî di Cerreto Sannita e di San Bartolomeo in Galdo. La provincia, che era stata creata nel 1860, è stata di recente (2 gennaio 1927) accresciuta con l'aggregazione di 16 comuni della soppressa provincia di Caserta (ex-circondario di Piedimonte d'Alife). Ha perduto invece il comune di Cercemaggiore, passato alla provincia di Campobasso. Il 31 marzo 1927 contava in tutto 89 comuni.
La provincia è in gran parte collinosa e montuosa, con prevalenza di formazioni recenti. Al monte Taburno (m. 1393) e al Mutria (m. 1822) che erano le sommità più elevate della provincia, si è aggiunto il versante meridionale del Matese col noto lago carsico e il M. Miletto (m. 2050), la cima del quale appartiene però al Molise. Compreso nella provincia è ora anche il corso medio del Volturno; essa è poi percorsa dal Calore (affluente del Volturno). che ne costituisce l'asse centrale; fra gli affluenti di questo sono da ricordare il Sabato (sinistra) e l'Ufita, Miscano, Tammaro (destra).
L'attività principale della provincia è rivolta alle cure dell'agricoltura; prodotti principali sono il frumento e poi granoturco, vino, olio, tabacco. Notevole è la posizione di transito, facendo capo a Benevento tronchi delle linee di Foggia, Avellino, Caserta, Campobasso. Alta è l'emigrazione (popol. residente: 315.753). L'analfabetismo è ora in forte regresso; da 62 analfabeti su cento abitanti nel 1911 si è scesi nel 1921 a 49. V. anche campania.
Ducato (poi Principato) di Benevento.
L'opinione più probabile ne pone l'origine al 570 o 571, quando uno dei gruppi della gente longobarda, distaccati dal corpo principale operante a Settentrione, s'inoltrò più degli altri verso Mezzogiorno sotto il comando di Zottone. E, per le vie montagnose interne dell'Appennino penetrato nel Sannio, vi occupò l'antica città di Benevento, che Totila aveva smantellato durante la sua guerra con i Greci. Riconosciutone duca dal re, Zottone, in venti anni di governo e di ulteriori occupazioni, estese questo estremo lembo del dominio longobardo nella Campania, nell'Apulia, nella Lucania, nel Bruzio, mantenendo in suo potere quanto ebbe conquistato. Sicché il ducato suo fu il più vasto di tutti gli altri ducati, come era anche il più lontano dal centro del regno e in conseguenza il meno soggetto al potere reale.
Morto Zottone all'inizio del regno di Agilulfo (591), questi, nella speranza di avvincere a sé il ducato con più saldo legame, inviò a reggerlo il Friulano Arechi, che lo tenne per cinquant'anni (secondo altri, quaranta). In quel lungo periodo il nuovo duca estese il suo dominio sulla massima parte dell'Italia meridionale e gli diede l'ordinamento interno che restò immutato. Dei nuovi acquisti è da segnalare quello di Salerno, avvenuto dopo il 625, sembra pacificamente: città che rimase per lungo tempo unico porto dei Longobardi nella Campania. Nell'ordinamento interno dovettero allora stabilirsi, o almeno cominciare a stabilirsi, i rapporti tra conquistatori e soggetti, la condizione delle proprietà e una regolare amministrazione del paese affidata ad ufficiali eletti dal duca. Arechi accolse e adottò due figli del duca Gisulfo del Friuli, passati a Benevento dopo la morte del padre loro: Radoaldo e Grimoaldo. Egli aveva inviato al re Rotari il figlio Aione, che ritornò con la mente sconvolta, si disse, per veleno propinatogli in Ravenna. Onde sul letto di morte raccomandò ai suoi che gli dessero per successore uno dei figli adottivi in luogo d'Aione. Aione nondimeno fu scelto a terzo duca di Benevento (641). E, dopo diciassette mesi, mosso a respingere da Siponto un'invasione di Slavi della Dalmazia, vi restò ucciso.
Fino a questo tempo, ed anche per l'età successiva, mancano affatto notizie particolari sulla vita interna dello stato. Certo che, nell'estensione territoriale assicurata allora al ducato, ne rimanevano fuori, essendo ancora in possesso dei Greci, le importanti città pugliesi di Taranto, Oria, Brindisi, Otranto e Gallipoli, come il Bruzio meridionale. E, se nel lungo governo di Arechi, lo stato ricevette una forma fissa e determinati confini, è probabile che in connessione con quel fatto si stabilisse anche un ordinamento all'interno. Riguardo al quale, e anzitutto ai rapporti tra la nazione conquistatrice e la popolazione assoggettata - dati statistici è impossibile offrirne - si può supporre che tali rapporti si stabilissero come nelle altre parti del regno longobardo. Solamente qui pare che fosse anche più violenta e feroce la condotta con cui nei primi tempi della conquista i capi dei vincitori s'impossessarono delle terre e dei beni dei vinti, uccidendoli o scacciandoli o riducendoli allo stato di tributarî o aldi.
Dopo l'uccisione di Aione (642), fu eseguita la volontà del morto Arechi con l'elezione di Radoaloo, che tenne il ducato solo cinque anni ed ebbe per successore il fratello Grimoaldo. L'unica notizia che resti di Radoaldo, e molto incerta, è un vano assedio di Sorrento; sicché egli avrebbe ripreso la guerra con le città della Campania rimaste ai Greci. Non si sa se egli prese parte alla grande assemblea di Pavia del 643, nella quale il re Rotari pubblicò il diritto nazionale longobardo. L'editto di Rotari mostra già stabiliti i rapporti tra vinti e vincitori nel paese conquistato e rimasto diviso in distretti (civitates), dentro cui una gran parte della proprietà, urbana e rustica, apparteneva al re, amministrata da suoi ufficiali e abitata da aldi e da schiavi regi; un'altra parte al duca e una terza, di grandi e piccoli campi con i loro aldi e schiavi, a singoli Longobardi. Ma se quell'editto, almeno in quel primo tempo, venisse introdotto e messo in vigore anche nel Beneventano, ignoriamo.
Di propria mano Zottone aveva intrapreso e Arechi aveva allargato la conquista di questo paese. Ne seguì che a loro, e non alla corona, ricaddero i frutti della conquista e proprietà loro divenne il territorio che non fu diviso tra i singoli Longobardi: ché, se davvero ad Autari, eletto re, i duchi avevan dovuto cedere metà dei loro beni, e se anche Zottone, cosa molto improbabile, aveva fatto quella cessione, la parte ceduta dovette essere ricongiunta al dominio ducale dallo stesso Zottone o dal successore. Traccia di possedimento regio infatti non si trova nel Beneventano. Quando nel 599 il re Agilulfo conchiuse una tregua con i Greci, in essa non fu compreso il duca di Benevento, considerato come potenza a sé alla pari del papa e del duca di Spoleto. In Benevento la dignità ducale divenne per tempo ereditaria. Dopo la morte di Arechi, e in seguito, si parla di elezione di popolo; ma questa si attiene al diritto ereditario, chiamando sempre il figlio a succedere al padre, il fratello al fratello. I diritti finanziarî, che erano del re altrove, nel Beneventano sono del duca, che ha un sacrum palatium suo, e s'intitola, come Romoaldo II (706-731), vir gloriosissimus dominus gentis Langobardorum summus dux, e ha al suo servizio un seguito o gasindo fedele di personaggi cospicui, tra i quali nomina i numerosi ufficiali della sua corte, alla pari del re, e gli amministratori dei suoi beni nei singoli distretti. Come dignitarî e ufficiali di corte figurano il cubicularius, il marepais, il referendarius, il vestararius, il thesaurarius, il duddus (?), lo stolesaiz (?), il vicedominus, come nella corte regia di Pavia. Nei distretti amministrativi in cui lo stato venne diviso, aggruppati intorno ad una città maggiore e chiamati iudicariae, aches, gastaldati, si trovano conti, gastaldi, sculdasci, actionarii, nominati dal duca e da lui dipendenti.
Grimoaldo resse il ducato dal 647 al 662. Poi, intervenendo nelle contese della famiglia regnante, usurpò per sé la corona di re dei Longobardi, nello stesso anno 663 in cui l'imperatore Costante II sbarcava a Taranto con potenti forze e assediava Benevento. Il pronto accorrere di Grimoaldo in aiuto del figlio Romoaldo, qui lasciato, valse a superare felicemente il pericolo. Grimoaldo ritornò a Pavia e regnò incontrastato fino alla morte (671). Romoaldo, rimasto per altri sedici anni, dopo quella morte, a reggere il ducato, lo estese contro i Greci anche nell'antica Calabria, aggregandovi le importanti città di Taranto e Brindisi. Dopo un triennio di dominio del figlio suo Grimoaloo 11, ch'ebbe in moglie Vigilinda, figlia del re Pertarido, l'altro figlio Gisulfo (689-706) portò più a nord nella Campania i confini del ducato, soggiogando Sora, Arpino, Arce e Aquino. Il figlio suo Romoaloo 11 (706-731) vi aggiunse l'importante Cuma; ma gli fu poco dopo ritolta dai Napoletani.
Nella massima e stabile estensione territoriale, allora raggiunta, lo stato apparve diviso in trentadue distretti o gastaldati: S. Agata, Telese, Isernia, Boiano, Larino, Biferno, Campobasso, Alife, Lucera, Bovino, Siponto, Ascoli, Bari, Canosa, Brindisi, Acerenza, Salerno, Rota, Sarno, Lucania, Sora, Teano, Capua, Cimiterio, Latiniano, Conza, Montella, Furculo, Taranto, Cassano, Cosenza, Laino. A capo di ciascuno di essi il gastaldo, eccezionalmente in segno di maggiore onore intitolato conte, come a Capua, amministrava la proprietà ducale, poderi e schiavi, ed era comandante militare. Alla sua dipendenza, gli sculdasci amministravano e comandavano nelle minori circoscrizioni del distretto. Gli actionarii sembra che curassero i singoli poderi del duca. Fuori di questi, le proprietà di ciascun Longobardo eran curate da aldi, rurali, che lungamente mantennero il nome significativo di tertiatores (debitori del terzo), tertiatores privati, oltre quelli di censiles e di hospites; avevano schiavi al proprio servizio e dovevano determinate prestazioni al patrono e allo stato. Sulla condizione di costoro non mancano documenti. Mancano affatto sulla condizione delle popolazioni cittadine. A ripensare alla renitenza dei dominatori verso i commerci e il mare e alla dimezzata libertà dei dominati, si può solo supporre che anche quelle città, che prima erano state centro di attività commerciale, venissero via via decadendo.
Meno poveramente siamo informati circa i rapporti tra i conquistatori e la Chiesa cattolica. La sorte di questa nell'Italia meridionale, dove sproporzionatamente grande era il numero dei vescovadi, fu più dura che altrove. Sembra che tra i seguaci di Zottone preponderasse l'elemento pagano. Nelle città soggiogate vescovi, preti, monaci furorio trucidati, cessò ogni attività ecclesiastica fin verso la metà del secolo VII e anche fino al sec. VIII. Fino al principio di questo secolo molti monasteri ebbero a giacere spopolati e in rovine, tra i primi quello famoso di Montecassino. Nondimeno, Gregorio Magno nel 601 tentò d'avvicinarsi amichevolmente al duca Arechi, pregandolo per lettera, con l'offerta d'un congruo compenso, di ordinare ai suoi ufficiali del Bruzio che disponessero operai e carri in aiuto di un suddiacono da lui incaricato di trasportare legnami di quel luogo, necessari alla costruzione della chiesa degli Apostoli. Ma ignoriamo l'esito di quella preghiera. Certo, dopo Arechi, anche i duchi di Benevento vennero adottando la fede e le pratiche dei sudditi romani. Però come, anche esteriormente, aderissero alla nuova confessione, può arguirsi dall'adorazione d'immagini, di bestie e di alberi e dal mantenimento di usanze pagane permanenti ancora a mezzo il sec. VII. Lo stesso duca Romoaldo I, nella seconda metà di quel secolo, segretamente venerava un albero sacro fuori della città, e la figura d'un serpe, tenuta nascosta nel suo palazzo.
Certo è che, mentre nella rimanente Italia longobarda, gli ecclesiastici, a preferenza romani, almeno in principio, erano liberi in grazia dell'ufficio, pur se nati da aldi o da schiavi, nel Beneventano, invece, troviamo, in età posteriore, ecclesiastici servi, che si vendono o si alienano; e questo fatto, se non derivò da abuso nato più tardi, dovette essere la continuazione d'una condizione antica. Ma appunto con Romoaldo I s'iniziò la restaurazione delle chiese e apparve quel fervore religioso, che, crescendo sempre più in seguito, giunse fino al fanatismo. Secondo una leggenda, quando Benevento fu assediata da Costante II, in quella generale afflizione un prete cattolico, Barbato, predicò davanti al duca e agli altri Longobardi, assicurando che quella sciagura derivava dalla lor vita pagana e che Dio li avrebbe salvati, se si fossero volti interamente e sinceramente a lui. Così egli indusse il duca a promettergli che, quind'innanzi, avrebbe servito solamente Dio, e che avrebbe dato esso Barbato per vescovo alla capitale del ducato, dotandone di beni la chiesa. Partiti i Greci e sciolto l'assedio, quella salvezza fu attribuita all'intercessione della Vergine invocata da quel sant'uomo; l'albero fu abbattuto, l'immagine del serpe consegnata. Barbato riaprì la serie dei vescovi beneventani; alla sua chiesa, restaurata, fu donato dal duca il santuario di S. Michele al Gargano col deserto vescovado di Siponto; la duchessa Teodorata, figlia di Lupo duca del Friuli, fu una cattolica zelantissima. Vivo il marito, ella fondò fuori di Benevento la chiesa e il monastero di S. Pietro. Rimasta vedova e, dopo la morte del primo figlio Grimoaldo, reggente pel minorenne Gisulfo, fondò altri due monasteri di donne: S. Maria in Locosano e S. Maria in Castagneto. Come seppe scoperta a Canosa la tomba di S. Sabino, vi accorse, la fece aprire e vi eresse una chiesa in onore di quel santo. Sotto la sua influenza fu da tre nobili beneventani fondato il celebre monastero di S. Vincenzo alle sorgenti del Volturno. Il duca Gisulfo, da lei allevato, quando si avanzò da conquistatore nel territorio romano, verso il 702, spingendosi fino ad Orrea, a richiesta d'un'ambasceria inviatagli da papa Giovanni VI lasciò liberi i prigionieri e tornò indietro.
Sotto il suo successore scoppiò l'insurrezione anticonoclasta, che si tramutò in guerra tra il regno longobardo e il papato. Romoaldo II col duca di Spoleto s'alleò con questo contro quello; ma bastò che il re Liutprando si presentasse con le sue forze davanti a Spoleto, perché l'uno e l'altro duca gli si sottomettessero, giurandogli fedeltà e consegnandogli ostaggi (729). Si piegarono alla forza maggiore. Ma nel Beneventano era ormai divenuta popolare l'aspirazione all'autonomia. Onde, morto che fu Romoaldo II, senza riconoscerne per successore il figlioletto Gisulfo, fu con libera elezione proclamato duca Andelais. Accorse il re, destituì l'eletto, impose per duca suo nipote Gregorio e condusse con sé a Pavia il fanciullo Gisulfo (732). Ma sette anni dopo, alla morte di Gregorio, si ritornò alla libera elezione, con la proclamazione di Godescalco, e alla politica oramai tradizionale. Il nuovo duca, munifico benefattore del monastero di S. Vincenzo al Volturno, si alleò col pontefice Gregorio III e con i Greci contro Liutprando. Tradito dal nuovo papa Zaccaria, tentò fuggire in Grecia; ma fu ucciso, e il ducato fu dato a Gisulfo II (742). Questi, cresciuto ed educato alla corte di Pavia, distribuì tra i suoi fidi i beni confiscati all'ucciso duca con quelli altresì da costui donati a fondazioni sacre; e deviò con tal vigore la tendenza dello stato che, pur dopo la sua morte (751), durante la minorità del duca Liutprando, suo figlio, i Beneventani cooperarono col re Astolfo nella Campania romana contro il papato e più tardi, nel 756, all'assedio di Roma. Se non che la definitiva sconfitta e, subito dopo, la morte di quel re, l'uscita di minorità di Liutprando e le difficoltà che iniziarono il nuovo regno di Desiderio, rialzarono il sentimento dell'autonomia. Liutprando si alleò con i nemici del suo re e, assalito e catturato in Otranto, fu da Desiderio sostituito con Arechi II (758), ultimo tra i duchi veri e proprî di Benevento.
Caduto al tempo suo il regno dei Longobardi in potere di Carlomagno (774), il ducato beneventano, rimastone indipendente, fu elevato in principato (v. armechi). Nella nuova condizione Benevento (Pavia meridionale, come fu chiamata), culla della conquista e conservatrice delle tradizioni del vecchio ufficio ducale, simbolo di quella politica avversa o estranea al mare, stata fatale ai Longobardi, continuò a dare il nome allo stato e il titolo al principe; ma come sede del principe, della corte, del governo centrale, dovette cedere il posto a Salerno durante i principati di Arechi II e di Grimoaldo III, suo figlio (788-806). Questi valorosamente rintuzzò i tentativi di Pipino, re d'Italia, d'estendere il suo dominio più a sud del territorio di Chieti. Grimoaldo IV, già capitano delle guardie, che, dopo oltre due mesi d'anarchia, fu eletto a suo successore, rinunziò a quel territorio (817), che d'allora in poi fu parte del regno franco d'Italia. Ucciso da una congiura questo terzo principe (817), tra le opposte ambizioni dei congiurati prevalse il gastaldo d'Acerenza, Sicone, che, sbarazzatosi dei complici, attese a rassodare il potere principesco all'interno e più volte tentò di soggiogare Napoli. Sulla stessa via procedette il figlio e successore Sicardo (832-839), che riuscì a impadronirsi di Amalfi; ma fu spento anch'egli da una congiura, e con lui finì l'unità dello stato.
Se ne contesero la successione prima il tesoriere Radelchi e Adelchi; poi, vinto ed ucciso quest'ultimo, Radelchi e Siconolfo, fratello di Sicardo. Ed entrambi s'intitolarono principi di Benevento, risedendo l'uno in questa città, l'altro in Salerno. E lottarono ferocemente l'un contro l'altro, appoggiandosi entrambi all'aiuto dei Saraceni, finché per l'intervento carolingio non si pacificarono nell'847. Per quella pace Radelchi rimase principe di Benevento, ma conservando soli 16 e mezzo (il lato orientale) dei 33 gastaldati del principato. E così dimezzato lo trasmise, morendo (853), al fratello Adelchi, che, attraversando ora occultamente, ora palesemente, gli sforzi di Ludovico II per estendere nell'Italia meridionale il suo dominio, si rese famoso con la cattura in cui per più di un mese tenne l'imperatore con l'imperatrice (871). Quanto più, dopo d'allora, venne riestendendosi la signoria dei Bizantini, tanto più si restrinse il territorio del principato. Frattanto, in Benevento, Adelchi era ucciso dai suoi congiunti (877), che gli sostituirono Gaideri, figlio di Radelchi; questi poi era sbalzato da Radelchi II, figlio dell'ucciso (881), il quale Radelchi II, spodestato a sua volta dal proprio fratello Aione, si ricoverava poi tra i Bizantini.
Il principe Aione ebbe il merito di ritogliere ai Bizantini l'importante città di Bari, promovendo contro di loro una vasta insurrezione. Ma, vinto alla fine nella lotta impari, dovette riconoscersene vassallo e come tale, morendo poco dopo (890), lasciare erede del principato il figlio Orso, che dovette abbandonare addirittura Benevento ai nuovi dominatori. La strappò a costoro il marchese Guido IV di Spoleto, congiunto dei principi beneventani (895); e, dopo averla tenuta per sé due anni, la restituì all'esule Radelchi II. Ma una fazione avversa chiamò a Benevento il conte Atenolfo di Capua, imprigionò Radelchi e proclamò e coronò principe di Benevento il conte capuano (900). Del nuovo principe va segnalata la lega per la distruzione della colonia musulmana del Garigliano. Egli ne fu il promotore; ma la morte (nel 910) gl'impedì di vederne l'ultimo felice risultato. L'avversione ai musulmani fu ereditata dal figlio Landolfo, che gli successe in Benevento, si associò il figlio Atenolfo e ritornò anche alla tradizione antibizantina di Aione. Morto lui (943), de' suoi due figli Atenolfo e Landolfo II, quest'ultimo si propose di restaurare sotto di sé l'unità di tutto il dominio dei Longobardi. Espulse da Benevento il fratello Atenolfo, da Capua il cugino Landolfo; tentò spogliare anche il principe di Salerno. Più fortunato, il suo primogenito Pandolfo, quando gli morì il fratello Landolfo III, principe di Capua, escluse dal retaggio il nipote Pandolfo II, tenendolo per sé; ricevette da Ottone I la marca di Spoleto e Camerino, e a così vasto dominio riuscì ad unire anche il principato salernitano (978). Ma, lui morto (981) e da lui stesso assegnate Benevento con Capua al figlio maggiore Landolfo IV e Zalerno a Pandolfo, quegli fu espulso da Benevento dal cugino già diseredato Pandolfo II. Dalla discendenza di quest'altro Pandolfo il principato beneventano non uscì più. Dopo aver tenuto testa a Ottone III e ai Saraceni, dopo aver superata l'avversione d'un partito interno, Pandolfo II lasciò lo stato al figlio Landolfo V (1013). Questi, che era stato già associato dal padre, si associò il figlio Pandolfo III, che i Beneventani difesero contro gli attentati del principe di Capua. Costretto da Corrado II (nel 1038) a riconoscersi vassallo dell'impero, Pandolfo III col figlio e collega Landolfo VI si redense poi (nel 1047), chiudendo le porte della sua città in faccia a Enrico III e al suo papa Clemente II, e più tardi (nel 1050) a Leone IX. Ma ne raccolse amaro frutto; perché, scomunicato dall'uno e dall'altro pontefice insieme col figlio e con i sudditi, questi espulsero i due principi e proclamarono loro signore Leone IX. Richiamati poi dagli stessi cittadini dopo la sconfitta di Civitate e la morte di quel pontefice, dovettero giurare d'essere vassalli della Santa Sede e di lasciare ad essa in pieno dominio la città alla morte loro. Morirono Pandolfo III nel 1059, Landolfo VI nel 1077. E con questo ebbe fine il principato beneventano.
Bibl.: F. Hirsch, Il Ducato di Benevento sino alla caduta del regno longobardo, trad. di M. Schipa, Torino 1890; M. Schipa, Storia del principato longobardo di Salerno, Napoli 1887; E. Robiony, Le guerre dei Franchi contro i principi di Benevento, Napoli 1901; J. Gay, L'Italie méridionale et l'empire byzantin depuis l'avènement de Basile I jusqu'à la prise de Bari par les Normands (867-1071), Parigi 1904; M. Schipa, Il Mezzogiorno d'Italia anteriormente alla monarchia, Bari 1923. Inoltre le trattazioni generali sulla storia d'Italia nell'alto Medioevo, tra cui specialmente T. Hodkin, Italy and her invaders, Oxford 1880-99, V-VIII; L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, II-IV, Lipsia-Gotha 1900-1915; G. Romano, Le dominazioni barbariche in Italia, Milano [1910].