MANDINA, Benedetto
Nacque a Melfi intorno alla metà del XVI secolo. Secondo una fonte teatina (Napoli, Biblioteca nazionale, S. Martino, 511, cc. 100-103), i genitori furono Nicola, un nobile originario di Rapolla, e Isotta. L'anno di nascita potrebbe essere il 1547: infatti, il manoscritto (stilato da un confratello per attestare la santità del M., morto pochi anni prima) lo dice di 36 anni nel 1583, ma fornisce come data precisa il 12 genn. 1548.
Negli anni della formazione il M. seguì corsi di arti liberali e, dopo il trasferimento della famiglia a Napoli, si addottorò in utroque iure per poi esercitare la professione legale, forse protetto da Iñigo d'Avalos, futuro cardinale. Per alcuni anni ebbe successo come giurista e avvocato, fino a quando, secondo le fonti teatine, il calcio di un cavallo non lo costrinse a letto. Una volta guarito, il M. scelse di entrare nella casa dei padri teatini di S. Paolo Maggiore di Napoli, dove fu protetto da Andrea Avellino e da Marco Parascandalo (il suo confessore); vestì l'abito il 4 dic. 1583, ebbe la prima tonsura il 24 febbr. 1584 ed emise la professione l'8 dicembre. Secondo V. Pagano prese gli ordini minori il 2 giugno 1585 e fu ordinato sacerdote il 20 sett. 1586 nella chiesa di S. Silvestro di Roma. Soggiornò a Roma, in S. Andrea della Valle, per studiarvi teologia e filosofia, e in poco tempo entrò in rapporto con cardinali e consultori influenti in Curia. In virtù della fama di zelante chierico, Gregorio XIV, durante il suo breve pontificato, gli offrì prima il vescovato di Novara e poi quello di Melfi, ma il M. li rifiutò. Non è chiaro se già a quell'epoca il M. fosse diventato intimo di Giulio Antonio Santoro, ma fu certamente quest'ultimo a proporlo a Clemente VIII, nell'udienza del 30 sett. 1593, come successore di Agapito Bellomo per la sede di Caserta, agitata da scandali e abusi. Dopo alcune indecisioni iniziali, il papa procedette alla sua nomina il 21 genn. 1594 (Biblioteca apost. Vaticana, Chigi, M.I.7, cc. 131v, 133, 154r).
Tra il 1594 e il 1595 il M. visitò l'intera diocesi due volte, cercando di applicarvi ad unguem i decreti del concilio Tridentino (Arch. segreto Vaticano, Congr. Concilio, Relationes, Caserta, 197A, 7 apr. 1595, c. 10r), ma non riuscì a convocarvi un sinodo provinciale. Nelle relationes ad limina lamentò il misero stato dell'unico seminario attivo, lo spopolamento della città, l'alto numero di religiosi indisciplinati e i fastidi che gli venivano dall'arcivescovo di Capua. A Caserta, egli scrisse, non mancavano i buoni maestri, esaminati dal vescovo, ma il clero era ignorante, rozzo e molto spesso povero. Il concubinaggio era una pratica diffusa (e punita con l'esilio) e non si contavano i casi di furto e di omicidio in cui erano implicati sacerdoti e religiosi refrattari a ogni correzione da parte dell'ordinario. Il M., inoltre, informò la S. Sede della sua volontà di estirpare le pratiche superstiziose e dell'opera di controllo degli ex inquisiti condannati negli anni precedenti, vantando di tenere sotto osservazione le loro famiglie e i loro figli in stretto contatto con la congregazione del S. Uffizio.
L'impegno di vescovo, tuttavia, subì una prima interruzione quando la segreteria di Stato pontificia lo investì di una delicata missione diplomatica.
Clemente VIII era preoccupato per l'avanzata dei Turchi ai confini dell'Impero. Nel corso del 1595 le vittorie di Vienna e di Sigismondo Báthory signore di Transilvania si erano alternate a gravi rovesci che avevano messo in pericolo l'Ungheria. I sussidi e l'invio di truppe pontificie non erano stati sufficienti a compensare né lo scarso impegno di Rodolfo II né l'imperizia militare degli arciduchi che si erano succeduti al comando degli eserciti asburgici: bisognava coinvolgere anche la Polonia di Sigismondo III Vasa.
Il M. fu inviato ad affiancare il nunzio ordinario Germanico Malaspina il quale, dopo tre anni di soggiorno, incontrava difficoltà nel convincere la Dieta dei principi, ostile all'idea di prestare soccorso all'arciduca Massimiliano che accampava pretese sul trono polacco e, forte di un esercito, poteva muovere guerra alla Polonia. La scelta di servirsi del M. maturò durante una congregazione tenuta il 13 e 14 dic. 1595 alla presenza del cardinale d'Avalos: in essa si stabilì che il M. avrebbe preceduto di qualche mese la partenza di un legato più autorevole. Nelle istruzioni consegnate il 7 genn. 1596, il M. fu investito del compito di "stringere in una ferma congiuntione di consigli et di forze il Regno di Polonia con la Maestà dell'Imperatore et con il Principe di Transilvania acciò tutta quella potenza s'impieghi contro il Turco" (Pastor, p. 215 n.). I risultati, tuttavia, furono inferiori alle aspettative, anche se il M. si adoperò come poté per esortare alla guerra santa contro l'Ottomano.
Nell'orazione De foedere cum Christianis contra Turcam paciscendo (Cracoviae, in officina Lazari, 1596), che tenne a Varsavia il 3 apr. 1596, rimproverava l'Ungheria per avere stabilito dei patti con i Turchi; ma esortava alla pacificazione dei cattolici e a una nuova guerra comune contro gli infedeli. Per avere accettato la tregua con i Turchi gli Ungheresi rischiavano adesso la rovinosa sorte toccata ai Paleologhi, cacciati da Costantinopoli, o quella di Francesco I di Francia e dei suoi eredi, sconfitti dalla Spagna. Gli Ungheresi, pertanto, avevano bisogno del soccorso dei Polacchi, fratelli nella fede divisi solo da futili motivi. Non occorreva muovere guerra a tutta l'Africa e all'Asia ottomane, osservò il M.: l'impegno chiesto dal legato non era così esoso, e non occorreva nemmeno che i Polacchi si sentissero gravati da un peso solitario: il Papato, infatti, si impegnava a ottenere l'aiuto di altre potenze cattoliche. E tuttavia, se non si fossero mosse le armi dei principi polacchi, poteva succedere che i Turchi dilagassero in Europa, che travolgessero l'Ungheria, la Transilvania, la Moravia e la stessa Polonia, facendo strage, riducendo i cristiani in servitù e le loro donne al mercimonio. Con l'aiuto di Dio la vittoria sarebbe stata sicura. Quanti sostenevano il contrario (i "politici" affetti da ateismo, ibid., D4v) dicevano il falso e consigliavano la scelta più comoda.
Il discorso non sortì immediato effetto, tanto che il M. ne scrisse scoraggiato a Cesare Speciano, nunzio alla corte imperiale, il quale per tutta risposta gli annunciò che Clemente VIII aveva provveduto a inviare il cardinale legato Enrico Caetani. Il 4 maggio 1596 la segreteria di Stato pontificia esprimeva soddisfazione per i risultati ottenuti dal M. con l'orazione, e in una lettera del 25 maggio gli scriveva che si tenesse pronto per un viaggio a Praga, dove il nunzio Speciano non dava sufficienti garanzie. Caetani, incontrato il M. a Vienna (27 maggio), si recò a Cracovia per preparare una Dieta, che si annunciava difficile, e il M. si trasferì a Praga per accelerare la rinuncia al trono da parte di Massimiliano e dare le garanzie richieste dai Polacchi in vista di un loro impegno. Le sue lamentele contro il nunzio Malaspina facevano eco a quelle di Caetani contro Speciano e allarmavano la segreteria di Stato, che intendeva premere sull'imperatore perché convincesse il fratello ad accettare l'accordo con i Polacchi. Il M. sottopose all'imperatore un memoriale di alleanza con la Polonia, ma da parte asburgica si tardò ancora a lungo prima di comporre la legazione da inviare alla Dieta polacca.
In luglio il M. rientrò a Cracovia per preparare a fianco di Caetani, che gli mostrò grande stima, l'incontro tra gli Imperiali e i Polacchi; tuttavia, stanco della missione, chiese a Roma di tornare al suo compito di pastore. La segreteria di Stato lo accontentò: in agosto il M. poté tornare in Italia con l'impegno di informare personalmente il papa di quanto stava accadendo. A Cracovia restò Caetani, che il 31 agosto scrisse al cardinal nepote per lodare il M. (Arch. segreto Vaticano, Segreteria di Stato, Nunziature diverse, 273, Polonia, c. 106v). Analoga stima attestò il re Sigismondo III in una epistola indirizzata al M. il 1( dic. 1596.
Caetani riuscì a far sottoscrivere l'alleanza contro i Turchi il 31 ag. 1596; tuttavia l'accordo firmato dai legati polacchi e imperiali fu sconfessato subito da entrambe le parti. La rinuncia di Massimiliano al trono giunse solo l'8 maggio 1598. Al di là del relativo successo personale e dell'inefficacia politica che ne sortì, la missione fruttò al M. 14.000 scudi, che egli investì per aumentare le rendite della mensa vescovile casertana e per il restauro della cattedrale. Tornato in Italia, infatti, dopo un breve soggiorno a Roma, il M. rientrò nella sua diocesi; ma il suo rigore (manifestato dal frequente ricorso a penitenze pubbliche contro gli imputati del foro vescovile e dal probabile divieto di assolvere in confessione chi non sapeva il Credo) gli attirò l'ostilità della città.
Secondo le fonti teatine, i suoi nemici reagirono ordendo un attentato; ma il M. si accorse della presenza di un veleno mortale nel calice da lui usato per la messa, e riuscì a salvare la vita a prezzo di una lunga convalescenza. Si tratta di notizia non priva di qualche fondamento, se è vero che, in una lettera inviata alla congregazione del S. Uffizio in qualità di ordinario diocesano, il M. lamentava con asprezza le mancanze del clero e attaccava quanti vestivano l'abito di eremita soltanto per ottenere benefici mentre si comportavano da "poltroni e forfanti" (Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della fede, Stanza storica, LL 3 a, Caserta, c. 771r, 14 maggio 1599). Il suo zelo fu sottolineato da più parti, e i suoi rapporti con il capitolo non furono affatto sereni.
Il M. preferì trasferirsi in S. Paolo e, qualche tempo dopo, il cardinale Alfonso Gesualdo lo nominò amministratore della diocesi partenopea: l'incarico gli fu confermato nel 1604, quando la sede rimase vacante prima di passare all'arcivescovo Decio Carafa, allora in Portogallo.
Ai compiti di ordinario diocesano (nel 1602 entrò in conflitto con il cardinale Roberto Bellarmino per lo scambio di alcune parrocchie, e nel 1603 partecipò al sinodo provinciale capuano) e di amministratore vicario (che assolse senza nulla concedere alle rivendicazioni della giurisdizione civile, e occupandosi delle cause criminali del foro diocesano), il M. affiancò fin dall'aprile 1598 quelli di ministro del S. Uffizio per il Regno di Napoli, succedendo nella carica al defunto Carlo Baldini, arcivescovo di Sorrento. In quella veste fu presente a Roma (dove si recò spesso per fornire il suo parere di consultore) all'emanazione della sentenza di morte di Giordano Bruno (8 febbr. 1600) e, a partire dal 24 marzo 1601, deceduto il giudice vicario Alberto Tragagliolo, vescovo di Termoli, gestì con maggiore zelo (ma occupandosi dei bisogni del carcerato) il processo napoletano a Tommaso Campanella insieme con il nunzio Giacomo Aldobrandini e il vicario diocesano, infliggendogli, giusta gli ordini della congregazione, prima il tormento della veglia per stabilire la realtà della pazzia e poi la pena del carcere perpetuo (29 nov. 1602). Il suo carteggio con G.A. Santoro, segretario del S. Uffizio, fu fittissimo; e tuttavia, dopo la morte del protettore e il passaggio di consegne a Camillo Borghese (giugno 1602), i rapporti con i cardinali inquisitori si fecero meno sereni. Uomo di fiducia del cardinal Santoro, il M., da quel che è lecito supporre, non seppe riscuotere le simpatie del futuro Paolo V, che ebbe più rispetto della tradizionale giurisdizione dei vescovi e degli ordini religiosi. Borghese gli intimò diverse volte di informare Roma prima di ogni decisione importante e, almeno in un'occasione, lo rimproverò aspramente per avere agito al di là delle sue prerogative a danno dei padri domenicani di Abruzzo. Come gli obiettava un consultore amico, Girolamo Fusco, scrivendogli da Roma il 4 genn. 1603, la colpa del M. era quella di agire con uno zelo eccessivo, che lo aveva portato a colpire un convento o una città quando sarebbe bastato fermarsi alle colpe dei singoli imputati (cfr. Scaramella, pp. 364 s.).
Il M. morì a Napoli il 2 luglio 1604 (o, secondo una testimonianza di poco successiva, il 23: Napoli, Biblioteca nazionale, S. Martino, 511, c. 94v) e fu seppellito nella chiesa di S. Maria degli Angeli.
Alcuni padri teatini di Napoli tentarono di promuoverne il culto e la beatificazione, ma senza seguito (ibid., cc. 93-111). Non ha riscontri la notizia secondo cui il M. fu nominato cardinale poco prima di morire.
Fonti e Bibl.: Città del Vaticano, Arch. della Congregazione per la Dottrina della fede, Decreta, 1601, c. 51r (sunto di una lettera discussa dal S. Uffizio il 23 genn. 1601); Stanza storica, LL 3 a, Lettere dei vescovi del Vicereame di Napoli, Caserta, cc. 771-772; Arch. segreto Vaticano, Congregazione del Concilio, Relationes, Caserta, 197A (relazione firmata dal M. e datata 7 apr. 1595); Arch. della Nunziatura di Varsavia, Add. 2: Resolutiones factae in congregatione ill.mi card.lis Aragoniae in causa Ungariae (16 dic. 1595), cc. 163-166; Segreteria di Stato, Nunziature diverse, 273: Polonia, passim; Biblioteca apost. Vaticana, Chig., M.I.7: Audientiae cardinalis S. Severinae annorum 1592. 93. 94., I, cc. 131v, 133, 154r; Napoli, Biblioteca nazionale, S. Martino, 389, c. 51r (lettera del M. ad Andrea Avellino, Roma, 30 maggio 1586); 406, f. 36 cc. n.n. (lettere per il nunzio M.); 511: Relazioni e memorie di alcuni pp. teatini di santa vita, cc. 93-111 (tre memoriali spediti a G.B. Castaldo, 1613); 677: V. Pagano, Catalogus antiquus clericorum regularium, c. 61r; G.B. Del Tufo, Historia della religione de' padri cherici regolari, in cui si contiene la fondatione e progresso di lei, Roma 1609, pp. 280 s.; G.C. Morello, Opera( Epigrammata, Neapoli 1613, p. 238; G.B. Castaldo, Vita del s.mo pontefice Paolo quarto fondatore de chierici regolari e Memorie d'altri cinquanta celebri padri, Roma 1615, pp. 418-425; C. d'Engenio Caracciolo, Napoli sacra, Napoli 1624, pp. 566 s.; G. Silos, Historiarum clericorum regularium a Congregatione condita pars altera, Romae 1655, pp. 67-70, 156-158; pars tertia. Accessit et Theatini Ordinis scriptorum catalogus, Panormi 1666, pp. 548 s.; E. Bacco - C. d'Engenio Caracciolo - O. Beltrano, Descrittione del Regno di Napoli diviso in dodeci provincie, Napoli 1671, p. 181; N. Toppi, Biblioteca napoletana et Apparato a gli huomini illustri in lettere di Napoli e del Regno, Napoli 1678, p. 43; Nomi e cognomi de' padri e fratelli professi della Congregatione de' chierici regolari, Roma 1698, p. 11; F. Ughelli, Italia sacra, VI, Venezia 1720, col. 513; I.R. Savonarola, Gerarchia ecclesiastica teatina, Brescia 1745, pp. 3, 23, 101; A.F. Vezzosi, I scrittori de' cherici regolari detti teatini, II, Roma 1780, pp. 27-29; L. Amabile, Fra Tommaso Campanella. La sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, Napoli 1882, II, pp. 208 ss., 306 ss.; III, pp. 70, 470 s.; A. Bozza, La Lucania. Studii storico-archeologici, II, Rionero in Vulture 1889, pp. 307 s.; L. Amabile, Il Santo Officio della Inquisizione in Napoli, Città di Castello 1892, I, pp. 345 s.; II, pp. 3 s., 76 [rist. anast.: Soveria Mannelli 1987]; V. Spampanato, Vita di Giordano Bruno con documenti editi e inediti, I, Messina 1921, pp. 581, 783; L. von Pastor, Storia dei papi, XI, Roma 1942, pp. 214 n., 215, 401-405; G. Romeo, Per la storia del Sant'Ufficio a Napoli tra Cinque e Seicento. Documenti e problemi, in Campania sacra, VII (1976), pp. 25-27; Cronologia dei vescovi casertani, Napoli 1984, pp. 50-52; L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma 1993, pp. 103, 344, 346; Id., I processi di Tommaso Campanella, a cura di E. Canone, Roma 1998, pp. 248 s. e n., 266 e n., 269 s., 312; P. Scaramella, Le lettere della congregazione del Sant'Ufficio ai tribunali di fede di Napoli 1563-1625, Trieste-Napoli 2002, ad indicem.