GUALANDI (Maccaione), Benedetto
Nacque a Pisa, probabilmente nell'ultimo decennio del secolo XIII, da Betto di Pelavicino di Alberto Maccaione dei Gualandi; non si conosce il nome della madre.
Il bisnonno paterno, Alberto, vissuto nella prima metà del Duecento, discendeva direttamente da Gualando, vissuto nella seconda metà del secolo XI, dal quale si denominò la casata. Fra il XII e il XIII secolo i vari rami via via delineatisi all'interno della famiglia cominciarono a caratterizzarsi con una sorta di "cognome" aggiuntivo, generalmente derivato dal nome o dal soprannome di un singolo personaggio: così entrambi i figli maschi dell'Alberto "Maccaione" (ossia Pelavicino e Ugolino) ne ereditarono tale appellativo e lo trasmisero a loro volta ai propri discendenti. La coesione della casata si mantenne nel tempo grazie all'esistenza di un patrimonio familiare diviso solo per quote ideali (e attestato ancora nel secolo XV) e di diritti collettivi di patronato su vari enti ecclesiastici, i più antichi dei quali erano la chiesa di S. Alessandro (oggi scomparsa) e lo spedale della canonica della cattedrale.
I discendenti di Alberto continuarono ad abitare tutti nei pressi di S. Alessandro e, a quanto è dato di vedere, rimasero a lungo strettamente legati fra loro. Nell'ultimo quarto del Duecento essi parteciparono ad attività commerciali nel Regno di Sicilia ed ebbero una certa considerazione da parte di Carlo II d'Angiò. Nel quadro di tali attività si legarono al concittadino Oddone Gaetani, mercante d'armi al servizio del re e poi finanziere di fiducia di Bonifacio VIII, sin da quando egli era ancora il cardinale Benedetto Caetani. Grazie all'efficace intermediazione di Oddone (con il quale esistevano anche vincoli di parentela), nel corso del 1297 tanto il padre del G., quanto Giovanni di Ugolino ottennero dal pontefice la riserva di un beneficio ecclesiastico nella città o diocesi di Pisa per un loro figlio. Iacopo di Giovanni sarebbe così divenuto nel 1300 arciprete del capitolo della cattedrale, mantenendo tale ufficio per 35 anni, mentre Betto di Betto già alla metà del 1297 aveva ottenuto la rettoria dello spedale annesso alla canonica regolare urbana di S. Martino in Chinzica.
In quegli anni il G. doveva essere ancora molto piccolo: nel settembre del 1303 troviamo infatti menzionato solo suo fratello maggiore Ceo in occasione della procedura di designazione dei sei membri della "domus Gualandorum" incaricati di effettuare l'elezione formale del pievano di Asciano Pisano. All'epoca il loro padre Betto era già morto (certo in età ancor giovane) e poiché il G. non fu coinvolto in alcun modo nelle consultazioni, è probabile che egli fosse ancora minorenne. È assai verosimile che il nome da lui portato (mai comparso in precedenza nell'ambito della domus, e in genere assai raro nella Pisa del tempo) gli fosse stato assegnato in omaggio al cardinale Caetani la cui benevolenza aveva consentito a suo padre di avviare una sorta di "strategia" familiare di penetrazione nelle istituzioni ecclesiastiche cittadine, che sarebbe stata ripresa in seguito dal G. stesso (e dal fratello Ceo), con l'appoggio determinante di Iacopo Gualandi. Proprio quest'ultimo del resto è pressoché l'unico esponente dei Maccaione a essere regolarmente documentato per lunghi anni.
Non sappiamo alcunché sul G. fino alla fine del 1317, quando il suo nome compare fra i 40 consiglieri della Credenza (i quali affiancavano e integravano in permanenza i senatori), eletti dagli Anziani del Popolo per il primo semestre del successivo 1318; nello stesso periodo suo fratello Ceo fu chiamato in due occasioni a fungere da savio, ossia membro delle commissioni che predisponevano appositamente i provvedimenti che avrebbero dovuto essere poi votati dai Consigli e mandati a esecuzione dagli Anziani. Ammesso che queste attestazioni segnino effettivamente l'avvio dell'attività politica del G. e di Ceo (il periodo coincide con la fase immediatamente successiva alla cacciata di Uguccione Della Faggiuola, avvenuta nell'aprile 1316), va detto che abbiamo ben pochi elementi per seguirne la prosecuzione: sappiamo solo che nel luglio 1322 un altro Maccaione (Nino, fratello dell'arciprete Iacopo) fu tra i nobili pisani assolti dall'accusa di aver preso le armi nel maggio precedente (quando sembrava che i guelfi toscani e i fuorusciti pisani stessero per entrare in città) e che nel secondo semestre dello stesso anno Ceo fu chiamato nuovamente (ma per una sola occasione) fra i Savi. Proprio in seguito ai fatti del maggio 1322 il Comune di Pisa, guidato da Ranieri Della Gherardesca, conte di Donoratico, aveva assunto un atteggiamento apertamente favorevole al signore di Lucca Castruccio Castracani, sì che possiamo pensare che anche gli esponenti della famiglia del G. ne condividessero la politica. Nell'autunno dell'anno seguente però, sentendosi direttamente minacciato da Castruccio, Ranieri Della Gherardesca cambiò orientamento e prese a condannare e a esiliare i più accesi fautori pisani di quello. Alla luce della notizia villaniana di cui fra poco diremo, e anche del fatto che l'arciprete Iacopo risulta assente dalle riunioni del capitolo a partire dalla fine del 1323, possiamo ritenere che i Gualandi Maccaione fossero coinvolti nelle condanne o comunque decidessero di abbandonare la città, rifugiandosi probabilmente a Lucca. Se Iacopo ritornò a Pisa entro l'ottobre 1325, il G. continuò ad assecondare Castruccio e si rese responsabile di un atto di aperta ostilità nei confronti della città natale, verso la quale era "rubello di Pisa": così appunto ce lo presenta una rubrica del Villani, che racconta come il 5 genn. 1327, per ordine del signore di Lucca (il quale gli aveva messo a disposizione 150 cavalieri delle sue masnade) il G. (detto qui erroneamente "de' Lanfranchi") s'impadronisse, grazie a un tradimento, del castello di Vicopisano, soccombendo però subito dopo alla reazione di quei "terrazzani" (Villani, p. 538). Questa notizia (al pari delle altre che in seguito riporteremo) getta per un momento un fascio di luce sul G. ma non chiarisce se egli abbia combattuto in altre occasioni per Castruccio né quanto durò l'ostilità nei confronti della città natale, anche se si può ritenere che egli poté tornare a Pisa poco dopo l'11 ott. 1327 (data dell'entrata in città di Ludovico il Bavaro), quando i capi del Comune revocarono il divieto d'ingresso per Castruccio e i fuorusciti pisani suoi fautori.
E se verrebbe fatto di pensare che i Maccaione avessero modo di mettersi particolarmente in luce durante il breve periodo dell'esplicito dominio castrucciano su Pisa (28 aprile - 20 sett. 1328), tutto ciò che sappiamo al riguardo è che alla solenne cerimonia del conferimento a Castruccio del titolo di vicario imperiale per Pisa, tenutasi in duomo il 29 maggio 1328, partecipò un "dominus Odo Macaione de Gualandis", che potrebbe essere un altro fratello del Gualandi.
Benché non sia possibile ricostruire nei particolari la preparazione del colpo di mano che il 17 giugno 1329 portò alla deposizione e cacciata del vicario imperiale Tarlatino Tarlati, è certo che uno dei principali artefici ne fu proprio il fratello del G., Ceo, i cui seguaci si unirono nell'occasione a quelli di Bonifazio (Fazio) Novello Della Gherardesca. Accostando questa notizia del Villani con altre testimonianze offerte dalla documentazione pisana, pare che da quel momento, e per alcuni anni, Ceo godesse in città di un'autorevolezza e un prestigio del tutto particolari, che gli derivavano con ogni probabilità dal fatto di aver coagulato intorno a sé una sorta di vero e proprio gruppo politico, incentrato sui parenti più stretti, ma aperto anche ai membri d'altre famiglie, sia nobili sia di popolo.
Questo "gruppo politico" sarebbe uscito allo scoperto, per giocare il tutto per tutto, con la rivolta del 10 nov. 1335; e allora, come vedremo, fra i suoi capi vi sarebbe stato - per unanime riconoscimento dei cronisti - anche il Gualandi. Negli anni 1330-35 le fonti lo menzionano però alquanto di rado, e sempre - o quasi - all'ombra del fratello maggiore. Così, il 22 nov. 1331, quando Feo Gualandi ottenne dall'arcivescovo Simone Saltarelli la custodia della rocca di Montevaso (nel Volterrano) il G. presenziò come testimone alla dichiarazione del fratello Ceo, fideiussore dell'atto insieme con Fazio Della Gherardesca. Sempre come testimone egli seguì assiduamente nel febbraio-marzo 1333 l'operazione con la quale il chierico Lemmo Gualandi "Buglia", canonico della pieve di Rosignano, ottenne un canonicato nel capitolo della cattedrale.
In questo caso egli collaborò con il cugino Iacopo e la rinnovata intenzione dei Maccaione di acquisire posizioni sempre più forti all'interno della Chiesa pisana è testimoniata in questi anni sia dalla dispensa apostolica ottenuta nel 1332 da Ceo in favore di un figlio chierico, sia dall'ingresso nello status clericale di un figlio del G. (il primo che gli si conosca), ossia Oddone, tonsurato dall'arcivescovo il 19 febbr. 1334.
Quando, per il primo semestre del 1335, siamo in grado di seguire da vicino la composizione delle commissioni dei Savi, vediamo che il G. veniva chiamato a farne parte con una certa frequenza (almeno sei attestazioni fra gennaio e maggio), anche se minore di quella del fratello la cui presenza era immancabile, finché, nel novembre 1335, la collaborazione fra il G. e i suoi familiari con Fazio Novello si interruppe traumaticamente. Nel pomeriggio del 10 novembre di quell'anno infatti, come ci informa dettagliatamente l'anonima Cronica di Pisa, la seduta consigliare convocata per discutere della conferma o meno di ser Michele del Lante nell'ufficio di cancelliere degli Anziani fu interrotta bruscamente per il contrasto insanabile emerso fra il conte Fazio e i Gualandi (oltre lo stesso G., Ceo e l'arciprete Iacopo). I tre riunirono i propri seguaci, li armarono e tentarono d'irrompere nella piazza antistante al palazzo degli Anziani (l'odierna piazza dei Cavalieri). Impediti d'entrarvi per la resistenza dei sostenitori di Fazio, il G. e i suoi si scagliarono contro l'edificio delle prigioni, liberando tutti i detenuti, dirigendosi poi verso il vicino palazzo del Comune, dove devastarono la cancelleria e gli archivi criminali. Quindi, "essendo notte scura" (Cronica, col. 1016), si diressero verso la porta delle Piagge, asserragliandosi intorno a essa dopo averla aperta, in modo da poter fare entrare in città i soccorsi armati richiesti a Piero Rossi (vicario di Lucca in nome del re Giovanni di Boemia), ma anche da poter fuggire in caso di necessità, come furono costretti a fare alle prime luci dell'alba, non potendo resistere agli attacchi portati loro da Fazio e i suoi sostenitori.
Difficile è individuare con esattezza le cause della rivolta, e valutare il significato dell'intelligenza stabilita dai Gualandi Maccaione con il Rossi. Non c'è dubbio che il problema della conferma o meno di ser Michele del Lante come cancelliere (ruolo che rivestiva ininterrottamente dal giugno del 1329) fu tutt'altro che un semplice pretesto, giacché si trattava di un ufficio di rilevante importanza per il controllo dell'attività quotidiana di governo; ma se la fazione del G. si mostrò tanto risoluta nel pretendere la destituzione del potente cancelliere, ciò dimostra che i due schieramenti esistenti all'interno del ceto dirigente del Comune avevano ormai orientamenti e programmi incompatibili. Non è inoltre ben chiaro se l'intesa con il Rossi fosse meramente strumentale o - come sembra più probabile - s'inserisse in un disegno politico-diplomatico riguardante la sorte di Lucca (la cui signoria Piero stava per cedere, suo malgrado, a Mastino Della Scala), alla quale erano molto interessate tanto Pisa quanto Firenze. A ogni modo, l'esito della rivolta fu il forzato allontanamento da Pisa dell'intera "parte del ditto messer Benedetto" (ibid., col. 1003): espressione questa usata dal cronista sin dall'inizio della descrizione degli eventi, ma pienamente valida solo da quel momento in poi, giacché Ceo morì prima del 10 maggio 1337, e l'arciprete Iacopo, catturato dai nemici durante i combattimenti del 10-11 novembre, restò per qualche anno in carcere e fu liberato nel 1339 con l'impegno di dimorare fuori dal distretto e dalla diocesi pisana.
Dal canto suo, il G. fu dichiarato ribelle al Comune di Pisa e bandito dal territorio cittadino; ma giacché è dato d'incontrarlo nelle fonti solo attraverso rapidi accenni dei cronisti, non sappiamo quasi nulla dei suoi spostamenti nel corso dei successivi anni. Probabilmente egli si rifugiò dapprima presso Piero Rossi; e non si può nemmeno escludere che lo seguisse allorché, nel seguente 1336, costui passò al servizio di Firenze e guidò le truppe di questa nella guerra contro Mastino. Ciò permetterebbe forse di spiegare perché, quando il Villani torna a parlare del G., ce lo mostri all'inizio del 1338 (dunque qualche mese dopo la prematura morte del Rossi) impegnato nel tentativo (peraltro rapidamente fallito) d'impadronirsi di Castiglione della Pescaia con l'aiuto di un contingente di 300 cavalieri, che egli aveva "segretamente soldati in Firenze" (Villani, p. 162). Nient'altro sappiamo di lui fino al 1344, allorché egli ricompare nelle cronache durante lo svolgimento della guerra fra Pisa e Luchino Visconti. Nell'aprile di quell'anno le truppe viscontee avevano rotto la linea difensiva allestita da Pisa in Versilia ed erano giunte fino a pochi chilometri dalla città, attestandosi sulla sponda destra del Serchio. A quel punto, nella prospettiva di una scorreria nella pianura circostante alla città, furono inviati messi al G., il quale si trovava allora - di nuovo - in Maremma, a capo di un contingente di cavalieri che gli era stato affidato da Luchino.
Dunque egli si era messo al servizio del Visconti: una scelta che era forse piuttosto recente (nel 1341-42 Pisa e il signore di Milano erano stati alleati, e le truppe viscontee avevano assecondato la conquista pisana di Lucca), ma che consentiva al G. di nutrire fondate speranze di poter rientrare da vincitore nella città natale.
Chiamato a riunirsi al grosso dell'esercito visconteo (che nel frattempo si dirigeva verso Fucecchio), il G. condusse dunque le sue schiere fin nelle vicinanze di San Miniato (ossia quasi di fronte al luogo dell'appuntamento); ma fra il 1° e il 2 maggio 1344 fu qui attaccato e sconfitto da forze pisane. Qualche giorno dopo l'esercito visconteo riuscì però ad attraversare l'Arno e a passare in Valdera e contemporaneamente i conti di Montescudaio si ribellarono a Pisa e aprirono ai nemici di questa i castelli maremmani avuti in custodia dal Comune. Le truppe milanesi si accamparono perciò a Collesalvetti, lanciando da lì varie incursioni verso Nord e verso Sud; mentre il G., riunitosi ormai a esse, riuscì a impadronirsi del castello di Chianni, sui monti di Volterra.
Con l'inoltrarsi dell'estate le truppe di Luchino si trovarono però in grandi difficoltà d'approvvigionamento, mentre cominciavano a diffondersi le malattie; fra le vittime di queste epidemie vi fu anche il G., il quale morì nell'agosto del 1344, forse proprio a Chianni, come afferma la Cronica.
La stessa fonte raccoglie altresì la diceria che egli fosse stato avvelenato da Arrigo, figlio di Castruccio, il quale avrebbe prevenuto un analogo gesto progettato ai suoi danni dal G., al quale le autorità pisane avrebbero promesso il rientro in città, ma questa ricostruzione della sua morte sembra dettata dall'esigenza del cronista pisano di porre l'evento in una luce insieme drammatica e ambigua. Le altre due cronache che riportano la notizia della morte del G. - il Villani (p. 371) e le Storie pistoresi (p. 205) - ne parlano, rispettivamente, come di un uomo rimasto fino all'ultimo "grande nimico di Pisani", e che era stato "uno de' maggiori caporali di quella oste, e a sua posta e per suo amore era ribellata tutta quella contrada".
Il G. lasciò almeno due figli maschi. Oddone, il maggiore, nelle favorevoli condizioni politiche createsi dopo la fine della signoria dei conti di Donoratico e il successivo avvento dei Gambacorta (1347) riuscì a ottenere una prebenda nel capitolo della cattedrale pisana; ma nel giugno 1355, dopo la caduta del regime dei Gambacorta, fu tra i dieci personaggi mandati in esilio dal nuovo regime instauratosi a Pisa grazie a Carlo IV. Assai più giovane di lui era Simone, che nel maggio del 1351, non ancora maggiorenne, ottenne dal podestà il permesso di procrastinare l'accettazione dell'eredità del padre e dello zio Ceo. Una generazione più tardi alcuni Maccaione (fra i quali un altro Benedetto, giurisperito) tornarono a partecipare attivamente alla politica cittadina sotto le signorie di Pietro Gambacorta e di Iacopo Appiani.
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