GRAZZINI, Benedetto (Benedetto da Rovezzano)
Scultore, decoratore e architetto, nacque a Pistoia intorno al 1474 da maestro "Bartolommeo di Ricco di Grazino de' Grazini" e da "Francesca di monna Nencia da Settignano", entrambi originari di Canapale, un paese nelle immediate vicinanze di Pistoia (Milanesi, p. 529 n. 1).
L'indicazione "da Rovezzano", aggiunta al suo nome già nelle fonti a lui contemporanee, non si riferisce al suo luogo di origine ma al borgo dove, agli inizi del Cinquecento, acquistò una casa e alcuni terreni. Si deve a Gaetano Milanesi la scoperta del patronimico dell'artista e la conseguente identificazione del G. sia con quel "Benedictus Florentinus" citato nell'iscrizione del 1499, incisa sulla cantoria marmorea della chiesa di S. Stefano a Genova, sia con quel "Benedictus Bartholomei Florentinus" che compare più volte nel rogito sottoscritto a Genova, nel 1502, dal G. e da altri artisti per la realizzazione del monumento funerario commissionato dal re di Francia Luigi XII (Alizeri).
Il G. potrebbe aver dato inizio al suo apprendistato, tecnico e culturale, forse intorno al 1490, quindi poco più che quindicenne, facendo parte della cerchia di artisti - quali Giuliano da Sangallo, Andrea Sansovino e Simone del Pollaiuolo, detto il Cronaca - impegnati nei lavori per la sacrestia e il vestibolo della chiesa di S. Spirito a Firenze. Tra il 1490 e il 1496 il G. fu forse l'autore di una parte dei capitelli dell'ordine inferiore della sacrestia, sotto la guida e secondo i modelli di Giuliano da Sangallo (Luporini, 1964).
Ragioni d'ordine storico-stilistico più che di natura documentaria inducono a ritenere che il G. fu prima allievo, e in seguito aiuto di Giuliano, partecipando attivamente alla esecuzione di note opere fiorentine del maestro: camino di casa Gondi (1490-1501), apparati decorativi di casa Corsi-Horne (posteriori al 1489) e cappella Gondi in S. Maria Novella (1503-08). L'attività svolta al fianco di Giuliano fu sicuramente il viatico per successive collaborazioni, comunque importanti e decisive ai fini della sua carriera artistica. Quella con Andrea Sansovino, per esempio, potrebbe essere stata una di queste. Iniziata a Firenze dopo il 1485, con la realizzazione di alcuni fregi dell'altare Corbinelli in S. Spirito, proseguì forse a Roma, tra il 1505 e il 1509, con la partecipazione alla decorazione delle tombe Basso e Sforza in S. Maria del Popolo e infine a Loreto, con gli ornamenti per la S. Casa.
La cantoria marmorea della chiesa di S. Stefano a Genova, eseguita in collaborazione con Donato Benti sul finire del Quattrocento, oltre a essere il primo intervento documentato dell'artista, è l'opera che anticipa la più nota serie di lavori fiorentini del primo quindicennio del Cinquecento che rappresentano, per varie ragioni, un corpus coerente e continuo di esperienze.
Grazie all'abate Perasso, cronista dell'abbazia, che trascrisse il testo di un'epigrafe purtroppo scomparsa, sappiamo che l'opera fu ultimata nel 1499, che il committente fu Lorenzo Fieschi, commendatario perpetuo dell'abbazia, e infine che i suoi autori furono Donato Benti e il G., citato come "Benedictus Florentinus" (Milanesi, p. 530 n. 2). Le parti oggi riferibili, con un buon grado di attendibilità, all'opera quattrocentesca sarebbero cinque mensole in marmo, alcune specchiature decorate a rilievo e una parastina.
Tra il 1494 e il 1504 il G. fornì i disegni e curò l'esecuzione di alcune opere commissionate dai Pandolfini per la badia fiorentina (Luporini, 1983-84): il portale principale d'accesso dall'odierna via del Proconsolo e l'annessa scalinata; l'elegante portico a colonne corinzie in sostituzione del più antico ambulacro o vestibolo; la cappella gentilizia, risultato della trasformazione dell'antica chiesetta parrocchiale di S. Stefano del Popolo.
Nel 1502 il G., insieme con Donato Benti, Michele D'Aria e Gerolamo di Viscardo da Laverno, sottoscrisse un contratto con Jean Hernoet, segretario di corte e tesoriere di Francia, per la realizzazione di un sepolcro destinato a Parigi per onorare la memoria dei genitori di Luigi XII (Alizeri).
Il contratto, rogato il 29 agosto a Genova dal notaio Urbano Granello, contiene un'accurata descrizione delle caratteristiche dimensionali, compositive e formali dell'opera; il tempo d'esecuzione (quindici mesi dalla data di stipula del contratto); e l'ammontare dei pagamenti. L'ipotesi di Alizeri, secondo cui il G. fu il solo del gruppo a raggiungere la Francia, pur non essendo suffragata da documenti, resta la più plausibile perché egli è il solo di cui si perdono in qualche modo le tracce negli anni immediatamente successivi alla stipula del contratto. L'identificazione della tomba suddetta con il monumento sepolcrale a Luigi d'Orléans, Valentina Visconti, Carlo d'Orléans e Filippo de Vertus (Tschudi), dal 1816 presso la cattedrale di St-Denis, nonostante le numerose corrispondenze che l'avvalorano, serba ancora diverse zone d'ombra. Il G. potrebbe aver eseguito le sei statue di santi della testata posteriore e, con maggior grado di incertezza, anche la statua di Filippo de Vertus (Luporini, 1964).
Nel 1505, forse subito dopo il suo rientro dalla Francia, il G. realizzò un elegante camino (oggi presso il Museo nazionale del Bargello) per il salone al primo piano del palazzo fiorentino dei Borgherini, ora palazzo Rosselli Del Turco, oltre ad alcuni capitelli, fregi e altri apparati decorativi (Cecchi).
Il monumento marmoreo dedicato a S. Giovanni Gualberto, patrizio fiorentino e istitutore dei monaci vallombrosani, fu allogato al G. nel 1505 dall'abate generale dell'Ordine di Vallombrosa don Biagio Milanesi.
Tipico esempio di scultura basata sulla combinazione di tomba e altare dedicati a un santo locale, il monumento è considerato il lavoro maggiore del Grazzini. L'artista vi lavorò ininterrottamente dal 1507 al 1513, anno in cui l'opera, pensata in forme e dimensioni grandiose, fu interrotta per la destituzione dell'abate da parte di Leone X. I pezzi già finiti furono abbandonati nella residenza di Biagio Milanesi, al Guarlone presso S. Salvi, e qui rimasero fino al 1530, quando furono profanati dalle soldatesche imperiali impegnate nell'assedio di Firenze. Il monumento ci è così pervenuto in numerosi pezzi, di cui molti mutili, che non furono mai montati né, quindi, trovarono una definitiva e compiuta collocazione. Oltre a diversi frammenti decorativi facenti ancora parte di collezioni private, le membrature superstiti sono oggi sparse tra il cenacolo di S. Salvi, la badia di Passignano, il Museo nazionale del Bargello e la chiesa di S. Trinita (altare Sernigi) a Firenze. La tesi secondo cui gli elementi decorativi dell'altare Sernigi siano in origine appartenuti al monumento a s. Giovanni Gualberto è largamente accolta dalla critica; e vi è stato anche chi ha ipotizzato che quei marmi costituiscano in certo modo la parte principale del monumento stesso (Tarani). Collocato in origine accanto all'ingresso maggiore, l'altare fu trasferito nel 1888 nella cappella Ardinghelli. In base alle notizie fornite da Vasari e dallo stesso Milanesi, si è escluso che si trattasse di un monumento a parete essendo più probabile, invece, che fosse costituito da un'urna collocata al centro di una cappella, inserita in un baldacchino o sospesa su un ampio e robusto basamento. È probabile che nel grande arco centrale dell'altare Sernigi fosse collocato il sarcofago, secondo uno schema compositivo adottato più volte da Andrea Sansovino (Natali, 1980). Altri studiosi hanno confutato tali ricostruzioni appoggiandosi sia a Vasari, che riferisce di una "cappella" (p. 532), sia a Gaetano Milanesi che, trascrivendo un passo delle Memorie vallombrosane, l'opera manoscritta di Biagio Milanesi, parla di un'"arca" (p. 533 n. 1); inoltre, lo scarto evidente, sul piano stilistico e decorativo, tra alcune parti dell'altare e le incongruenze nella disposizione di taluni elementi, inducono a ritenere che non tutto sia opera del G. (Ciardi Duprè Dal Poggetto).
Tra il 1507 e il 1510 il G. lavorò alla tomba Altoviti, destinata alla chiesa fiorentina dei Ss. Apostoli. Si tratta di una tomba a parete, formalmente proposta come sviluppo sul tipo architettonico-plastico dell'arco di trionfo, eretto su una base posata a sua volta su un basso zoccolo di marmo nero.
Sui plinti ai lati della specchiatura centrale, recante un'epigrafe spartita in due campi, campeggiano gli stemmi di Oddo e Antonio Altoviti. Le soprastanti paraste sono finemente decorate a rilievo con simboli della Passione e delle virtù cardinali e teologali. Il fulcro della composizione è rappresentato dal sarcofago riccamente scolpito con arpie sugli angoli, teschi trapassati da serpenti che si avvolgono su se stessi annodandosi su ossa incrociate, un nastro e una lunga teoria di girali di fiori sul coperchio e alla base.
Il 3 giugno 1508 il G. si iscriveva alla società degli scalpellini di Firenze. Nel gennaio dell'anno successivo riceveva dalla Signoria fiorentina la somma di 10 fiorini "larghi in oro" per aver completato, rinettandolo, il getto del David bronzeo di Michelangelo, destinato originariamente in dono a Pierre de Rohan e, in seguito, a Florimond Robertet, alti dignitari della corte di Luigi XII. Della statua si sono perse le tracce già dal XVIII secolo (Caglioti).
Forse a quest'epoca il G. realizzò il portale in marmi bicromi della chiesa dei Ss. Apostoli e la canonica, edificio a tre piani più il piano terra, eretta a ridosso e in un angolo della chiesa stessa, sulla piccola piazza del Limbo (Vasari). Gli elementi architettonici originali della facciata sono il portale, leggermente spostato a sinistra rispetto alla sua ubicazione originaria, e le bifore zoppe al primo piano.
Subito dopo aver ultimato la tomba Altoviti o, forse, per un certo periodo contemporaneamente a quella, il G. si dedicò al monumento per il gonfaloniere della Repubblica Pier Soderini, destinato al coro della chiesa di S. Maria del Carmine a Firenze.
Per la sua datazione possiamo attingere a tre fonti distinte: Vasari, che fissava al 1512 la data di ultimazione dell'opera; l'epigrafe settecentesca presente in sito, che invece la posticipa di un anno; e l'Opusculum di Albertini, che a sua volta annota la presenza del monumento nel Carmine già nel giugno del 1509 (nonostante la data di pubblicazione dell'Opusculum risulti 1510: l'autore ultimò, infatti, la stesura del testo il 3 giugno 1509). La tomba non accolse mai le spoglie mortali di Soderini che nel 1512 fu mandato in esilio a Ragusa e quindi a Roma, dove morì e fu sepolto nel 1522. Il cenotafio si compone di un alto zoccolo, sul quale poggiano due tozzi pilastri collegati da un ampio arco a tutto sesto. I danneggiamenti subiti dal monumento nell'incendio del 1771 e i successivi interventi di recupero, terminati nel 1780, ne hanno sicuramente modificato la forma originaria che, nel rapporto tra la base con i pilastri e l'archivolto superiore, si rivela debole e incoerente.
Il 28 sett. 1512 l'Opera del duomo di Firenze allogava al G. la statua di S. Giovanni Evangelista per una delle nicchie dei piloni della crociera in S. Maria del Fiore. Il 30 ott. 1513, finita e posta in sito, la statua fu pagata 100 fiorini. Nel periodo compreso tra il 1512, quando i Medici fecero ritorno a Firenze, e il 1519, data della partenza dell'artista per l'Inghilterra, il G. scolpì l'alto piedistallo decorato a rilievo destinato alla statua di Orfeo, opera di Baccio Bandinelli (Langedijk).
Tra il 1515 e il 1518, il G. figura più volte come "scharpellino d'intaglio a l'ornamento" della cappella nei registri dei conti della S. Casa di Loreto (Luporini, 1964, p. 168).
Forse all'epoca dei lavori di ristrutturazione di palazzo Portinari-Salviati, poi Da Cepparello, compiuti in occasione del matrimonio tra Giovanni de' Medici, detto dalle Bande Nere, e Maria Salviati il G. sviluppò il disegno e curò l'esecuzione di due nicchie a edicola destinate alla parete di fondo del cortile degli Imperatori (ibid.). Smontate nel 1881, furono affidate l'anno successivo al Museo nazionale del Bargello, dove tuttora si trovano.
Prima di partire per l'Inghilterra, il G. eseguì per Giovanni Bartolini Salimbeni una base di marmo bianco e rosso da associare al Bacco giovinetto di Iacopo Sansovino. La statua col relativo piedistallo fu collocata nel cortile di una delle case del Bartolini, nel vasto possedimento di Gualfonda (Ginori-Lisci).
Nel 1519 il G. lasciò l'Italia alla volta dell'Inghilterra. Le sole testimonianze sull'attività dell'artista in questo paese si limitano ai documenti e alle parti superstiti del monumento sepolcrale per il cardinale Thomas Wolsey, al quale lavorò ininterrottamente dal 1524 al 1536.
Il monumento era destinato a Windsor dove, secondo i programmi, doveva occupare un'apposita cappella annessa alla chiesa di S. Giorgio. Nel 1529, caduto in disgrazia il cardinale, la tomba passò al re Enrico VIII, deciso a sfruttare per sé la grandiosità del progetto. Il G. vi lavorò in collaborazione con altri fino al 1536 quando, a causa di una incipiente cecità provocata dalle lunghe e continue presenze in fonderia, fece definitivamente ritorno in Italia.
L'impianto era costituito da un recinto in rame adornato di statue che racchiudeva due lapidi marmoree al di sopra delle quali, in posizione distesa, c'erano le statue a grandezza naturale del re e della regina; tra le due lastre, su un alto basamento recante delle iscrizioni, troneggiava, imponente, la statua di Enrico VIII, rappresentato come un austero cavaliere a cavallo; una statua di Dio dominava il complesso scultoreo-monumentale. Del primitivo monumento, smembrato e in parte distrutto alla metà del Seicento, ci sono pervenuti il sarcofago in marmo nero che, dopo ulteriori modifiche, onora la memoria di Horatio Nelson nella cattedrale londinese di St. Paul, e due grandi candelabri bronzei finemente lavorati, attualmente nella cattedrale di Gand.
Non abbiamo alcuna notizia sull'attività dell'artista dalla data del suo rientro a Firenze fino alla sua morte. Il 22 maggio del 1543, faceva testamento a Firenze, alla presenza del notaio Filippo Rovai e cinque anni dopo, ormai completamente cieco, contrattava un vitalizio con i monaci vallombrosani.
Il G. morì, probabilmente a Vallombrosa, nel 1554 (Vasari).
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