Benedetto Croce
Joseph A. Schumpeter osserva che «la filosofia di Benedetto Croce […] per noi ha un particolare interesse, sia perché lo stesso Croce fu un po’ economista, sia perché egli è legato, più che non sia il caso di qualsiasi altro filosofo, con alcuni aspetti del lavoro professionale degli economisti italiani» (1954; trad. it. 3° vol., 1990, p. 955). Questo giudizio non deve sorprendere. A parte i suoi scritti specificamente ‘economici’, Croce ha avuto a che fare per tutta la sua vita di studioso con le categorie di utile, di piacere e di pena considerate molle dell’azione in un significato molto vicino a quello benthamiano, nonostante il suo rifiuto della filosofia dell’utilitarismo. L’economia è parte della nostra esperienza di vita, e la filosofia non può non considerarla.
Nacque a Pescasseroli il 25 febbraio 1866 da Pasquale e da Luisa Sipari, il padre discendente di un’antica famiglia di funzionari borbonici, la madre, invece, di possidenti arricchitisi sotto il regno di Gioacchino Murat. I genitori e la sorella perirono nel terremoto di Casamicciola del 1883, in cui egli stesso subì gravi traumi. Orfano, trovò accoglienza, insieme al fratello minore Alfonso, a Roma presso il congiunto (e tutore) Silvio Spaventa. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, ma fu presto attirato dalle lezioni che Antonio Labriola teneva nella facoltà di Filosofia. Interrotti senza rimpianto gli studi universitari, nel 1886 si trasferì a Napoli, dove iniziò a collaborare a riviste di storia locale con lavori di carattere erudito.
Intorno al 1890 (cfr. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, scritto nel 1915, ma edito nel 1918), l’insoddisfazione per questo tipo di ricerche lo indirizzò verso questioni di respiro teorico. Nacquero così i vari saggi raccolti in Materialismo storico ed economia marxistica (1900) e, a poca distanza di tempo, le sue maggiori opere filosofiche. A poco più di quarant’anni Croce, dal 1910 membro del Senato del Regno, era ormai il principale punto di riferimento per i giovani studiosi che rifiutavano l’eredità positivistica tardo-ottocentesca e desideravano battere vie nuove.
Nel 1920-21 Giovanni Giolitti lo volle come ministro della Pubblica istruzione nel suo breve governo postbellico. Croce manifestò benevolenza per il nascente movimento fascista, sottovalutandone la carica eversiva dell’ordinamento liberale. Solo a partire dal discorso del 3 gennaio 1925, in cui Benito Mussolini annunciava la trasformazione del fascismo in regime, Croce risolse di assumere un atteggiamento di netta opposizione. Scrisse il cosiddetto Manifesto degli intellettuali antifascisti. Durante il ventennio, subì qualche «vessazione» (il termine è suo) soprattutto editoriale, ma gli fu consentito di continuare a pubblicare la sua rivista, «La critica». Imperturbabile nella sua attività di studioso, diede forza al concetto di «religione della libertà», con grande presa sui giovani antifascisti.
Caduto il regime, divenne ministro senza portafoglio e vicepresidente del Consiglio nei gabinetti Badoglio e Bonomi. Alla Costituente, pronunciò un forte discorso contro la ratifica del trattato di pace, reclamando il diritto dell’Italia a mantenere le proprie colonie africane. Nel 1948 fu fra i membri di diritto del primo Senato repubblicano.
Negli operosi ultimi anni lo troviamo immerso in quel lavoro di studioso e organizzatore di cultura che sentiva più congeniale. Continuò nel raccogliere i suoi scritti sparsi e fondò a Napoli nel 1946 l’Istituto italiano per gli studi storici, formandovi alcuni dei maggiori storici del dopoguerra. Si spense a Napoli il 20 novembre 1952.
Il giovane Croce si avvicina al pensiero di Karl Marx, di cui coglie due tratti di indubbia rilevanza. Il primo consiste in quello che Croce chiama «metodo» o «canone storiografico», basato sulla ricerca dell’intima comprensione degli eventi tramite una particolare concezione dei fattori del progresso storico; il secondo, riguarda la trattazione del valore. Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto.
Il fatto che la teoria del valore di Marx sbocchi nella teoria del «sopravalore» o plusvalore la rende diversa da tutte le altre, in quanto implica un procedimento che non si ritrova negli economisti borghesi. È il procedimento sociologico-comparativo. Il plusvalore, infatti, è ciò che risulta dal raffronto o «paragone ellittico», in quanto non esplicitato, fra un’economia di puro lavoro e un’economia in cui accanto al lavoro ci sono altri fattori produttivi.
L’operazione con cui Marx deduce il plusvalore da tale raffronto fra due società, una ipotetica e astratta, l’altra concreta e reale, non può dar luogo ad altro che a una costruzione mentale. Già Werner Sombart aveva definito il plusvalore un «fatto del pensiero», non un dato empirico, e Croce aderisce a questa interpretazione (Per la interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, 1897, p. 60).
Non sembra dubbio che per Croce il «paragone ellittico» pone le basi per un raffronto qualitativo fra tipi di società. Di più, esso possiede un elemento morale di indubbia efficacia propagandistica. Il capitalismo è il contrario di una società di uomini eguali, che vivono tutti del proprio lavoro; quella società, che il moralista e agitatore Marx promette che sarà realizzata con il socialismo (B. Croce, Sulla forma scientifica del materialismo storico, 1896, p. 32 nota).
In quanto concetto qualitativo, il plusvalore è estraneo alla teoria economica in senso stretto. Ma proprio per questo la sua eventuale confutazione richiede strumenti non meramente logico-formali. In altri termini, esso resta come
[…] un dardo acuminato nel fianco della società borghese, e nessuno è riuscito a strapparvelo. Ci vuole ben altra radice medica che non i ragionamenti del Böhm-Bawerk e simili critici, per sanare la piaga (Sulla forma scientifica del materialismo storico, cit., p. 33 nota).
Questa frecciata contro la Scuola austriaca, altrove da Croce considerata il punto più alto dell’evoluzione dell’economia politica (cfr., per es., Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900), 1937, in A. Labriola, La concezione materialistica della storia, nuova ed. con un’aggiunta di B. Croce sulla critica del marxismo in Italia dal 1895 al 1900, 1942, p. 293), non deve sembrare contraddittoria. Dato che la scienza economica non è scienza storica e neppure scienza morale, qualunque economista si ponga questioni di natura storica e/o morale deve uscire dalla sua scienza. Questo ha fatto Marx, trattando del profitto (meglio, del plusvalore) dal punto di vista «sociologico» (Per la interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 78); quindi Eugen von Böhm-Bawerk avrebbe dovuto scendere sul medesimo terreno.
Qui però Croce non rileva che, finché la produzione avviene tramite il solo lavoro, le merci si scambiano ai loro valori, e non si ha plusvalore; quando si ha l’appropriazione della terra e l’accumulazione di capitale – cioè quando si passa alla società capitalistica – i prezzi non corrispondono più ai valori. Se lo avesse rilevato, non avrebbe potuto fare a meno di concludere che anche la trasformazione dei valori in prezzi – problema che ai suoi tempi era già sotto l’occhio degli economisti, a cominciare dal famigerato (per Croce) Achille Loria (cfr. A. Loria, Marx e la sua dottrina, 1902) – è un esito analitico del «metodo comparativo» seguito da Marx. Quindi il «paragone ellittico» solleva anche questioni quantitative, nella misura in cui non si ferma a indagare la genesi del plusvalore, ma intende determinarne anche la grandezza.
Lo stesso Croce ha svolto anche un’indagine strettamente analitica – l’unica della sua stagione di ‘economista’ – intorno alla legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto. Questo scritto si propone di servirsi delle assunzioni dello stesso Marx ed è da considerarsi correttamente impostato sul piano logico e largamente condivisibile nelle conclusioni. Come è noto, nel libro III del Capitale Marx sostiene che l’aumento della composizione organica del capitale senza un corrispondente aumento del saggio di plusvalore fa diminuire il saggio di profitto. È una tipica tautologia, in quanto, date le definizioni di saggio di plusvalore pv/v (dove pv è il plusvalore e v è il capitale variabile), di composizione organica del capitale c/v (dove c è il capitale costante) e di saggio del profitto pv/(c+v), se pv/v resta invariato e c/v aumenta non può non ricavarsi la conclusione di Marx. Ma Croce obietta che il progresso tecnico svalorizza proprio c; inoltre il risparmio ottenuto di c grazie al progresso tecnico può dar luogo a un aumento dell’accumulazione e quindi a un aumento del saggio del profitto. Va bene che maggiore accumulazione può significare anche maggiori salari; ma allora l’effetto finale è indeterminato (cfr. Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, 1899).
Considerando definitive le sue conclusioni – così come, dal suo punto di vista, in effetti erano – Croce decise di comporre questi scritti in un libro, «come in una bara», e di «chiudere la parentesi marxista della sua vita» (Marxismo ed economia pura, 1899, p. 175). Per sua stessa ammissione, il marxismo aveva stimolato la sua riflessione in modo positivo. Ma osserviamo che il Marx di Croce è un Marx dimidiato che, lungi dal portare avanti una critica dell’economia politica borghese, punta tutte le sue carte su un «paragone ellittico» di dubbia efficacia, se non un «artifice comparatif» (Les études relatives à la théorie de l’histoire, en Italie, durant les quinze dernières années, 1902, p. 190); e che, quando ragiona da economista, difetta nell’analisi.
Resta in piedi il Marx profeta, se si vuole impiegare il linguaggio di Capitalism, socialism and democracy (1942) di Joseph A. Schumpeter; cioè il banditore di un suggestivo verbo anticapitalistico, pieno di indignazione morale; e soprattutto il Marx «Machiavelli del proletariato» (Per la interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 112), l’abile ideatore di parole d’ordine politiche atte a muovere i sentimenti delle masse. Quanto il moralismo possa andar d’accordo con il machiavellismo, non è facile dire, e lo stesso Croce presto se ne convinse, togliendo a Marx la patente di moralista e lasciandogli solo quella di machiavellico.
Contemporaneamente alla lettura di Marx, «dalla primavera del 1895 a quella del 1896» (Memorie della mia vita, 1902, in appendice ad A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, 1975, p. 400) egli s’impegna in uno studio a tappeto dell’economia politica borghese, spaziando da Adam Smith a David Ricardo ad Alfred Marshall ai marginalisti della scuola austriaca (Conversazioni critiche, serie I, 19423, p. 293) per cercare l’elemento comune a tutte le varie scuole e correnti, ed estrarne il concetto base della disciplina.
Sorprende che tale lettura degli economisti venga condotta senza alcuna contestualizzazione storica. Largamente influenzato da Maffeo Pantaleoni, che insegnò a Napoli fino al 1897 e con cui il giovane filosofo era entrato in amichevole rapporto (cfr. Michelini 1998), Croce afferma che tutte le storie delle scienze devono partire dal patrimonio di conoscenze attuale; anche se soggiunge che si deve fare anche la storia degli «errori» e non solo delle «verità», perché altrimenti il lavoro storico perde di spessore e si confonde con la teoria pura e semplice (cfr. Il giudizio economico e il giudizio tecnico, 1901, in Materialismo storico ed economia marxista, ed. 1927, pp. 193-99). Ma le ragioni per cui nel corso del tempo si sono alternati «errori» e «verità» non sono spiegate storicamente.
Non è peraltro ai singoli aspetti e scuole dell’economia politica che egli rivolge la sua attenzione, ma all’individuazione del «principio economico», senza il quale l’economia come scienza non può fondarsi. Il «principio economico» unificante, argomenta Croce, è e non può essere altro che il Valore. Lamenta che
[…] ci sia ancora da elaborare filosoficamente [corsivo aggiunto] il concetto di Valore, e che bisogni percorrere fino al fondo quella strada, che gli economisti puri hanno percorso solo fino a un certo punto. Si veda com’essi siano ancora perplessi tra i concetti di egoismo, legge del minimo mezzo, soggettivismo, psicologismo, edonismo, eudemonismo, e via dicendo. Trovare il fatto primo economico, l’elemento irriducibile che fa dell’economia una scienza indipendente, è un problema non ancora risoluto (Marxismo ed economia pura, 1899, rist. in Id., Materialismo storico ed economia marxistica, 1927, p. 173).
Soltanto una volta individuato al proprio interno un principio originale e fondante, l’economia può legittimamente pretendere di diventare «pura» (Per la interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., pp. 77-78). A Croce la locuzione «economia pura», allora corrente specie nella Scuola di Losanna, piace molto. Ma per lui la purezza non sta tanto nell’uso della matematica, e neppure, come avrebbe detto di lì a pochi anni Max Weber, nell’avalutatività, cioè nell’indipendenza da giudizi di valore, bensì – nientemeno – nel suo presentarsi come «teoria del giudizio economico in universale» (Conversazioni critiche, cit., p. 296).
Ne consegue che le differenti definizioni di valore date dagli economisti – sia quelle discendenti dall’adozione del postulato edonistico (Pantaleoni), sia quelle basate sul concetto di razionalità della scelta (Pareto) – sono irrilevanti ai fini di una fondazione filosofica dell’economia, e possono al più servire per fini pratici di misurazione dei fenomeni economici.
Quest’insoddisfazione trova conferma nella discussione del 1900-01 con Vilfredo Pareto (cfr. rispettivamente B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, 1900; V. Pareto, Scritti teorici, a cura di G. Demaria, 1951). L’economista di Losanna ritiene che la scienza economica abbia fatto benissimo, nel corso del tempo, a liberarsi dell’ipoteca del «principio primo», che sa di metafisica, e ad affinare le sue tecniche specialistiche d’indagine, aventi a oggetto non già i «giudizi economici», ma semplicemente i «fatti economici», nella loro oggettività e neutralità. Croce obietta che la raccomandazione di Pareto di studiare i «fatti» economici secondo l’ipotesi di razionalità sa di meccanicismo, e meglio farebbe l’economista a partire dagli «atti» (cioè dai giudizi) economici, da cui i fatti discendono.
Fra i primi economisti che in quegli anni sembrano essersi avvicinati alle posizioni crociane risulta Ulisse Gobbi, per il quale oggetto della scienza economica sono azioni volontarie, non fatti meccanici. Per Gobbi il fondamento teoretico della scienza economica è il «giudizio di convenienza» su queste azioni (se esse siano o no congrue al raggiungimento del fine), che coincide con la «legge del minimo mezzo» o dell’impiego ottimale delle risorse. Gobbi, nella sua acuta memoria, anticipava Robbins distinguendo il giudizio tecnico, che prescinde dalla scelta, da quello economico, che sulla scelta è basato (U. Gobbi, Sul principio della convenienza economica, «Memorie del R. Istituto lombardo di scienze e lettere, Classe di scienze storiche e morali», 1900, 21, 3). Croce – pur apprezzando il ragionamento di Gobbi – obietta però che il «giudizio di convenienza» (da Croce chiamato «giudizio di valore», espressione non usata dall’economista lombardo) è in sé contraddittorio, perché confonde nientemeno che l’attività teoretica con quella pratica. Infatti il valore è atto di volontà, non di conoscenza: «Un’azione non la voglio, perché è utile, ma è utile, perché la voglio» (Il giudizio economico e il giudizio tecnico, cit., p. 252). Il giudizio deve venire dopo l’atto. Sulla formazione dell’atto gli economisti non possono interferire.
Sarebbe ozioso domandarsi «chi fra i due ha avuto ragione». Si può azzardare che se Pareto ha posto le basi per una più rigorosa definizione di razionalità economica, Croce ha colto la centralità del problema della scelta in economia, anche se non si può chiedere a Croce di affrontare il problema dell’ordinamento delle preferenze (cfr. Montesano 2003, p. 203), né, soprattutto, gli si può chiedere di fare a meno della dialettica valore-disvalore, e quindi scelta-non scelta, cruciale nella sua concezione dell’uomo (cfr. Sasso 1975, pp. 433 e segg.) ma, ci sembra, poco significativa nell’analisi economica del comportamento del consumatore.
Resta, infatti, confermato il divario fra il concetto filosofico dell’Utile come «volizione dell’individuale» – mentre la morale è «volizione dell’universale» (Filosofia della pratica. Economica ed etica, 1909, 19233, p. 236) – e il concetto (o meglio l’astrazione) dell’utile in economia, e quindi fra l’economia come attività umana, calata nella storia, e la scienza economica, che ha per schema l’uomo economico immutabile, corrispondente al punto materiale in fisica. L’utile nella vita pratica trascende di molto la nozione economica di utile: il primo è tutt’uno con la vitalità dello Spirito creatore del mondo intorno a sé; il secondo è un concetto strumentale e meccanico. Il beffardo invito rivolto agli economisti, «calcolate, non pensate» (p. 251), sembra chiudere per sempre ogni dialogo.
Croce non manca di ammonire gli economisti circa l’imperfetta distinzione, pure all’interno della loro scienza, fra l’essere e il dover essere, fra la teoria e la politica economica. Del tutto correttamente, Croce distingue fra precetti di natura ideologico-politica e teorie economiche. I primi non possono essere confusi con le seconde. «Socialismo e liberismo si diranno bensì scientifici per metafora o per iperbole, ma né l’uno né l’altro sono o possono esser mai deduzioni scientifiche» (Per la interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, cit., p. 93). Purtroppo, rileva Croce, spesso gli economisti non rispettano tale distinzione.
Su questa base si svolge il dibattito con Luigi Einaudi. Se Croce è un filosofo che marcia, seppure criticamente, verso l’economia, Einaudi compie il cammino inverso.
Nel giovane Einaudi i problemi economici sono parte di una più generale concezione umanistica e moralistica. Così, nel 1905 loda Thomas Carlyle per il suo romanticismo economico; nel 1915 scrive che la Grande guerra non era scoppiata per motivi economici, i quali nella storia contano ben poco, ma per motivi ideali; nel turbinoso dopoguerra fa propri i precetti di William Smart sulla «gioia nel lavoro»; in polemica con il fascismo esalta la «bellezza della lotta» sindacale come valore in sé, oltre che come esigenza economica. Una visione dell’economia dominata da istanze che sono tutt’altro che il mero tornaconto.
Inoltre, Einaudi auspica un più giusto ordine internazionale, che vada oltre la miopia dell’interesse dei singoli Stati, mentre Croce irride alle «alcinesche seduzioni della Dea Giustizia e della Dea Umanità» (prefazione del 1918 a B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, p. XIV). Infine, Einaudi è un convinto federalista democratico, mentre Croce non si pronuncia nel merito.
Il dissenso teorico principale verte, però, sul rapporto fra liberalismo politico (e filosofico) e liberalismo economico, o liberismo.
Nel 1927 Croce critica gli economisti che attribuiscono al liberismo «valore di regola o legge suprema della vita sociale», trasformando il liberismo da legittimo «principio economico» in illegittima teoria etica (Liberismo e liberalismo, 1927, rist. in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, 19882, pp. 10-11). Queste considerazioni sembrano a Einaudi introdurre un elemento di vulnerabilità nella scienza economica, accusata di dipendere da una premessa extrascientifica come il liberismo. Con puntiglio, Einaudi ribatte che il liberismo non è un principio primo. E conferma la validità dell’approccio astrattivo-deduttivo dell’economia come scienza (L. Einaudi, Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra, «La riforma sociale», 1928, 39, pp. 501-16, rist. in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit.).
Sembrerebbe che le due posizioni fossero complementari più che contrapposte; e questa era anche l’impressione di Croce (cfr. B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., pp. 46-47). Invece, pochi anni dopo Croce riprende il discorso, confermando che la libertà empirica degli economisti non è né può essere la Libertà filosofica, dato che quest’ultima è un principio di carattere universale che non patisce qualificazioni di tempo o di luogo. Sul piano storico, Croce riconosce che la Libertà si è meglio realizzata nell’Ottocento, specie in Europa occidentale, producendo anche un certo liberismo, seppure «temperato» (forse perché un liberismo sfrenato sarebbe stato pregiudizievole a essa). Non sembra però interessato a cogliere un legame significativo fra i due fenomeni. Anche nel dopoguerra, in uno dei suoi ultimi interventi, egli ammette che «[…] nel corso del secolo decimo nono […] l’idea liberale si trova avvicinata e infine congiunta e fusa con l’idea economica del libero scambio», ma ribadisce che tale «fusione e unione in teoria deve essere negata» (Dieci conversazioni, 1993, p. 77).
Il seguito della discussione è sempre più nel segno di Einaudi. Croce – che sembra concentrarsi sul proprio ragionamento senza dare riconoscimenti al suo interlocutore, se non per lettera – trova nelle posizioni einaudiane la conferma che nessun economista, neppure quelli più dotati o più vicini alle sue posizioni, hanno o possono avere autentica mente filosofica. A Einaudi nel 1944 Croce assegna il compito di scrivere il programma per il rinato Partito liberale, «per dare ad esso concretezza non solo nel campo morale» – terreno che evidentemente riteneva di sua esclusiva spettanza – «ma anche in quello economico» (B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, cit., p. 105). Implicitamente, Croce intendeva attribuire uno spazio di autonomia intellettuale, predefinito e limitato, al più eminente economista italiano del tempo.
Sulla forma scientifica del materialismo storico, «Atti dell’Accademia Pontaniana», 1896 (rist. in Id., Materialismo storico ed economia marxistica. Saggi critici, Milano-Palermo 1900).
Per la interpetrazione e la critica di alcuni concetti del marxismo, «Atti dell’Accademia Pontaniana», 1897 (rist. in Id., Materialismo storico ed economia marxistica. Saggi critici, Milano-Palermo 1900).
Marxismo ed economia pura, «Rivista italiana di sociologia», 1899 (rist. in Id., Materialismo storico ed economia marxistica. Saggi critici, Milano-Palermo 1900, 19072).
Una obiezione alla legge marxistica della caduta del saggio di profitto, «Atti della Accademia Pontaniana», 1899 (rist. in Id., Materialismo storico ed economia marxistica. Saggi critici, Milano-Palermo 1900, 19072).
Materialismo storico ed economia marxistica. Saggi critici, Milano-Palermo 1900 (edd. accresciute 1907; Bari 1918, 1927, 1941; ed. critica a cura di M. Rascaglia, S. Zoppi Garampi, con nota al testo di P. Craveri, 2 voll., Napoli 2001).
Il giudizio economico e il giudizio tecnico. Osservazioni a una memoria del prof. Gobbi, «Atti dell’Accademia Pontaniana», 1901 (rist. in Id., Materialismo storico ed economia marxistica. Saggi critici, Milano-Palermo 1900).
Les études relatives à la théorie de l’histoire, en Italie, durant les quinze dernières années, «Revue de synthèse historique», dicembre 1902, 15 (rist. in Id., Primi saggi, Bari 1927).
Memorie della mia vita (1902), in appendice ad A. Labriola, Lettere a Benedetto Croce 1885-1904, Napoli 1975.
Filosofia della pratica. Economica ed etica, Bari 1909, 19233.
Contributo alla critica di me stesso, Napoli 1918 (rist. in Id., Filosofia, poesia, storia. Pagine tratte da tutte le opere, Milano-Napoli 1951).
Liberismo e liberalismo, «La critica», 1927 (rist. in B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, Milano-Napoli 1957, pp. 11-75).
Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Da lettere e ricordi personali (1937), in appendice ad A. Labriola, La concezione materialistica della storia, nuova ed. con un’aggiunta di B. Croce sulla critica del marxismo in Italia dal 1895 al 1900, Bari 1942.
Conversazioni critiche, serie I, Bari 19423.
Etica e politica, aggiuntovi il Contributo alla critica di me stesso, 3a ed. riveduta, Bari 1945.
Filosofia, poesia, storia. Pagine tratte da tutte le opere, Milano-Napoli 1951.
Dieci conversazioni con gli alunni dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, Bologna 1993.
Si veda inoltre:
B. Croce, L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P. Solari, con introduzione di G. Malagodi, Milano-Napoli 19882.
L. Einaudi, B. Croce, Carteggio (1902-1953), a cura di L. Firpo, Torino 1988.
J. A. Schumpeter, History of economic analysis, ed. E. Boody Schumpeter, New York-London 1954 (trad. it. nuova ed. con intr. di G. Lunghini, 3 voll., Torino 1990).
G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975.
P. Craveri, K.E. Lönne, G. Patrizi, Croce Benedetto, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 31° vol., Roma 1985, ad vocem.
L. Michelini, Idealismo e marginalismo. Lettere di Maffeo Pantaleoni a Benedetto Croce (1897-1924), «Il pensiero economico italiano», 1998, 2, pp. 9-37.
A. Montesano, Croce e la scienza economica, «Economia politica», 2003, 2, pp. 201-24.