CAGNOLI, Belmonte
Nacque nel 1565 (Tonini) a Montescudo, nel Riminese, da un ser Lorenzo.
Dopo gli studi di legge compiuti a Cesena, si installò a Padova, presso il vescovo Marco Cornaro, con un modesto ufficio, che abbandonò quando, presi gli ordini sacri, fu destinato ad esercitare il sacerdozio in Rimini. L'irrequietezza sembra essere stata la caratteristica più spiccata della sua vita: il ministero riminese non durò più di tre anni, dopo di che lo ritroviamo per breve tempo di nuovo a Padova presso il Cornaro. Di qui dovette andarsene, a suo dire, a causa di una nobildonna vanamente innamorata di lui, che, delusa, gli mosse contro i vendicativi fratelli. Fuggì a Roma, presumibilmente verso la fine del secolo, e qui ebbe qualche contatto con l'ambiente letterario: fu amico di G. V. Rossi, l'Eritreo - al quale si deve un profilo del C. piuttosto vivace e, nonostante le riserve, affettuoso, ma quanto mai avaro di date - e frequentò l'Accademia degli Umoristi dove recitò alcune sue composizioni. L'Eritreo cita una dissertazione De fretis aut de marinis aestibus e un'Orazione panegirica a s. Gregorio Magno, che si trova manoscritta nella Biblioteca Gambalunghiana di Rimini (segn. 4.G.IV.35). Di lui si ricordano numerosi scritti devoti, in versi e in prosa: alcuni vennero poi pubblicati a Venezia (La vita di s. Giuliano martire, 1622; La morte del peccatore, 1622; Le lagrime di s. Maria Maddalena, 1622; La vita del beato Lorenzo Giustiniano, 1624; Orazione di s. Antonio di Padova, 1627); altri restarono probabilmente inediti, e comunque risultano oggi introvabili; e sono una Vita di s. Alessio, i Cinque misteri del Rosario e rime su episodi della vita della Vergine. Una prosa, Semiramidi rivendicata dalle calunnie degli iniqui, apparve nel 1638 una prima volta ad Avignone e successivamente a Rimini, presso il Simbeni, nel 1639. Tre sonetti manoscritti sono a Pesaro, Bibl. Oliveriana, Ms. 885, n. 2. Manoscritti alla Grambalunghiana sono il Prontuario filosofico (4.H.V.27), il Cagnoli Horologium (4.C.I.21) e il testamento (4. G.IV-36).
A Venezia apparve l'opera di maggior impegno del C., il poema epico Di Aquilea distrutta libri XX.La prima ediz., dedicata alla Repubblica di Venezia, è del 1625, mentre del 1628 è la "seconda impressione corretta e migliorata in più di tre mille luoghi", dedicata a monsignor Ottavio Corsini.
La narrazione si apre nel terzo anno dell'assedio di Attila alla città d'Aquileia: gli Unni si preparano all'assalto decisivo favoriti anche dalla disunione delle forze cristiane, poiché né l'imperatore d'Oriente, né i vari eroi, né Gualtieri da Rimini che viene con tremilacinquecento cavalieri (ciò che permette al C. di descrivere la nobiltà riminese) hanno la volontà o la forza di rovesciare la situazione. Negli intenti del C. la vicenda dovrebbe avere infatti un significato provvidenziale: nel canto XVI s. Pietro appare a s. Leone papa e gli rivela il futuro: fallimento dei soccorsi, caduta e distruzione di Aquileia (narrate nel canto XX), desolazione delle città settentrionali. Da tante sventure però emergerà la preziosa realtà nuova di Venezia, alla quale è dedicato l'intero canto XVII. Questa è la parte di maggior interesse, almeno come testimonianza del mito veneziano, anche te, invero, nessuna impressione o nota evidente e scolpita emerge dall'opaca e verbosa esposizione. Anche se il C. continuò dopo il '28 l'opera di revisione (due esemplari da lui postillati sono alla Gambalunghiana, segn. 4. F.IV.8 e 4.F.III.30), tutto il poema è grigia opera di scuola, decorosa certo ma stanca e priva d'estro, viziata alla radice dalla velleitaria intenzione di gareggiare col Tasso. La stampa del 1628 si chiude con un elenco di quarantun ottave del poema che vengono affrontate ad ottave tassiane: espediente che cela forse il proposito di affermare una filiazione, o più probabilmente rivela l'impudente vanagloria dell'autore. Secondo la testimonianza dell'Eritreo, il C. era convinto che il suo nome fosse celebre in tutto il mondo; e atteggiamenti di questo genere gli procurarono la derisione, anche pubblica, nelle riunioni degli Umoristi: a questo proposito vanno rammentati alcuni aneddoti narrati dal suo biografo, che offrono un prezioso squarcio del costume accademico e letterario secentesco.
Anche le vicende, sempre irrequiete, degli ultimi anni sono assai confuse: il C. abbandonò Roma avendo ottenuto la cura della chiesa di Monte Tifi; e di qui si recò prima a Rimini poi alla nativa Montescudo, richiamatovi dalle liti familiari originate dalla spartizione di un'eredità. Ormai vecchio affrontò ancora una volta le brighe della corte vivendo per qualche tempo alle dipendenze del cardinale Guidi del Bagno, che lo aveva sotto la sua giurisdizione ecclesiastica, ma infine trovò più profittevole l'estremo ritorno alla patria, dove visse ancora per un anno.
Morì il 21 ag. 1639: così, sulla scorta di una scheda del Garampi, scrive il Tonini (II, p. 39), che corregge la data erronea (1646) testimoniata da una lapide apposta nel 1814.
Fonti e Bibl.: I. N. Eritrhaei [G. V. Rossi], Pinacotheca, I, Coloniae Agr. 1645, I, pp. 19-23; G. M. Crescimbeni, Ist. della volgar poesia, I, Venezia 1731, p. 376; G. Tiraboschi, St. della letter. ital., VIII, Venezia 1796, p. 447; C. Tonini, La coltura lett. e scient. in Rimini, Rimini 1884, I, pp. 327; II, pp. 11, 36-45; A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano s.d., pp. 285-87; B. Croce, Nuovi saggi sulla lett. ital. del Seicento, Bari 1931, p. 135; C. Jannaco, Il Seicento, Milano 1963, pp. 493 s.