CORENZIO, Belisario
Greco di origine - era infatti nato in Acaia nel 1558 -, giunto a Napoli nel 1570 c. (cfr. Ambrasi, 1962, p. 387), il C. godette presso i contemporanei e gli antichi biografi di una pessima fama: la colorita biografia dedicatagli dal De Dominici (1744) non gli risparmia, infatti, nefandezze e violenze di sorta, fino al più subdolo e perfido assassinio.
Tanto accanimento nei suoi confronti trae forse origine dal gran numero - indubbiamente sconcertante delle pitture eseguite dal Corenzio.
"Son tante le opere sue scriveva il De Dominici (p. 71) - che non par credibile aver potuto un solo artefice tante condurne a fine, che quattro solleciti dipintori appena potrebbero tutti insieme condurle". Una tale operosità sta ad indicare che il C. si era conquistato, nell'ambiente napoletano del tempo, una posizione d'indubbia egemonia; ed è del tutto probabile che tale egemonia il C. difendesse talvolta con metodi spicci e poco ortodossi (come anche i documenti ci confermano), alimentando, così, la nascita della leggenda di esser stato pittore privo di qualsiasi scrupolo, quando si trattava di eliminare scomodi concorrenti. Tant'è vero che, sempre secondo il De Dominici (p. 79), qualunque pittore volesse vivere tranquillo finiva per cedere volentieri al C. anche le proprie commissioni "per timore... di quell'uomo maligno, da per tutto conosciuto terribile, e facinoroso".
Di certo, però, in tutta questa sequela di accuse vi è solo quanto si ricava da un memoriale-supplica inviato dai deputati della cappella di S. Gennaro nel duomo di Napoli al viceré, il 1° giugno 1630 (Faraglia, 1885, p. 461): per affrescare la cappella, i deputati avevano, infatti, chiamato a Napoli G. Reni. Ma dopo che un suo servo era stato aggredito e ferito, il Reni, sdegnato e spaventato, aveva subito lasciato la città. L'aggressore, arrestato, aveva indicato come mandante il C. che però fu prosciolto ben presto dall'accusa per insufficienza di prove.
I deputati si erano allora rivolti al Domenichino, e subito erano partite alla volta del pittore emiliano lettere minatorie per scoraggiarlo ad accettare l'incarico. Ma la minaccia, che i deputati dichiarano di credere "sia stradagemma di alcun pittore", questa volta non sortì ad effetto e lo Zampieri eseguì gli affreschi. Non è comunque lecito inficiare tutta l'attività del C. con tali episodi. Certamente inventato dal biografo è il fosco episodio dell'avvelenamento del suo discepolo L. Rodriguez, della cui bravura il vecchio maestro sarebbe stato geloso. Come inesatto è il racconto della morte del C., salito ultraottantenne sui ponteggi, ad emendare degli errori notati da alcuni colleghi negli affreschi della chiesa di Ss. Severino e Sossio, e dal ponteggio precipitato.
Nel 1646, ad ottantotto anni, il pittore si era infatti ritirato in un paese del Frusinate, l'odierna Esperia, da dove testimonia in una delle tante liti tra i membri della Confraternita dei Ss. Pietro e Paolo dei Greci (di cui il C. era stato autorevole membro e priore) e i patroni della stessa, per la nomina del parroco.
In quest'occasione il pittore dichiarava di aver "habitato continuamente in la città di Napoli per lo spazio di settantasei anni in circa" (Ambrasi, 1962, p. 386).
Secondo la testimonianza del pittore (ibid., p. 387), egli era arrivato a Napoli a circa 12 anni; ciò fa cadere la notizia del De Dominici (p. 70) di un quinquennale apprendistato del C. presso il Tintoretto a Venezia. Con questa notizia il De Dominici inaugura una tradizione critica che avrà largo seguito negli studi sul C.: quella dell'affinità tra il maestro veneziano e il suo discepolo greco, divenuto "anch'egli pratico e risoluto nell'inventare; se bene non avesse quella parte erudita e nobile, che si vede nel Tintoretto, e massimamente nell'aria delle teste". Ma lo imitava comunque "nella facilità, dissinvoltura e felicità di comporre le storie copiose".
Anche se la notizia dell'apprendistato nella bottega del Tintoretto è solo una evidente forzatura del biografo, nondimeno il De Dominici coglieva esattamente, in quella, definizione di "facilità", "dissinvoltura" e "felicità di comporre le storie copiose" alcune delle caratteristiche essenziali dello stile del Corenzio.
Il paragone con un altro "copioso" e "felice" (ma più tardo) pittore napoletano viene subito alla mente; ed è proprio condotta sul registro del confronto con L. Giordano la più aspra stroncatura della pittura del C. che sia stata fatta (De Rinaldis, 1921). Secondo il De Rinaldis quella pittura non sarebbe altro che "sbavatura tintorettesca raggiustata e ammanierata sul romanismo vignettistico e stampato dal cavalier D'Arpino". "Ricco d'improntitudine", "invadente e lesto", il C. farà "dilagare i suoi colori lividi e terrosi su tutte le mura chiesastiche napoletane".
La posizione del De Rinaldis è comunque una voce abbastanza isolata nella storia critica del Corenzio. Anche i suoi più accaniti detrattori non mancarono di distinguere l'uomo dal pittore, tributandogli sempre, pur tra qualche riserva, i riconoscimenti che gli erano dovuti. C. D'Engenio Caracciolo (1623), suo contemporaneo, lo definì "illustre pittore napoletano, che di presente vive con molta sua lode". Il Celano (1692) ne apprezzava soprattutto le opere giovanili, sottintendendo che, "avido d'immortalità" come era allora, vi poneva il massimo impegno.
Il De Dominici stesso non gli lesina lodi, notando come molte sue pitture "possono stare al confronto di chi che sia valentuomo" e ammirandone la capacità compositiva delle affollate scene, in cui faceva mirabilmente "giocar l'aria da figura a figura". Anche se talvolta ne critica la mancanza di nobiltà e di decoro e la incapacità di dipingere le glorie paradisiache, nelle quali il C. finiva col porre delle "nuvole così dense, che paiono quei santi essere ne le tenebre del Limbo, e non già in Paradiso, ove tutto è splendore; e questa tinta egli tenne infelicemente quasi dovunque ebbe a dipingere i santi in gloria: laonde lodansi sempre più le sue storie, ove non ha parte la gloria". Sempre a detta del De Dominici (p. 104), infine, era questa mancanza di nobile decoro nella pittura del C. che aveva dettato a Massimo Stanzione la definizione di "pittore copioso ma non scelto".
In epoca moderna gli studi hanno tentato di chiarire un po' meglio (e sia pure solo per accenni fugaci e frettolosi, mancando sul C. uno studio sistematico e approfondito) il problema della sua formazione artistica e delle sue successive esperienze culturali. E' stato il Longhi (1957) a individuare, accanto ai tradizionali richiami al "fluido macchiettismo" del Cavalier d'Arpino e all'insegnamento tintorettesco (c'è da notare che fino alla pubblicazione, nel 1962 [Ambrasi], della già citata testimonianza del quasi novantenne C., la formazione veneziana del pittore poteva considerarsi se non probabile almeno possibile), anche una forte componente toscana; la tendenza al minuto raccontare, in chiave ormai "controriformata", del Poccetti e di Giovanni Balducci (che a Napoli operò dal 1596 al 1631), è ben presente anch'essa nelle intenzioni dell'instancabile "narratore" C.: anche se il suo racconto appare più "spiritoso" e frizzante, di un brio ancora tardomanieristico, piuttosto che nel segno dell'edulcorata semplicità dell'ideologia controriformata.
La componente toscana del C. risulta confermata dallo studio dei suoi disegni, condotto negli anni '60 per merito soprattutto del Vitzthum. Più recentemente Previtali (1972, 1978) ne coglieva i rapporti con la vasta area dei tardomanieristi fiamminghi presenti a Napoli quali Cornelis Smet, Teodoro d'Errico, Rinaldo Fiammingo, Aert Mytens.
I primi documenti sulla vastissima produzione del C. risalgono al 1590 (D'Addosio, 1913) quando il pittore aveva trentadue anni, e certo già una discreta attività alle spalle. Risparmiati dall'incendio che nel 1757 devastò la chiesa dell'Annunziata (dove, come dice il Celano, e ribadirà poi il De Dominici, "tutte le dipinture a fresco, così della cupola, come del coro, sono opera di Belisario Corenzio"), gli affreschi della sacrestia e della cappella del tesoro, documentati appunto al 1590, sono oggi scarsamente leggibili per i guasti e le ridipinture subite.
Non si può dire che le vicende del tempo siano state molto clementi nei riguardi dell'attività giovanile del C.: gli affreschi della cappella di S. Gennaro a S. Martirio (1591-92), che il De Dominici (p. 95) giudicava di grande qualità ("non potrebbero esser migliori nel disegno, nell'azione e nel colorito, essendo dipinte con forza e con grandissimo intendimento"), quarant'anni più tardi erano già stati ricoperti da Battistello Caracciolo; i dipinti nella chiesa di S. Paolo, l'opera del C. forse più lodata dagli antichi biografi ("forse la più bella che egli abbia fatto" diceva il canonico Celano), sono andati distrutti durante l'ultima guerra, come gli affreschi di Montecassino. Restano, a testimonianza dei suoi anni giovanili, e per quanto anch'essi in precarie condizioni di conservazione, le pitture, documentatissime, di S. Andrea delle Dame (Colombo, 1904, p. 109, docc. 1591-96).
Il C. lavorò all'affrescatura della chiesa a più riprese, tra il 1591 e il 1596, dipingendo il soffitto (pitture oggi scomparse) e molte altre storie, ancora esistenti, sulle pareti.
Tra il 1599 e il 1600dipingeva nell'atrio, nel cimitero delle monache, nei refettori. In queste prove giovanili il C. appare ancora fortemente legato alla più elegante e atteggiata poetica tardomanierista. Ma accanto alle pose sofisticate e un po' teatrali appare un'attenzione nuova verso un raccontare più piano e disteso, rivolto a cogliere minuti particolari: il braciere, per esempio, in cui vengono arroventati i ferri del Martirio di S. Agata.
Distrutto in gran parte anche il grande ciclo dipinto in Ss. Severino e Sossio, che il C. si era impegnato a dipingere "di sua propria mano assolutamente" (Faraglia, 1878, p. 244), restano, a giudicare della qualità e delle caratteristiche della sua pittura, i grandi cicli di affreschi del convento di Ss. Severino e Sossio (oggi Archivio di Stato), del Monte di pietà, della sala del capitolo a S. Martino.
Ancora negli affreschi (Episodi e Parabole del Vangelo) nella volta della sala capitolare a Ss. Severino e Sossio (il pagamento e del gennaio del 1608: D'Addosio, 1919, p. 386; il C. ha quindi dipinto negli ambienti del convento prima di intervenire sulla volta e le pareti della chiesa), accanto a tratti del più tradizionale manierismo (la scena del Buon samaritano è inserita in un paesaggio alla fiamminga, ispirato alle opere giovanili di P. Brill, i cui paesaggi erano ormai imitatissimi a Roma come a Napoli), emergono elementi di un realismo semplice e affettuoso, quasi "popolare". Così, l'animata vicenda del Cristo e l'adultera è ambientata in una severa chiesa tardocinquecentesca, e sopra il paralitico calato a raggiungere Cristo si dispiega un soffitto indagato con l'affettuosa attenzione di quegli instancabili narratori di storie sacre che rappresentano, forse, l'aspetto migliore della cultura della Controriforma in pittura.
Anche negli altri grandi cicli conservatici del C., gli affreschi nella volta del Monte di pietà e quelli di S. Martino, il fluido e brioso snodarsi del racconto, pieno di animazione, di effetti, di contrasti luminosi (si ritrovano negli affreschi del C. forse le più intense scene notturne dipinte in quegli anni a Napoli), si accompagna ad un più pacato e tranquillo indagare (e sia pure confinato piuttosto nell'ambito del particolare) nelle pieghe di un realismo quotidiano e dimesso, quasi umile. Ed è forse in questo felice congiungersi del brio, del "fuoco" manieristico con la quotidianità più minuta, col "sermo humilis" della pittura riformata, molto del fascino del Corenzio.
Gli affreschi del Monte di pietà sono del 1601. A S. Martino, invece, il C. lavorò a più riprese, praticamente per l'intero arco della sua attività artistica, dal 1591 al 1636, anno in cui ancora riceve dei pagamenti. Giovanili (e cioè a cavallo del secolo) sono anche le pitture del soffitto di S. Maria la Nova, mentre non si hanno notizie documentarie sui residui affreschi in S. Maria di Piedigrotta o sul ciclo, a tutt'oggi conservatoci, di Ss. Marcellino e Festo, che il Sobotka (in Thieme Becker) data attorno al 1630. Documentati sono invece quelli nella chiesa della Sapienza (D'Addosio, 1911, pp. 52 s.), che per la loro data (1639-1641: il C. è ormai più che ottantenne!) possono essere considerati come l'ultima opera del pittore.
Accanto alle vaste imprese chiesastiche, De Dominici ricorda vari lavori nei palazzi nobili napoletani: da quello Sansevero a quelli Carafa di Maddaloni, dei duchi di Airola, dei Caracciolo d'Avellino, fino a casa Massimo, a Barra, dove il C. dipinse storie degli antichi romani. I più noti di questi affreschi, raffiguranti le gesta di esponenti di casa Sangro, andarono perduti, nel 1895, nel crollo di un'ala del palazzo Sanseverino.
Impegnato in queste vastissime decorazioni, il C. tralasciò quasi completamente il campo delle pale d'altare; poche sono le pale citate dal De Dominici e poche quelle ancora esistenti; citiamo, tra tutte, l'Adorazione dei Magi ai Girolamini e le quattro tavole nell'Annunziata di Nola, dove il rapporto del C. con la contemporanea pittura dei fiamminghi a Napoli appare in effetti assai stretto.
Fonti e Bibl.: C. D'Engenio Caracciolo, Napoli sacra [1623], Napoli 1923, passim; Nota de' pittori, scult. et architettori... nella città e Regno di Napoli, a cura di G. Ceci, in Napoli nobilissima, VIII (1899), p. 164; P. Sarnelli, Guida de' forest. curiosi... di Napoli, Napoli 1688, passim; C.Celano, Notizie del bello... della città di Napoli, [1692], Napoli 1970, ad Indicem;B. De Dominici, Vite de' pittori, scultori ed archit. napoletani [1742-45], III, Napoli 1844, pp. 69-110; P. A. Orlandi, Abecedario pittorico... corretto e accresciuto da P. Guarienti, Venezia 1753, p. 94; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia, a cura di M. Capucci, I-III, Firenze 1968-74, ad Indicem;G. Galante, Breve descriz. della città di Napoli..., Napoli 1792, p. 247; A. Granito, Degli archivi napol., Napoli 1854, pp. 28 s.; A. Caravita, I codici e le arti a Montecassino,III, Montecassino 1870, p. 214; N. Faraglia, Memorie artist. della chiesa benedettina dei SS. Severino e Sossio di Napoli, in Arch. stor. per le provv. napol., III (1878), pp. 242-48; G . D'Addosio, Origine, vicende storiche e progressi della Real Casa dell'Annunziata, Napoli 1883, passim;N. Faraglia, Notizie di alcuni artisti che lavorarono nella chiesa di S. Martino e nel tesoro di S. Gennaro, in Arch. stor. per le provv., napol., X (1885), pp. 442, 452 s., 461; F. Bonazzi, Dei veri autori di alcuni dipinti della chiesa di S. Maria della Sapienza in Napoli, ibid., XIII (1888), pp. 120, 125; G. Filangieri di Satriano, Docum. per la storia, le arti e le industrie delle province napol., V, Napoli 1891, ad vocem;F. Colonna di Stigliano, La capp. Sansevero e Raimondo di Sangro, in Napoli nobilissima, s. 1, IV (1895), p. 34; G. Ceci, S. Marcellino, ibid., p. 123; L. Salazar, La fede di morte dello Spagnoletto ed altri documenti inediti, ibid., V (1896), p. 31; G. Ceci, La chiesa e la festa di Piedigrotta, ibid., p. 116; N. Faraglia, La sala del catasto onciaria nell'Arch. di Stato, ibid., VII (1898), pp. 85 ss.; M. Morelli-L. Conforti, La cappella del Monte di Pietà, Napoli 1899, pp. 25-33; A. Colombo, Il monastero e la chiesa di S. Maria della Sapienza, in Napoli nobilissima, s.1, XI (1902), p. 68; V.Spinazzola, La certosa di S. Martino, ibid., pp. 136, 161; Don Fastidio, Notizie ed osserv., ibid., XII (1903), pp. 30 s.; A. Colombo, S. Andrea delle Dame, ibid., XIII (1904), pp. 51 s., 109; G. D'Addosio, Illustraz. e docc. sulle cripte di S. Andrea in Amalfi e S. Matteo in Salerno, in Arch. stor. per le provv. napol., XXXIV (1909), pp. 19-48; Id., Documenti inediti di artisti napol..., ibid., XXXVIII (1913), pp. 47-53; XLIV (1919), pp. 386 s.; A. De Rinaldis, Per L. Giordano, in Napoli nobilissima, s. 2, II (1921), p. 162; A. Michel, Histoire de l'art..., a cura di A. Pératé, VI, Paris 1921-22, pp. 113 s.; S. Scotti, La chiesa di S. Paolo Maggiore in Napoli, Napoli 1922, p. 11; A. De Rinaldis, La pittura del Seicento nell'Italia merid., Firenze 1929, pp. I s.; B. Molaioli, Opere d'arte del Banco di Napoli: la cappella del Monte di Pietà, Napoli 1953, p. 19; F. Strazzullo, Il monastero e la chiesa dei SS. Marcellino e Festo, in Arch. stor. per le provv. napol., XXXV (1955), pp. 448 s.; R. Longhi, Unatraccia per Filippo Napoletano, in Paragone, VIII (1957), 95, pp. 40 s.; W. Vitzthum, NeapolitanSeicento Drawings in Florida, in The Burl. Magaz., CIII(1961), p. 313; Baroque Painters of Naples (catal.), Sarasota, Fla., 1961, p. 48; D. Ambrasi, Dati biogr. del pittore B.C., in Archivio stor. per leprovv. napol., LXXXI (1962), pp. 383-89; I. Mazzoleni, Il monastero benedettino dei Ss. Severinoe Sossio, Napoli 1964, ad Ind.;F. Stampfle-J. Bean, Drawings from New York Collections, II, The Seventeenth Century in Italy, Greenwich 1967, p. 27; C. Monbeig Goguel-W. Vitzthum Le dessin à Naples du XVIe ... au XVIIIe siècle (catal.), Paris 1967, pp. 5-8; W. Vitztbum-A.M. Petrioli, Cento disegni napol. dei secc. XVI-XVII (catal.), Firenze 1967, pp. 7 s., 14-17; S. Ortolani, Giacinto Gigante e la pittura di paesaggioa Napoli e in Italia dal 1600 all'800, Napoli 1970, ad Indicem; W. Vitzthum, Disegni napol. del Seie Settecento (catal.), Roma 1970, pp. 9 s.; F. Abbate-G. Previtali, La pitt. napol. del Cinquecento, in Storia di Napoli, V, Napoli 1972, pp. 880 ss.; R. Causa, L'arte nella certosa di S. Martino..., Cava dei Tirreni 1973, passim;M. Causa Picone, Disegni della Soc. napol. di storia Patria, Napoli 1974, ad Ind.; D. Graf, in Italien, Zeichnungen... (catal.), München 1977, pp. 134 s. (L'ArcangeloMichele sottomette i Turchi); G. Previtali, La pitt. del Cinquecento a Napoli e nel vicereame, Torino 1978, pp. 117 ss.; M. Roethlisberger, EuropeanDrawings from the Kitto Bible (catal.), San Marino, Cal., 1979, pp. 7 s.; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, VII, pp. 404-412; Encicl. Ital., XI, p. 391.