Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Béla Bartók, nato in Transilvania nel 1881 e morto in esilio negli Stati Uniti nel 1945, è uno dei principali costruttori della musica del XX secolo: al suo interno, si è distinto per come ha coniugato l’uscita dalla tonalità con componenti melodiche, armoniche, ritmiche e formali della musica popolare ungherese, assumendo una fisionomia culturale e linguistica decisamente nazionale. Nella sua carriera si possono distinguere una prima fase ispirata da Liszt e Richard Strauss, una successiva produzione nella quale si afferma il suo stile personale e, a partire dalla seconda metà degli anni Venti, il periodo della piena maturità artistica, nella quale gioca un ruolo centrale il ciclo Mikrokosmos.
La formazione di uno stile personale e nazionale
Nato a Nagyszentmiklós in Transilvania nel 1881, Béla Bartók ha mostrato assai presto le sue doti musicali, non solo come virtuoso del pianoforte, ma anche come precoce compositore.
In un primo tempo, egli pone la questione della ricerca di uno stile autenticamente ungherese attraverso la decostruzione della musica fino a quel momento dominante in Europa, riferendosi a Franz Liszt (1811-1886), ma contemporaneamente affrontando Claude Debussy (1862-1918) con intelligenza critica sempre mirata alla costruzione di una musica ungherese nuova. Su questa linea egli raccoglie e studia, insieme a Zóltan Kodály, il canto popolare magiaro, fondando l’etnomusicologia ungherese, studio che i due musicisti continueranno a sviluppare per tutta la loro vita: la loro scelta musicale li porta a riconcepire in senso democratico avanzato la cultura e la storia nazionali e ad aderire nel 1919 alla Repubblica dei Consigli di Béla Kun, collaborando attivamente con essa.
Quando Béla Kun viene rovesciato, Bartók subisce un crescente isolamento, che durante il regime fascista di Horty diventa vera e propria persecuzione, costringendolo, nel 1940, all’esilio negli Stati Uniti.
Cosciente delle contraddizioni di fondo, non solo musicali, del suo tempo, egli condivide, negli anni della sua formazione e affermazione di compositore, la posizione dei compositori, come Leós Janácek in Moravia e Boemia, Aleksandr Skriabin e Igor Stravinskij in Russia, e Gian Francesco Malipiero in Italia, che pongono la questione dell’identità musicale in senso nazionale, proseguendo l’emancipazione dal linguaggio dominante realizzata da autori ottocenteschi quali Musorgskij, Liszt o Smetana.
La specificità dell’itinerario del giovane Bartók dipende dal fatto che alle sue spalle ci sono i secoli – fra il Cinquecento e l’Ottocento del dominio turco e austro-imperiale – di assenza in Ungheria di ogni forma di attività musicale nazionale; solo nell’Ottocento, con Ferenk Erkel, vi era stata una rinascita musicale ungherese, segnata comunque dal tardo romanticismo germanico.
La prima fase della sua produzione (con composizioni quali il poema sinfonico Kossuth o il Concerto per violino n. 1) si ispira a Richard Strauss, a Ferruccio Busoni e a Liszt, in particolare alla sua Sonata in si minore per pianoforte non a caso dedicata nel 1853 a Robert Schumann, che gli aveva insegnato come non fosse concesso a chi pensa a una vera musica nazionale di restare sotto l’egemonia formale di un’altra cultura, continuando nell’equivoco di una musica di intenti nazionali legata al vecchio ordine musicale europeo.
A partire dall’opera Il castello di Barbablù, su libretto di Béla Balázs, del 1911, compaiono significative dissolvenze armoniche e timbriche di sapore debussyano, intelligentemente estranee a ogni sonora allusione impressionistica, mentre si sviluppano le anamorfiche atmosfere sonore di una nuova cultura musicale; per continuare con il celebre Allegro barbaro per pianoforte dello stesso 1911, dove l’evidente attenzione per lo Stravinskij “russo” non impedisce l’evolversi di una bartokiana fisionomia timbrica, ritmica e modale. In essa una delle componenti principali è costituita dall’assunzione della pentatonia, della poliritmia e del polimorfismo del canto contadino magiaro, che conferiscono al suo stile un senso distintivo, nazionale. Ma tale aspetto si confronta costantemente con le tecniche di emancipazione linguistica sviluppatesi contemporaneamente in Europa, determinando un’interrelazione nella quale la particolare musica nazionale di Bartók diventa parte di un significativo processo di riconcezione/rifondazione musicale generale: ne deriva che, nel corso della sua lunga carriera, egli potrà comporre anche fuori dall’esplicito riferimento nazionale, sempre però lavorando alla costruzione di una musica ungherese in tutti i sensi liberata dall’egemonia centroeuropea.
I primi due quartetti (1906 e 1915-1917), il balletto Il mandarino meraviglioso (1918-1919), le Sette danze popolari rumene per orchestra (1917, testimonianza dell’attenzione per canti popolari di altre culture), le Sonate per violino e per pianoforte (1921 e 1923) esemplificano quanto in un articolo del 1920 per “Melos” Bartók stesso scrive: “La musica dei nostri giorni mira risolutamente alla dimensione atonale”. Nella sua ottica, comunque, la partecipazione alla destrutturazione dei rapporti modali, intervallari, accordali e ritmici della tonalità, in atto nell’Europa dei primi decenni del Novecento, non ha per punto di partenza la crisi del linguaggio musicale dominante, bensì la rivendicazione di un’Ungheria emancipata dalle passate sottomissioni, anche musicali. Questo comportamento compositivo fornisce allora quello che Massimo Mila ha definito “un contributo prezioso alla riforma democratica della vita e dell’educazione musicali ungheresi”.
Mikrokosmos e le composizioni della maturità
Dalla metà degli anni Venti alla morte (avvenuta a New York, nel 1945, mentre nell’Ungheria liberata egli è stato eletto deputato all’Assemblea Costituente), Bartók compone alcuni dei suoi lavori più importanti, a cominciare dal gigantesco ciclo pianistico Mikrokosmos (1926-1939). Si tratta di un percorso articolato in 153 piccoli pezzi di significativa destinazione didattica, ma secondo un complesso progetto formativo e conoscitivo della musica contemporanea non solo bartokiana: dai primi brani, a misura degli studi pianistici iniziali, agli ultimi, dotati di massima complessità, si sviluppa un’educazione alla tecnica musicale che implica un cambiamento generale, linguistico, dei rapporti musicali, riempiendolo dei sostanziali problemi culturali, ideali e storici presenti nei mutamenti della musica colta. Viene così comunicato che le vecchie divisioni culturali stanno scomparendo e che un nuovo pensare e fare non solo la musica, ma l’intero reale, è possibile.
Accanto a Mikrokosmos vengono realizzati altri lavori altrettanto significativi nel proporre l’identità sonora ungherese come esempio della possibilità di ogni cultura musicale di sviluppare il proprio suono partecipando al cambiamento di fondo della musica occidentale sottratta all’idea e alla prassi dell’unicità del pensiero musicale: nella seconda metà degli anni Venti, caratterizzati da una rinnovata passione del compositore per la musica barocca, particolarmente significativi sono i quartetti per archi n. 3 e n. 4 (1927 e 1928), i concerti per pianoforte e orchestra n. 1 e n. 2 (1926 e 1930-1931), insieme a numerose altre composizioni per pianoforte che rinnovano profondamente il suo repertorio per tale strumento; seguono poi i quartetti per archi n. 5 e n. 6 (1934 e 1939), la Musica per archi, percussioni e celesta (1936), la Sonata per violino solo (1944), il Concerto per orchestra (1943), e prima di questi, nel 1930, la Cantata profana, ideata a partire da una leggenda popolare, trasparente allegoria politica di rivendicazione della libertà contro l’oppressione del governo Horty.
In essi, con l’unica eccezione del Concerto per orchestra, si attua un’atonalità fondata sull’estraneità modale e ritmica del canto popolare ungherese rispetto alla tonalità, in dissolvenza incrociata con l’atonalismo colto, in un confronto che giunge fino all’inserimento di riferimenti permutativi seriali. In tale prospettiva si inserisce una significativa riappropriazione dei dirompenti procedimenti variativi dell’ultimo Beethoven, che soprattutto nei quartetti n. 5 e 6 simboleggia l’immaginazione di come si sarebbe potuta configurare la storia musicale se, al posto dello “sviluppo”, da sempre da Bartók quanto mai lisztianamente negato come forma deterministica, conservatrice delle gerarchie culturali, si fosse seguita la strada rivoluzionaria delle procedure variative beethoveniane interrelate con la variante, assunta come struttura formale portante del canto popolare.