BECCUTI, Francesco, detto il Coppetta
Nacque a Perugia il venerdì santo del 1509 (come egli stesso dichiara nel sonetto "Oggi s'io ben raccolgo il giorno e l'ora") da Giovanni e da Vincenza di Ludovico Cenci.
La famiglia era nobile e imparentata con le principali casate perugine. Il padre del B. doveva essere uomo di cultura ed esperto nel disimpegno di cariche ufficiali: due volte fu tra i cinque "sapientes studii" (1508 e 1512) e nel 1513 fu console delle Arti; poi priore del Comune nell'ultimo trimestre del 1514 e nel secondo del 1522. Da questa data non si rintracciano più notizie riguardanti la sua carriera, ma visse sicuramente fino al 1535.
Poco si conosce sugli studi e la formazione intellettuale del Beccuti. A testimonianza di una buona cultura classica sono le rime e soprattutto le traduzioni da Ovidio, Virgilio, Orazio, Apuleio, che documentano una costante e assimilata pratica umanistica volta a una preparazione essenzialmente letteraria e non giuridica come vollero far intendere Ubaldo Bianchi, (che lo disse dottore in legge nella dedica alla sua edizione delle Rime) e il Cavallucci, propenso anche ad accettare la notizia secondo cui il B. avrebbe insegnato diritto presso lo Studio perugino.
Iscritto all'arte della Mercanzia, il B. fu priore del Comune per l'ultimo trimestre del 1528, poi ancora nel 1536, allorché fece parte di un collegio decenvirale costituito allo scopo di intervenire sulla legislazione delle Arti; fra le due date dovrà, con quasi assoluta certezza, collocarsi un lungo soggiorno a Roma dove il poeta conobbe Bernardo Cappello (e forse il Bembo), amò la cortigiana Ortensia, protagonista di due capitoli improntati a una vicenda che si direbbe reale, e menò vita di cortigiano, assai probabilmente al seguito di qualche ecclesiastico. Testimonianza del soggiorno romano, a parte le poesie in cui appare in maniera piùo meno diretta la presenza di Ortensia, è un sonetto in occasione della morte, di Ippolito de' Medici ove il B. maledice l'avvelenatore del munifico cardinale, e altre rime in cui manifesta il disprezzo per la vita di corte che accomuna l'esperienza del B. a quella di un altro perugino, contemporaneo e anch'egli per lungo tempo radicato alla corte romana, Cesare Caporali, al quale non dispiacerà l'impennata del capitolo a Bernardo Giusti ("Voi siete proprio nelle Corti un mostro, / E 'l riverso, l'antifrasi di tanti, / Vituperio e disnor del secol nostro").
Ad un viaggio in Toscana sembrano alludere le rime per un Alessi che il poeta avrebbe seguito a Firenze, cui si riferisce anche il sonetto "Quest'uno umil coi sette colli alteri". Altrove il poeta dichiara esplicitamente il suo amore per una gentildonna fiorentina per la quale compose i due sonetti "Qual ingegno è sì tardo, occhio sì losco" e "Fra cotante bellezze di ornamenti". Viaggio che sarà presumibilmente da collocare tra il 1536 e il 1543, anno in cui è di nuovo documentata la presenza del B. a Perugia, ove tuttavia dové soggiornare di preferenza almeno dal 1540, ché altrimenti non si spiegherebbero i frequenti richiami ai particolari della situazione cittadina durante la guerra del sale, e soprattutto il desiderio di chiarirsi una linea coerente nell'ambito di quegli avvenimenti.
Fra il 1540 e il 1543 dovette dunque farsi più puntuale l'intervento del B. nella vita politica del Comune, improntato ad una aperta polemica contro gli orientamenti antipapali dei Priori, perciò un periodo di più intensa partecipazione gli sarà riservato nel decennio successivo, quando, soppressa la magistratura dei Priori e sostituito ad essa il Consiglio dei conservatori dell'obbedienza ecclesiastica, il Comune si giovò del B. non più sporadicamente come si giovò di tutti coloro che come lui avevano mantenuto una posizione di dissidio durante la guerra della repubblica con Paolo III e proprio per questo avrebbero potuto svolgere un ruolo di proficua mediazione.
Nel quadro della riforma dell'amministrazione perugina voluta nel 1553 da Giulio III, che integrava definitivamente la città nello Stato pontificio e poneva fine ad ogni sua velleità autonomistica, appare motivata da una precisa scelta politica tutta la carriera del B., che già nell'anno 1543 era stato uno dei quattro consoli dei Camerari per assolvere successivamente le cariche di capitano del contado (1546), di delegato ai Monti di Pietà nei primi mesi dell'anno seguente, e poi di conservatore dell'obbedienza nel primo trimestre del 1548 e nel terzo del 1551. Per intercessione del cardinale Tiberio Crispo, legato di Perugia dal 1545 al 1548, il B. otteneva successivamente il governo di Sassoferrato, Casa Castalda e Norcia (l'anno stesso in cui morì era stato eletto governatore di Foligno), e intanto svolgeva un ruolo non secondario nell'ambito dell'Accademia perugina che fu organizzata dal Crispo sul modello delle riunioni romane e che riuscì a raccogliere, dal 1545 all'anno della morte del B., energie notevoli della cultura cittadina del tempo.
Familiari del B. e destinatari ideali delle sue rime, nella prospettiva di un sincretismo culturale di stampo tipicamente umanistico, furono in questo tempo Francesco Colombo, filosofo rinomato (tanto da meritare il soprannome di Platone dal cardinale Cervini), ma più celebre per certe puntate polemiche del B. contro la sodomia, Francesco Bigazzini, "rethor eloquentissimus et poeta magni nominis" (secondo la testimonianza dell'Oldoini), Ludovico Sensi, che aveva abbracciato già dal '40 le parti della politica pontificia e poi si dedicò alla poesia sacra, Vincenzo Menni, astronomo e traduttore di Virgilio e di Ovidio, il giureconsulto Ascanio Scotti e lo storico Pompeo Pellini, Giampaolo Lancellotti e Cinzio Clavari, che aveva seguito il Crispo da Roma. Le riunioni, che non avevano una sede fissa, né si svolgevano (almeno fino al 1546) secondo un ordine preciso nella scelta dei temi, sembra che procedessero sulla linea di un garbato e piacevole trattenimento (ove avrà brillato l'ispirazione giocosa e prudentemente irriverente del B.), ma non mancarono neppure gli spunti per discutere del "perfetto principe", o per parlare "dell'origine, e di tutti i progressi della Corte di Roma", motivi che il B. si affrettava immancabilmente a concludere con le lodi della politica farnesiana e del Crispo in particolare.
Del resto note di aperto elogio nei riguardi dei Farnese non sono rare nelle rime del B. che cantò il matrimonio di Ottavio con Margherita d'Austria, e quando, nel 1547, corse voce che Paolo III fosse venuto a Perugia per darla in signoria a Ottavio, indirizzò a quest'ultimo il sonetto "Tal già coperta di ruine, e d'erba". Per la morte improvvisa di Pier Luigi, il papa dové ripartire da Perugia senza averla ridotta a ducato farnesiano, ma il B. ugualmente immaginava che la città ringraziasse Paolo III, il quale, dopo averla vinta, intendeva ora farne il maggior obiettivo delle proprie cure (nell'ottava "Al gran nome d'Ottavio che rimembra"). Queste rime gli valsero probabilmente un notevole prestigio presso gli ambienti legati alla politica dei Farnese, e anche la piena fiducia dei concittadini quando, nel 1548, fu inviato ambasciatore, con Ludovico Sensi e Guglielmo Pontani, al cardinale di Urbino Giulio Della Rovere in procinto di recarsi a Perugia come legato pontificio. In occasione dell'ambasceria poté anche far personale esperienza di una tra le corti più eleganti e colte d'Italia, e anche in seguito, nella familiarità che lo legava al cardinale durante il soggiorno perugino, il poeta non fu avaro di lodi verso colui che aveva portato in Perugia il suo splendido mecenatismo proteggendo le arti e i letterati ("O dell'arbor di Giove altera verga").
Un'altra ambasceria sostenne il B. nel 1553, quando, dovendo i Perugini scegliere "virum probum" da inviare a Giulio III per perorare la causa delle fanciulle povere, scelsero non altri che il poeta "confisi prudentia, diligentia, et rerum agendarum experientia spectabilis viri Francisci Coppette, civis perusini". E intanto celebrava in un sonetto ("Monte che sovra i sette colli sorgi") la restituzione dei Priori fatta dal papa Del Monte, mentre in un altro ("Vero pastor che con veloce corso") elogiava il cardinale Fulvio della Corgna che aveva. ottenuto dal papa la concessione a favore dei Perugini.
Versi d'encomio dedicò ancora a un altro famoso personaggio della famiglia perugina: quella Laura della Corgna, nipote di Giulio III, destinata, nell'elogio del Ruscelli, a superare la Laura celebrata dal Petrarca. Per lei, lodata in vita come la più celebre Laura "il cui bel vanto / Par che si scemi appresso questa e scorni", il B. compose un'egloga che ne piangeva la morte ("Nel mese più nocivo ai nostri armenti / I dei, che irati forno / Più dell'usato, ci tolser quanto / D'onesto, e bel fu mai sotto la luna...". Né tralasciò di encomiare l'esemplare vedovanza della nipote del cardinale Cortese e sposa di G. B. Monti: "....Ersilia Cortese un tempo stata / Donna di Roma, ch'or va sì dimessa / In gonna vedovile".
Gli ultimi anni di vita furono senz'altro i più sereni del B., al riparo dai disagi dell'avventura cortigiana, ospite, sembra sempre molto gradito, dei della Corgna e familiare del cardinale legato, in relazione attiva con i letterati dell'accademia perugina che, se non fu apertissima alle correnti più vive della cultura, era capace di armonizzare tendenze e motivi diversi. A queste favorevoli condizioni si aggiungeva la tranquillità di una vita familiare raccolta, accanto a Camilla Alfani che il B. aveva sposato nel 1544(come testimonia un contratto rogato il 23 luglio di quell'anno tra Francesco di Giacomo Alfani e il poeta al quale il primo promette 1200 fiorini come dote della sorella). A lei il B. si rivolge in occasione della prossima maternità con un sonetto che è tra i più delicati frutti del canzoniere ("Quel caro nodo che ne lega insieme") e fa pensare alla gentile intimità di un Molza o di Bernardino Rota: "Lunga gioia sperar da un breve pianto, / E da un picciol sudor sì nobil pegno, / Sia del vostro patir dolce conforto". Questo "pegno" così ansiosamente atteso dal B. fu Giulio di cui le carte perugine ci parlano come di autorevole magistrato ed esperto negli affari del Comune: era probabilmente fratello di quel Baldino menzionato nel 1581 come vincitore di una giostra.
Non a lungo godé tuttavia il poeta gli agi di un ormai indiscusso prestigio letterario. Moriva il 19 ag. 1553, vittima dell'epidemia che colpì (stando al racconto del Pellini) quasi contemporaneamente molti soci dell'Accademia perugina. L'anno stesso della morte il B. era stato nominato console dei mercanti per il primo semestre, capitano del contado, per i primi quattro mesi, e governatore di Foligno.
Lodovico Sensi dettò l'epigrafe per la sepoltura (che avvenne nella cappella di S. Matteo in S. Francesco al Prato): "Francisco Coppettae Beccuto, ingenio manuque prompto, Musarum amico, multisque animi dotibus ornato". Prestando fede all'attestazione delle sue virtù militari (che il cronista Raffaele Sozi - citato da A. Salsa - conferma quando dice che "fu molto valoroso nella militia, et nel farsi spesse volte vedere a fronte co' nemici con l'arme in mano") si dovrà ammettere la partecipazione del poeta a qualche fatto d'armi durante il periodo 1528-36, come giustamente argomentava il Salza. Meno probabile sembra in occasione della guerra del sale.
Numerosissime le antologie di vari autori in cui apparvero le poesie del B.: il Vermiglioli ne annoverava diciotto e il Mazzuchelli un'altra decina, senza contare le poesie erroneamente attribuite ad altro autore, come avvenne per la canzone "Standomi sol" stampata nelle Piacevoli Rime del Caporali (Venezia 1589), oquelle che passarono sotto il nome del Tasso.
Raccolte per la prima volta, le poesie del B. apparvero postume a cura di Ubaldo Bianchi (Rime di M. Francesco Coppetta de' Beccuti perugino, In Venetia 1580)con dedica "all'illustre et valoroso Signor Marcio Porcelaga". L'edizione contiene centoventinove sonetti, quattro canzoni, quindici poesie in ottave, due sestine, due capitoli e quattro madrigali. Una stampa più ricca, anche se non esente da molti errori, curò Giacinto Vincioli (Rime di Francesco Coppetta, ed altri poeti perugini, Perugia 1720, pp. 33-171), ma la più importante fu la terza edizione stampata a Venezia dal Pitteri nel 1751: Rime di Francesco Beccuti perugino, detto il Coppetta in questa nuova edizione d'alcune altre inedite accresciute, e corrette, e di copiose note corredate da Vincenzo Cavallucci "all'eminentissimo principe Iacopo Cardinal Oddi vescovo di Viterbo".
Dopo l'edizione del Cavallucci si stamparono altre poesie dei B., sfuggite o volutamente escluse dalla stampa pitteriana: Saggi dirime di diversi autori dal sec.XIV al XVII, Firenze 1825; Rime del Coppetta che nelle felicissime nozze del nob. cav. e conte Giovanni de'Bernini colla nob. dama Isotta Buri la prima volta escono in luce, Verona 1830; Rime i poeti italiani del sec.XVI, Bologna 1830 (nella Scelta di curiosità letterarie, disp. 133, pp. 97-100); A. Salza, in appendice al lavoro su Francesco Coppetta de'Beccuti, poeta perugino del sec.XVI, in Giorn. stor. d. letter. ital., suppl. III(1900). Un'ottima edizione moderna si deve a E. Chiorboli (G. Guidiccioni-F, Coppetta Beccuti, Rime, Bari 1912).
Raramente s'incontra nel Cinquecento un canzoniere ove è possibile rintracciare e ricomporre, pur nei limiti di una produzione relativamente esigua, le principali linee direttive della poesia lirica. Dettò rime d'amore spirituale per una Lucia (alla quale forse si riferisce un gruppo cospicuo di versi giovanili) e cantò i trasporti omosessuali dietro lo schermo del mitico-Alessi; descrisse a Roma il "paradiso" d'amore che gli offrì la bellissima - Ortensia ("Ivi com'uom di troppa fretta entrai; / Ma tosto vidi, e con gli occhi asciutti, / Luogo di pianti e d'infiniti guai") e poi quello celeste durante i riposi nell'Accademia perugina (il sonetto "Locar sovra gli abissi i fondamenti" fu tra le poesie d'ispirazione religiosa più ammirate nel Cinquecento, fino al Tasso che ampiamente ne discusse nel dialogo La Cavalletta, ovvero della poesia toscana).Oltre alle traduzioni da Virgilio e da Orazio, alle rime giocose e ai capitolì berneschi (celebre quello del Noncovelle che il Caporali ricorderà sia negli Avvisi di Parnaso sia nelle Esequie di Mecenate ove il B. appare accanto al Bemi, cuoco di Parnaso "che fra le capricciose anime belle Seco aveva anche un mio vicin, ch, a volo Su l'ale si levò di Non covelle").
Questa produzione rappresenta forse l'aspetto più interessante del canzoniere, intessuta di reali esperienze maturate durante il soggiorno romano (ma già falsata in una prospettiva di indolente conformismo, idealmente equidistante dal sarcasmo dei Berni come dalla scrittura furbesca e pigramente allusIva del Caporali. SI che le poesie del B. si prestano, per una singolare coincidenza di cultura e di stile, a colmare il divario che esiste, nella prosecuzione di un medesimo genere letterario, tra la satira e il gioco, tra la poesia che costringe la tradizione nei limiti di un personale contenuto ironico e il dileggio che prelude alla vanità buffonesca dei poema eroicomico ove l'impegno controriformista si maschera dietro la malintesa letterarietà dell'autoderisione.
Del. resto già il Ponchiroli ha molto Opportunamente sottolineato lo stacco che esiste nel canzoniere del B. fra la produzione giovanile e le rime morali, religiòse, politiche composte nell'ultimo periodo della vita, improntate a una pensosità inconsueta che ricorda alla lontana la forte, e risentita espressività del Guidiccioni. Ma si direbbe che l'altemarsi dei modelli e il gioco, a volte abilissiino, delle mediazioni, e degli intarsi si articolino in ogni momento sul fondo di una prolungata e indifferente disponibilità letteraria, sì che la pretesa di un'ampia e disinvolta eloquenza come la disposizione per un tono raccolto, conciso, víbrato, si giustificano di volta in volta più come variazioni occasionali su un testo prescelto che come punti d'arrivo di una maturata esperienza espressiva. E valga per il primo caso l'esempio della canzone scritta per Giulio Della Rovere, per il secondo quello del sonetto "Amor n'ha posto come scoglio a l'onda" o dell'ottava "Sento squarciar del vecchio tempio il velo".
Anche dove è più sicuro lo studio di un particolare modello (che rimane quello petrarchesco per gran parte del canzoniere) si tratta assai frequentemente di rapide suggestioni circoscritte a singoli frammenti piuttosto che una ricerca costante di stile. "Tanto è vero - è giudizio molto acuto del Ponchiroli - che del Petrarca il Coppetta non assorbe che i lati più superficialmente appariscenti, tenendo inoltre al ridurre a semplici quadretti le sue intuizioni liriche". Un Petrarca che suggerisce all'artista di ottimo gusto la scelta di raffinate situazioni e consigiia l'uso di una lingua castigata e signorile, ma "non ancora un metodo di alta poesia" come fu per i maggiori petrarchisti del secolo. E questo permette di sottolineare un'altra caratteristica della poesia del perugino (o per lo meno di molte rime del periodo giovanile) che è la forte eredità della tradizione quattrocentesca, si tratti del gusto per i contrasti marcati a forti tinte che rivelano la continuità della lirica cortigiana, o della derivazione strambottistica dei versi d'encomio, giocosi, e sottilmente pervasi d'una ingenua sensualità.
Forse sono questi gli spunti più felici del B. ove la breve insistenza su un motivo erotico si equilibra agilmente in un fraseggio spigliato che sa di Catullo, di Virgilio, delle odi oraziane. Nell'ambito di una poesia letteraria, frutto a volte squisito di varie e ragginate sollecitazioni, i classici possono rappresentare il riferimento e il ritorno a una misura d'arte più congeniale; ed ecco il piccolo capolavoro dell'incompiuta Favola di Psiche, fiorita al margine del testo di Apuleio.
Bibl.: C. Crispoldi, Perugia augusta, Perugia 1648, p. 145; P. Pellini, Historia di Perugia, II, Venezia 1664, passim; A.Oldoini, Athenaeum augustum in quo Perusinorum scripta publice exponantur, Perusiae 1678, pp. 108 ss.; T. Garzoni, Piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venezia 1665, p. 683; G. M. Crescimbeni, Istoria della volgar Poesia, Roma 1698, pp. 124 ss.; V. Cavallucci, Vita di F. Beccuti, premessa alle Rime, Venezia 1751; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 601 ss.; G. B. Vermiglioli, Biografie degli scrittori perugini, e notizie delle opere loro, Perugia 1829, 1, pp. 338-343; 11, pp. 340 s., L. Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1860, II, Perugia 1875, pp. 316 ss.; F. Fiamini, Studi di letter. ital. e straniera, Livorno 1895, pp. 347 ss.; Id., Il Cinquecento, Milano s. d., pp. 204, 221, 228 s., 230, 399, 446; A. Salza, Spigolature coppettiane, in Giorn. stor. d. letter. ital., XLVI (1905), pp. 467 ss. (e dello stesso cfr. la recens. all'ediz. delle Rime curata dal Chiorboli, ibid. LXIII [1914], pp. 420 ss., oltre natural. al fondamentale saggio sul B.); E. Chiorboli, Di alcune questioni intorno alle rime del Coppetta, ibid., LXXV (1920), pp. 234-247; B. Croce, Poeti e scrittori del pieno e del tardo rinascimento, III, Bari 1952, ad Indicem; E. M. Fusco, La lirica, II, Milano 1950, pp. 252 ss.; Lirici del Cinquecento, a cura di D. Ponchiroli, Torino 1958, pp. 48 s., 227 ss.