BECCARIA DI ROBECCO, Castellino
Figlio primogenito di Musso di Manfredi, il B. nacque a Pavia intorno al 1365 da un ramo cadetto di una delle più nobili e potenti famiglie della città: suo bisnonno era Leodrisino di Musso, fratello di quel Castellino, che fu "principe" di Pavia dal 1348 al 1365.
Il B., che è noto nella tradizione storiografica locale anche come "Castellino il Giovane", non deve esser confuso con altri omonimi della sua stessa famiglia, vissuti a Pavia tra i secc. XIV e XV: Castellino il Vecchio, figlio di Fiorello di Musso Beccaria, e Castellino di Vistarino, figlio di Zannone.
Poco o nuua, allo stato attuale delle nostre conoscenze, ci è dato sapere circa la formazione, gli studi, la preparazione e la prima carriera politica del B. in questo scorcio del sec. XIV: a parte due citazioni, le fonti coeve tacciono sul suo conto. Possiamo tuttavia intuire che assai per tempo egli si dette alla vita pubblica, e con successo se, quando viene ricordato per la prima volta come podestà di Novara nel 1386, ci appare uomo di governo già noto e stimato; un'altra notizia a lui relativa ce lo mostra tra i sei "sindaci" dal Consiglio dei Duecento eletti e deputati a prestare, in nome della comunità pavese, il giuramento di fedeltà a Gian Galeazzo Visconti, in occasione della solenne investitura di quest'ultimo a conte di Pavia (3 febbr. 1397).
In pochi anni l'importanza politica del B. entro Pavia crebbe rapidamente: già agli inizi del Quattrocento egli (che era stato validamente aiutato nella sua affermazione politica dal fratello Lancellotto) ci appare come la più influente personalità di Pavia, tanto che l'imperatore d'Oriente, Emanuele Paleologo, quando dovette recarsi in Francia per cercare aiuti contro i Turchi, non ne disdegnò, passando per la città, l'ospitalità (marzo 1400).
Tra il 1400 e il 1403 il B. badò a rinforzare le basi della sua signoria - di fatto, se non nominale - sulla città e sul contado di Pavia, ribadendo con le armi la ormai tradizionale supremazia ghibellina sulla città e facendo tacere con la forza le opposizioni: è in questo quadro (anche se entrarono in giuoco altre motivazioni, non ultima la volontà di farsi amico Facino Cane, accontentando le richieste delle sue milizie) che vanno viste le sistematiche devastazioni cui il B., di conserva con le truppe viscontee, sottopose tra il 1402 ed il 1403 le terre guelfe dell'Oltrepò pavese.
Tuttavia fu soprattutto dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti (1402) che il B., inserendosi nella politica interna dello Stato milanese e giocando sulle rivalità personali e sulle ambizioni di alcuni dei Visconti, ebbe modo di dimostrare la sua abilità di politico e di far sentire il peso della propria forza: riuscì così non solo ad aumentare i possessi ereditari della sua casata, ma anche ad alleviare - se non svincolandola - la sua città dal peso dell'ormai opprimente tutela viscontea.
Consigliere influente del giovanissimo Filippo Maria Visconti (secondogenito di Gian Galeazzo e suo vicario in Pavia col titolo di conte), il B., rientrato in Pavia da Cremona - che aveva retto come podestà -, nel febbraio del 1404 fece arrestare e rinchiudere nelle segrete del castello di Pavia Manfredi Barbavara, che la duchessa Caterina, vedova di Gian Galeazzo, aveva inviato nella città come governatore e consigliere del conte. L'accusa era di alto tradimento; in realtà il Barbavara di null'altro era colpevole se non di aver cercato di porre un freno - come sempre avevano fatto sin'allora podestà e vicari e governatori inviati a Pavia dai signori di Milano - allo strapotere dei Beccaria e, in particolare, di aver tentato di sottrarre il giovane conte all'influenza di Castellino. Ad ogni modo quest'ultimo era riuscito non soloa far firmare a Filippo Maria il decreto d'arresto, ma anche aveva insinuato nel suo animo sospetti nei confronti dei maneggi della stessa duchessa. Il B. aveva inoltre accolto magnificamente in Pavia due cugini del giovane conte, Francesco ed Antonio Visconti, e con essi avevano trovato protezione e rifugio a Pavia numerosi esuli politici milanesi di parte ghibellina i quali, come i due Visconti, avevano dovuto abbandonare la loro città di fronte al regime di terrore instaurato a Milano dalla duchessa Caterina.
Quindi, allorquando il 16 marzo, all'indomani della fuga di Francesco Barbavara da Milano, fu stipulata una tregua fra le opposte fazioni milanesi, il B. giunse nella capitale lombarda ai primi d'aprile, nelle vesti d'inviato particolare del conte Filippo Maria presso il duca e fratello Giovanni Maria Visconti. Il B., ufficialmente, aveva il compito di trattare a nome del conte di Pavia le condizioni di pace tra il duca ed i suoi cugini, che avevano trovato rifugio a Pavia. E, difatti, riuscì a convincere Giovanni Maria a firmare il trattato relativo, in base al quale sarebbero potuti rientrare in Milano non solo Francesco ed Antonio Visconti, ma anche gli altri esuli ghibellini, tra cui gli Aliprandi (11 aprile). In realtà, con la sua venuta a Milano, il B. mirava a prendere saldamente in pugno le fila della resistenza ghibellina e ad assumere la guida del movimento di reazione antiguelfa, che egli effettivamente diresse e che si concluse col passaggio dei poteri dalle mani della duchessa Caterina e dei suoi principali fautori, i Barbavara, a quelle di Francesco ed Antonio Visconti, rientrati con gli altri esuli il 15 aprile.
Il B. aveva acquistato in quei mesi - come non mancarono di far notare i cronisti contemporanei - un tale ascendente sul duca di Milano da indurlo a scrivere (20 aprile) ai Savi di Pavia una lettera in cui esaltava la bontà e l'opportunità delle misure da lui prese nel periodo del suo soggiorno milanese (missive analoghe inviarono a Pavia anche il vicario ed i XII di Provvisione).
Francesco ed Antonio Visconti, dunque, grazie all'aiuto deciso del B., erano riusciti a risollevare le sorti della fazione ghibellina milanese: reso il duca un docile strumento nelle loro mani, essi si impadronirono, tra l'aprile e l'agosto del 1404, dei centri di potere del ducato, blandendo o stroncando gli avversari. Per rendere definitiva la loro conquista, tuttavia, e stabile il loro regime ci fu bisogno di un altro colpo di forza e di audacia; e per attuarlo essi ebbero ancora di nuovo bisogno del Beccaria.
Era tuttora libera e, per quanto la sua forza politica fosse notevolmente diminuita, pur sempre pericolosa, sia per il vasto seguito che ancora contava tra i Milanesi sia per la fedeltà a lei dimostrata da Pandolfo Malatesta, la duchessa Caterina. Fu così che il 18 agosto, insieme con Francesco Visconti, il B. penetrò nella rocca di Monza - complice lo stesso castellano, Giovanni Pusterla - catturando la duchessa. Pandolfo Malatesta, che quel giorno si era recato a Monza per un abboccamento con Caterina Visconti, riuscì a stento a salvarsi dalle mani del B., nonostante avesse portato con sé duecento armati.
Tra il 1404 e il 1408 le fortune politiche e militari del B. raggiunsero il loro apogeo: amico e protettore più che alleato dei signori di fatto del ducato di Milano (che erano a lui legati oltre che da riconoscenza, anche da un'identità di vedute e di fini), consigliere ascoltato del giovane Filippo Maria, governatore in suo nome di Pavia, arbitro della vita pubblica della sua città e potente come mai nessuno della sua famiglia era stato prima di lui, anche esteriormente il B. volle oscurare col suo prestigio quello del figlio di Gian Galeazzo Visconti, menando vita splendida e fastosa, occupando da padrone il castello di Pavia. E quando, il 30 maggio 1405, vennero insieme battezzati un suo figlio ed un suo nipote (figlio di Lancellotto), alla cerimonia intervennero, oltre ai padrini - che furono Pietro Filargo, arcivescovo di Milano (il futuro papa Alessandro V), il marchese Teodoro II del Monferrato e Francesco Visconti ben duecento nobili convenuti dalla città e dal distretto di Pavia; ed oltre mille furono i convitati.
Infine, nel gennaio del 1406, anche per premiarlo dei buoni servigi resi da lui e dai suoi soldati nella guerra piemontese del 1405, il duca Giovanni Maria Visconti gli concedeva in feudo Voghera.
Nonostante il solenne riconoscimento conseguito nel 1406, i rapporti tra il duca di Milano e il B., forse proprio per la grande potenza da questo raggiunta, si andarono successivamente raffreddando. La situazione precipitò allorché, scoppiata la guerra tra il duca e Carlo Malatesta da un lato, Francesco e Alessandro Visconti e gli antichi condottieri viscontei (tra cui Facino Cane, Iacopo dal Verme, Pandolfo Malatesta) dall'altro, il B. si schierò per questi ultimi. Fu per questo che, dopo l'occupazione di Piacenza da parte delle milizie milanesi, il B. si indusse a troncare i suoi dissidi privati con le potenti consorterie piacentine degli Scotti, degli Arcelli e dei Fontana, dissidi provocati da rivendicazioni territoriali reciproche e che periodicamente sfociavano in conflitti privati tra le quattro famiglie. Il B. firmò dunque il 12 febbr. 1407 la tregua con gli Scotti ed i Fontana, il 17, sotto l'incalzare degli avvenimenti (occupazione di Milano da parte di Facino Cane, sua collusione col duca e conseguente rovesciamento dei fronti), quella con gli Arcelli. Quindi, in seguito alla rotta patita a Binasco da Facino Cane, il B., che dopo il capovolgimento dei fronti gli era rimasto alleato, si ritirò precipitosamente coi suoi su Alessandria (dove aveva possedimenti privati), inseguito dalle milizie di Iacopo dal Verme (22 febbraio). Rinforzate le sue soldatesche con nuovi contingenti, il B. si prese, il 3 marzo successivo, la rivincita sul dal Verme. Con il 1408, però, la sua politica trovò sempre maggiori ostacoli, sia per il verificarsi di fatti nuovi, sia perché intervennero, nelle vicende del ducato visconteo, altre potenze, bramose di sfruttare il momentaneo vuoto di potere che si era creato in Lombardia. Il B. cercò di mantenere una certa indipendenza e libertà d'azione parteggiando ora per Facino Cane, ora per i Visconti, ma finì col compromettere le sue fortune politiche con l'ambiguità della sua condotta. Fin dai primi di gennaio del 1408 la posizione della consorteria dei Beccaria nella stessa Pavia era stata indebolita sia dal progressivo raffreddarsi dell'atteggiamento dei Visconti nei loro confronti (nonostante una passeggera intesa, stipulata il 6 maggio), sia da un rafforzamento della fazione guelfa. Nell'affannosa ricerca di nuovi alleati il B. giunse a riconciliarsi con i plurisecolari nemici Langosco (16 maggio 1408).
Si era intanto verificato un fatto nuovo: Facino Cane, che teneva praticamente Milano alla sua mercé, aveva organizzato una lega contro Giovanni Maria, duca di Milano, e contro lo stesso Filippo Maria, conte di Pavia. A questi ultimi, spinti da ragioni politiche diverse, ma soprattutto per contrastare la pericolosa egemonia militare di Facino Cane e degli altri tiranni locali di Lombardia, si erano collegati il Conte Amedeo VIII di Savoia, il maresciallo Boucicaut, governatore di Genova in nome del re di Francia, il principe Ludovico d'Acaia ed il governatore di Asti, Bernardone Britanno. La scelta del B. fu relativamente facile, quella cui lo portava la sua più recente azione politica: fu così che, nel marzo 1409, abbandonando il conte di Pavia, scendeva in campo a fianco di Facino Cane. Un editto di Filippo Maria Visconti dichiarò il B. e il fratello Lancellotto rei di fellonia, ordinando agli abitanti della città di Pavia di dipingere sulle porte delle loro case le effigi del B. e del fratello appiccati per i piedi.
Alla riconciliazione di Facino Cane coi Visconti (novembre 1409) seguirono ben presto anche quelle del B. e del fratello Lancellotto; ma, divenuti alquanto tesi i rapporti tra i due eredi di Gian Galeazzo e d'altra parte cominciando il diciottenne conte di Pavia a dimostrare una certa insofferenza nei confronti della pesante tutela su di lui tuttora esercitata dal B., questi non esitò ad offrire a Facino Cane, in cambio di Voghera, Pontecurone e Silvano, tutto il suo appoggio e quello della sua fazione per la conquista di Pavia progettata dal condottiero. A stornare il grave pericolo di una secessione o di un nuovo tradimento del B., Filippo Maria si affrettò ad investire quest'ultimo della contea di Voghera, affidandogli inoltre in Pavia la custodia delle Rocchette del Ponte Ticino e di quelle di porta Pertusi col ponte sul GravelIone. Non bastò. Il 24 dic. 1410 il B., d'accordo col fratello Lancellotto (che comandava il presidio della cittadella di Pavia), aprì segretamente un varco delle mura della città presso le Rocchette (secondo la testimonianza di molti cronisti contemporanei), attraverso il quale Facino Cane, alla testa di 1000 guastatori penetrò nella città, mettendola a sacco. Quanto al B., egli dovette riuscire a nascondere il suo tradimento dato che il 16 genn. 1411 stipulava un trattato d'amicizia coi Visconti, trattato nel quale gli venivano ancora riconosciuti i titoli di governatore e di consigliere di Filippo Maria Visconti; ed a Filippo Maria il B. dovette in quest'anno il dono del feudo di Bassignana.
In realtà questa tregua (la "pace del 16 gennaio" di alcuni cronisti) altro non è che una "grida" del duca Giovanni Maria, il quale, falsificando e sottacendo la realtà storica dell'assedio e della presa per tradimento di Pavia, annunziò pubblicamente che suo fratello era "volentieri" sceso a patti con lui, Giovanni Maria, con Facino Cane, suo capitano generale, e con i Beccaria per ristabilire l'armonia... dalla sua giovanile inesperienza incautamente turbata e in Pavia (non più seguendo il consiglio del B.) e nei confronti della stessa Milano.
Il 15 maggio il B. sottoscrisse una nuova tregua con gli Arcelli, e quando, alla morte contemporanea di Giovanni Maria Visconti e di Facino Cane, Filippo Maria si proclamò il solo legittimo erede del ducato di Milano, come figlio, di Gian Galeazzo, e dei possessi e delle ricchezze di Facino Cane, come marito della vedova del condottiero, e si scagliò quindi contro Estorre Visconti, un discendente di Barnabò, che si era impadronito di Milano, il B. si buttò dalla parte di Filippo Maria. Fu così che, sul finire di quello stesso mese di maggio, vediamo il B. fra i capi dell'esercito del conte di Pavia, insieme con il fratello Lancellotto. Egli fu anzi il primo a penetrare nella città assediata, impadronendosi con le sue truppe del castello di Porta Giovia (16 giugno 1412).
Il 19 luglio Filippo Maria Visconti premiava il valore dimostrato dal B., investendolo di una contea formata da città e luoghi sottratti alla giurisdizione del Comune di Pavia: Voghera, Serravalle, Molendino di Ponzano, Nazzano, Retorbido, Casal Noceto, Lomello, Garlasco e Civalegna; il duca gli concesse, inoltre, di poter inquartare nella sua impresa la vipera viscontea. Il B., dopo questo solenne riconoscimento, continuò a militare a fianco di Filippo Maria nella guerra contro Estorre Visconti, partecipando alle operazioni d'assedio delle città di Canturio e di Monza, finché, caduta quest'ultima (2 maggio 1413), rientrò a Pavia. Ed a Pavia egli avrebbe incontrato tragica morte.
Scopertasi, nell'ottobre di quello stesso anno, una sua trama con Pandolfo Malatesta ai danni di Filippo Maria, il B. venne arrestato ed incarcerato dal castellano visconteo di Pavia, Niccolò Sarratico. Fu giustiziato per ordine di quest'ultimo, probabilmente il 13 ottobre, con un colpo d'ascia. Il suo cadavere fu gettato in un pozzo: le spoglie del padre sarebbero tornate ai figli solo il 10 settembre dell'anno 1417.
Oggetto di grosse polemiche e perplessità furono la cronologia e le circostanze in cui sarebbe avvenuta la morte del B., a causa di una notizia, riportata del resto da più fonti, secondo la quale egli, nei primi giorni di novembre di quello stesso anno 1413, sarebbe stato uno dei capitani che avrebbero scortato a Cantù il nuovo duca di Milano per l'abboccamento col re dei Romani Sigismondo (come mostra di ritenere anche il Cognasso nel VI volume della Storia di Milano, p. 169, in contraddizione, tuttavia, con quanto è scritto, a p. 171, ove sembra invece che si accetti la data del 13 ott. 1413 per la morte del Beccaria). La notizia del viaggio del B. a Cantù nel novembre del 1413 comporta lo spostamento di ben due anni più in là della sua data di morte, che dovrebbe pertanto cadere nel 1415. Tuttavia, poiché anche inequivocabili testimonianze documentarie stanno a testimoniare che il B. morì effettivamente nell'ottobre del 1413, e di morte violenta, non resta che concludere col Romano (p. 75 n. 2) che si tratti di un "manifesto abbaglio" di alcuni storici (Sanuto e Corio).
Morendo, il B. lasciò, oltre a sua moglie Felicina Aviardi dei conti di Rubiera ed una figlia sposata a Pietro dal Verme, ben quattro figli maschi - Antonio, Lancellotto, Manfredi e Matteo -, di cui si prese cura il fratello Lancellotto.
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