beatitudine (beatitudo)
Il termine è usato da D., conformemente al termine latino beatitudo, per indicare lo stato di felicità più o meno perfetta, che angeli e beati godono nella contemplazione e partecipazione alla b. divina, ovvero per designare lo stato di felicità raggiunto dall'uomo nella vita terrena.
In Cv II IV 9-11 D. svolge una dimostrazione (per affermare che oltre alle intelligenze motrici ve ne sono altre che non hanno questo compito) basata sulla distinzione tra b. della vita attiva o civile e b. della vita contemplativa: Nessuno dubita... ch'elle [le intelligenze separate] non siano piene di tutta beatitudine, o tutte o la maggior parte, e che quelle beate non siano in perfettissimo stato. Onde, con ciò sia cosa che... l'umana natura non pur una beatitudine abbia, ma due... de la vita civile, e... de la contemplativa, inrazionale sarebbe se noi vedemo quelle avere la beatitudine de la vita attiva, cioè civile, nel governare del mondo, e non... de la contemplativa, la quale è più eccellente e più divina. E con ciò sia cosa che quella che ha la beatitudine del governare non possa l'altra avere... conviene essere altre fuori di questo ministerio che solamente vivano speculando. La distinzione tra b. della vita attiva e contemplativa nell'uomo è quella affermata da Aristotele nell'Etica (X 7-9) secondo cui la felicità della vita civile - che consiste nel governare la città - è inferiore a quella derivante dalla vita contemplativa. La quale ultima è più eccellente e più divina o, come dice Aristotele, " Talis utique melior erit vita ad humanam. Non secundum quod homo est sic vivit, sed secundum quod divinum aliquod in ipso existit " (Eth. X 7, 1177b 26-28), in quanto essa è " eorum quae in nobis divinissimum " (1177a 16). Notevole è l'attribuzione della divisione aristotelica della b. umana alla gerarchia delle intelligenze celesti, che D. poteva trovare in Averroè (Metaph. XII, comm. 44) dove è espresso il concetto del governo universale ricalcato sugli schemi della politica aristotelica. Le intelligenze motrici godono della b. della vita attiva, in quanto governatrici del mondo, ma è loro preclusa la più alta b. della vita contemplativa. Ciò perché lo intelletto loro è uno e perpetuo (§ 10) e non può quindi mutare per assurgere allo stato beatifico della contemplazione. Questo è riservato alle altre intelligenze separate, la cui esistenza D. deduce col ragionamento di Cv II IV 12.
In IV XVII 9, D. si rifà espressamente alla dottrina aristotelica delle due felicità umane: l'una è la vita attiva, e l'altra la contemplativa; la quale... ne mena ad ottima felicitade e beatitudine, secondo che pruova lo Filosofo nel decimo de l'Etica, dove si dimostra che la piena attuazione dell'essenza umana consiste nell'esercizio delle virtù speculative in cui risiede la perfetta b. (Eth X 7 ss.). Della duplice b. umana D. torna a dire in Cv IV XXII, parlando del doppio uso dell'animo, cioè pratico e speculativo, il primo consistente nell'operare secondo le virtù morali e il secondo nel considerare l'opere di Dio e de la natura. E questo [come] quell'altro è nostra beatitudine e somma felicitade (§ 11; cfr. § 9). Di questi due usi il più pieno di beatitudine è quello speculativo, lo quale sanza mistura alcuna è uso de la nostra nobilissima parte, cioè lo 'ntelletto (§ 13). Per D., cioè, l'attività speculativa realizza la perfetta b. umana, in quanto la filosofia (che è l'atto speculativo per eccellenza, disciolto da qualsiasi legame materiale) realizza - in questa vita - il pieno soddisfacimento del desiderio naturale di sapere; la filosofia, dice D. (III XIII 2), è beatitudine de lo 'ntelletto. Ma la b. così ottenuta è limitata, in quanto l'attività speculativa in questa vita perfettamente lo suo uso avere non puote - lo quale [è ved]ere [in s]é Iddio ch'è sommo intelligibile -, se non in quanto considera lui e mira lui per li suoi effetti (IV XXII 13). La perfezione dell'uso speculativo e della conseguente b. terrena è quindi limitata al piano della ‛ ragione naturale ' che vede Iddio non in sé ma nei suoi effetti. Questa b. che noi domandiamo... per somma (§ 14) è quella indicata dai Vangeli e consiste nella contemplazione di Dio. Cosicché, a quel modo che le tre Marie del Vangelo di Marco (16, 1 ss.) andarono al sepolcro di Cristo senza trovarvelo; così le tre sette de la vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di corruttibili cose, e domandono lo Salvatore, cioè la beatitudine.., non la truovano (§ 15). Le tre sette, ignorando il cristianesimo, hanno cercato la b. nel mondo presente, al modo di qualunque va cercando beatitudine ne la vita attiva, che non è qui, ma l'angelo di Dio disse che Cristo in Galilea li precederà: cioè che la beatitudine precederà noi in Galilea, cioè ne la speculazione (§ 16), e aggiunge D.: E dice: ‛ Elli precederà '; e non dice: ‛ Elli sarà con voi '; a dare a intendere che ne la nostra contemplazione Dio sempre precede, né mai lui giugnere potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma (§ 17). La b. di cui parla qui D. è la somma, quella cioè derivante dalla contemplazione di Dio che non si può raggiungere qui. I tre gradi della b. sono esplicitamente delineati da D. (§ 18): E così appare che nostra beatitudine... prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite e dirittissime a menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere, come appare pur per quello che detto è Le prime due b. sono l'una imperfetta e l'altra perfetta ‛ quasi ', cioè limitatamente, in quanto la prima non è perfetta se comparata alla seconda e la seconda poco meno che tale se comparata alla somma beatitudine.
In Cv III XV 2-3, D. parla delle dimostrazioni e delle persuasioni della Sapienza, nelle quali si sente quel piacere altissimo di beatitudine, lo quale è massimo in Paradiso (§ 2). La Sapienza è quella che concede alla mente umana la forma più alta di piacere ottenibile in terra che è la perfezione della ragione: Questo piacere in altra cosa di qua giuso essere non può [se non nella Sapienza]... E la ragione è questa: che, con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione, sanza quella essere non può [l'uomo] contento, che è essere beato; ché quantunque l'altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio; lo quale essere non può con la beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa e lo desiderio sia cosa defettiva; ché nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è manifesto difetto. E in questo sguardo solamente l'umana perfezione s'acquista, cioè la perfezione de la ragione (§ 3).
Della b. di questa vita distinta da quella eterna D. parla in modo ben più esplicito e radicale nella Monarchia. Per lui, cioè, il desiderio naturale di sapere è interamente appagato - entro i limiti della ragione umana e in questa vita - dalla filosofia. E in ciò risiede la piena e perfetta b. umana che a quel desiderio è commisurata (cfr. Cv III XV 7-10). L'altra b., distinta dalla prima, consistente nella fruizione della visione di Dio, è la b. della vita eterna. Alla prima si perviene mediante i phylosophica documenta, alla seconda mediante i documenta spiritualia. Dice appunto D. (Mn III XV 7-8): Duos igitur fines providentia... homini proposuit intendendos: beatitudinem scilicet huius vitae, quae in operatione propriae virtutis consistit et per terrestrem paradisum figuratur; et beatitudinem vitae aecternae, quae consistit in fruitione divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, visi lumine divino adiuta, quae per paradisum coelestem intelligi datur. Ad has... beatitudines... per diversa media venire oportet... ad primam per phylosophica documenta... ad secundam vero per documenta spiritualia quae humanam rationem transcendunt. Le due b. alle quali l'uomo perviene con mezzi differenti competono la prima (huius vitae) all'ordine naturale e la seconda (vitae aecternae) a quello soprannaturale che l'altro trascende. Della b. umana D. aveva detto che la condizione migliore del suo verificarsi è la pace universale: Unde manifestum est quod pax universalis est optimum eorum quae ad nostram beatitudinem ordinantur (Mn I IV 2). Il termine latino ricorre ancora in Ep XIII 89 (due volte, nel senso di b. celeste) e Vn II 5, per indicare la persona fonte di essa. Per tutto quanto precede cfr. B. Nardi, Dal Convivio alla Commedia, Roma 1960, 37-313 passim.
Preannunciato da un'espressione in fine di Monarchia (cum mortalis ista felicitas quodammodo ad inmortalem felicitalem ordinetur, III XV 17) D., nella Commedia, riafferma il principio dell'eccellenza della b. celeste cui è subordinata la b. terrena che ad essa prepara. La naturale sete di sapere, lungi dall'acquetarsi nella speculazione filosofica, trova il suo appagamento nella visione di Dio-Verità nel Paradiso (cfr. Pd XXVIII 106-108 e dei saper che tutti hanno diletto / quanto la sua veduta si profonda / nel vero in che si queta ogne intelletto). A una prima spiegazione della b. delle anime beate di Cv III XV 10, secondo cui il desiderio loro è commisurato alla sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiugne lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è con la bontà de la natura misurato, D. sostituisce in Pd III 64-90 il concetto della conformità della volontà umana a quella divina in un rapporto di caritas che presuppone la perfetta adeguazione della volontà del beato a quella di Dio, realizzando così la comunione dei santi.
Nella Vita Nuova il termine denota in genere l'intensa felicità di D. innamorato di Beatrice, la quale è di per sé, come ben dice il nome, fonte di b.: io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine (V 1); l'andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l'angoscia che lo cuore sentia, però ch'io mi dilungava de la mia beatitudine (IX 2); questo stato di grazia si verifica in particolare quando egli può godere della vista dell'amata e riceverne il saluto, o parlare di lei: mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine (III 1); lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna... e in quello dimorava la beatitudine (XVIII 4; e ancora X 2, XI 3 e 4, XII 1); è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna (XVIII 8).
Il significato del vocabolo è più generico in XVIII 4 lo mio segnore Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno, e 6 Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sta questa tua beatitudine, nonostante che anche qui D. consideri la felicità somma il dire le lodi di Beatrice.
Con la forma latina beatitudo (Pd XVIII 112), unico esempio che della parola si ha in tutta la Commedia, usando l'astratto per il concreto D. indica collettivamente la schiera delle anime beate dei giusti che viene a completare la figura araldica dell'aquila, disponendosi nel luogo e in forma della sua testa. In Cv III XV 18 die de la beatitudine traduce il perfectam diem di Prov. 4, 18.