GUARINI, Battista
Discendente da una famiglia di illustri letterati che vantava le sue origini da Guarino Veronese, nacque a Ferrara nel 1538 da Francesco e Orsina Macchiavelli.
Al prozio Alessandro, segretario dei duchi Alfonso I ed Ercole II d'Este e professore di eloquenza nello Studio cittadino, il G. riconobbe nella premessa all'Oratio ad serenissimum Venetiarum principem Petrum Lauretanum, stampata nel 1568, il merito del suo primo apprendistato umanistico compiuto nell'ambito del cursus tradizionale e sotto il patrocinio del cardinale Ippolito d'Este. Non è invece possibile stabilire con certezza gli anni del soggiorno presso l'Università patavina, ove il G. si recò per completare la formazione giuridica e forse anche filosofica; di ritorno a Ferrara già nel 1557 assunse, morto Alessandro, l'incarico di professore di retorica e poetica nell'Archiginnasio. Nebulose si presentano pure per questa primissima fase padovana del G. le frequentazioni intellettuali e i maestri che influirono sulla sua maturazione, ma è verosimile che non restasse estraneo al clima di accese polemiche letterarie insorte in quegli anni tra F. Robortello e C. Sigonio (allora professore a Venezia), che infiammarono l'ambiente dello Studio patavino.
Intrecciati rapporti sempre più stretti con la corte estense, anche in virtù del matrimonio celebrato con Taddea Bendidio, imparentata con le nobili casate dei Rossetti e dei Bentivoglio, il G. prese a cimentarsi con la poesia, riscuotendo consensi già dagli anni Sessanta, anche se la sua produzione rimase per allora legata a un'ispirazione occasionale, come testimonia lo scambio di lettere e sonetti che intrattenne nel 1563 con Annibal Caro (B. Guarini, Lettere familiari, Padova 1734, pp. 362-364). A consacrare la fama dell'esordiente lirico giunse l'anno successivo la prima vera esperienza di un qualche rilievo: la partecipazione, su invito di Scipione Gonzaga, all'Accademia patavina degli Eterei.
Il ruolo e l'importanza del G. nel sodalizio (in cui assunse il nome accademico di Costante) risultano ben documentati, oltre che dalla carica di segretario di cui venne insignito, dal corpus delle sue rime accolte nella silloge degli accademici che vide la luce nel 1567. Un corpus che, insieme con quello del giovanissimo T. Tasso, si configura numericamente come il più folto, a testimonianza del valore riconosciutogli nel novero degli undici "novissimi" poeti animatori dell'Accademia e promotori con la raccolta di una sperimentazione di prim'ordine nello sviluppo del petrarchismo veneto. Il felice "albergo delle Muse" Eteree resterà lungo la vita errante e tormentata del G. il solo fulgido esempio di una serena vacanza intellettuale, di un esercizio letterario libero da obblighi servili e fondato su una pratica di relazioni personali: quel "sistema delle protezioni e degli amici" di cui sarà perno Scipione Gonzaga, al quale il G. farà appello nei tempi bui delle sue disavventure cortigiane per ottenere appoggi e sostentamento. L'amicizia con il Gonzaga, ma anche con altri Eterei come Ridolfo Arlotti e Annibale Bonagente, oltre agli ovvi rapporti con il Tasso, accompagnò il G. per tutta la vita, coronata dalla scelta del cardinale come consulente e censore del Pastor fido. È, inoltre, presumibile che la stagione eterea fosse coincisa anche con lo sviluppo di quegli interessi filosofici che il G. verrà sempre rivendicando nelle Lettere come la più autentica inclinazione della sua indole, costretta alla poesia per "diporto cortigiano" e "obbligo di servitù", ma per natura propensa a coltivare frutti di più elevata speculazione.
Conclusa l'esperienza padovana con la partenza del Gonzaga per Roma, iniziò per il G., ufficialmente inscritto dal 1567 nel registro dei gentiluomini della corte estense, una stagione di gravosi impegni politici e di legazioni cui fu destinato dal duca Alfonso II e, per esplicita dichiarazione dell'autore, dai subdoli maneggi dell'influente segretario ducale Giovan Battista Nicolucci detto il Pigna. Per quanto non dovesse tacere del tutto l'esercizio poetico, come dimostra il ruolo che egli ebbe nella cura del Ben divino, il canzoniere del Pigna, frutto di una collaborazione a tre che coinvolse anche il Tasso, è indubbio che per un decennio viaggi e negozi lo distolsero dagli ozi letterari. Durante le ambascerie presso la corte sabauda, la Serenissima, la Curia pontificia e altre corti italiane, il G. ebbe occasione di affinare la sua eloquenza di uomo pubblico e di scaltrito cortigiano, esperto di una tecnica cancelleresca sempre più addestrata al linguaggio della dissimulazione politica. Ne restano, testimone esemplare, le lettere, per lo più ancora inedite, conservate nel fondo Carteggio ambasciatori della Cancelleria, Sezione estero dell'Archivio di Stato di Modena, ma soprattutto le orazioni che il G. via via pubblicò al seguito delle sue legazioni, pregiudizialmente liquidate dalla critica nel segno di una cerimoniosa ostentazione priva di reale significato politico, nonostante testimonino solida competenza giuridica e vigile ricettività nell'osservazione delle consuetudini civili.
Fra le memorie redatte in occasione delle sue ambascerie, spicca il Discorso sopra le cose di Polonia (Ferrara, Biblioteca comunale Ariostea, Mss., 496), frutto della più impegnativa e avventurosa, quanto infelice, legazione intrapresa nel triennio 1574-76 dal G., insieme con Camillo Gualengo e Ascanio Giraldini, per sostenere in terra polacca l'elezione di Alfonso II al trono di quel Regno, che dopo la breve parentesi di Enrico di Valois venne assegnata a Stefano Báthory. Al nudo resoconto della cronaca il Discorso alterna l'esercizio di un accorto giudizio politico, in cui il diplomatico e l'uomo di lettere miscelano abilmente le istanze pragmatiche del ragionamento con la lezione di una machiavelliana esperienza tradotta in strumento di penetrazione storica e psicologica dei fatti.
Con la morte del Pigna, nel 1575, e con la reclusione nel 1579 del Tasso a S. Anna si inaugurò per il G. la fase degli onori cortigiani e del suo incontrastato riconoscimento come poeta ufficiale e richiesto madrigalista delle serate letterarie e musicali della società estense. Lo spazio della "ricreazione cortigiana" gli offrì una stagione felice di incontri e di discussioni culturali che coronò la sua formazione intellettuale e letteraria. Ne sono prova i Discorsi del ferrarese Annibale Romei (Venezia 1585; Ferrara 1586) che elevano il G. ad autorevole interlocutore nel campo del ragionare d'amore, con un'evidente allusione alla sua carriera di madrigalista e alle sue ambizioni di filosofo. Oltre i confini del principato estense gli fu tributata la consacrazione a livello nazionale dal fiorentino Lionardo Salviati, dittatore in materia di lingua e arciconsolo della Crusca, che lo designò nel II libro dei suoi Avvertimenti sovra il Decamerone (Firenze 1586, c. 2v), insieme con F. Patrizi e I. Mazzoni, nella triade degli "Italiani" illustri del suo tempo.
In anni in cui imperversavano le polemiche fiorentine sul "parlar disgiunto" e sullo stile della Liberata, la scelta del Salviati, richiesto dal G., insieme con il Gonzaga, come censore del Pastor fido e per sua intercessione invitato alla corte estense, si configura come un'opzione a favore della continuità di una tradizione moderna ferrarese ariostesco-guariniana in chiave antitassiana, della quale il G. saprà sempre avvalersi nel gioco di reticenti competizioni con l'autore della Liberata. Dal principio degli anni Ottanta al centro di una società cortigiana allietata dalla presenza dei filosofi dello Studio, F. Patrizi, A. Barisano, A. Montecatini ed E. Cato, dal soggiorno di valenti compositori e maestri di camera, C. Monteverdi, L. Luzzaschi, I. Fiorino e G. Wert, dal concorso di gentildonne, Laura Peperara e le sorelle Bendidio, la stessa Anna Guarini e Tarquinia Molza, virtuose del liuto e della viola, ma soprattutto artefici di memorabili concerti canori, a partire dalla celebratissima "musica secreta" del "concerto delle dame", il G. diede prova di una sperimentazione madrigalistica di indubbia avanguardia e avviò, in un fertile intreccio di esperienze meliche, liriche e sceniche, la scrittura del Pastor fido (1580). Nel segno di un gemellaggio rinsaldato anche per via teorica, come testimoniano le lettere guariniane di quegli anni, il G. strinse con Luzzasco Luzzaschi, maestro di camera, una collaborazione duratura che improntò gli sviluppi e le tendenze del madrigale ferrarese di fine secolo. Intorno a loro si raccolse un côté poetico che annoverava, oltre al figlio del G., Alessandro (il Giovane), Orazio Ariosti, Cesare Cremonini, Ridolfo Arlotti, Tarquinia Molza, Guidubaldo Bonarelli e Orsina Cavaletta, impegnato a lavorare sul rapporto fra poesia e musica impostato su un legame non più estemporaneo, ma autenticamente mimetico fra le due arti sorelle. Del sodalizio del G. con il Luzzaschi restano come documenti sia il Terzo libro dei madrigali a cinque voci (Venezia 1582) e le due raccolte del Lauro secco (Ferrara 1582) e Lauro verde (ibid. 1583) del Luzzaschi - che assegnano al madrigale guariniano un posto di assoluto rilievo - sia il lodatissimo ballo della moscacieca del Pastor fido (atto III, scena II).
Del 1581 è l'iscrizione del G. con il nome di Pellegrino fra gli Innominati di Parma; del 1583 l'onore conferitogli dagli Olimpici di Vicenza con la convocazione fra i giudici chiamati a scegliere il testo da rappresentare in occasione della riapertura del celebratissimo teatro vicentino (Giudizio sopra la tragedia Eraclea di Livio Pagello, in Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 8745). Forse anche incoraggiato da questi riconoscimenti, il G., insoddisfatto del trattamento economico riservatogli da Alfonso II, iniziò quel lungo braccio di ferro con il duca che gli varrà un primo temporaneo allontanamento dalla corte estense. Licenziato alla fine del 1583 da Alfonso che sperava così di poterlo ridurre a più miti consigli, il G. alternò soggiorni nel Veneto dividendosi fra la villa di proprietà nel Polesine, la Guarina, per provvedere ad affari domestici e liti giudiziarie, e il ricovero nella diletta Padova, "amato porto dei suoi naufragi" (lettera a F.M. Vialardi, 22 luglio 1583).
La libertà assaporata negli ozi patavini, pur fra le mille brighe familiari, permisero al G. di attendere con maggior agio alla stesura del Pastor fido e molto probabilmente di accrescere l'iniziale progetto della pastorale - dapprincipio maturato nell'esclusivo confronto con i modelli del teatro estense e in malcelata competizione con l'Aminta tassiana - di nuove ambizioni sceniche e istanze retoriche, sollecitate dalle discussioni poetiche fermentanti nello Studio e nelle accademie padovane. L'assidua frequentazione della casa di Gian Vincenzo Pinelli, famoso collezionista di codici antichi e oggetti d'arte, ritrovo di un'élite colta padovana, rinsaldò vecchie amicizie del G. e gli procurò l'occasione di nuovi incontri con intellettuali cittadini di spicco, da Antonio Querenghi a Lorenzo Pignoria, al logico aristotelico Iacopo Zabarella. Nella libreria Meietti, ritrovo dei professori dello Studio, il G. strinse pure relazioni, come quella familiarissima con Antonio Riccoboni, che segneranno profondamente gli sviluppi della sua poetica. Durante una riunione dal Meietti, dove sembra il G. fosse solito discutere anche dei progressi del Pastor fido, il dramma non ancora completato ricevette una sorta di battesimo ufficiale (1584), con una pubblica lettura - stando a quanto si ricorda nei Verati -, che ottenne elogiativi consensi, come in seguito malevole critiche, dietro le quali il G. volle lasciare credere attiva la regia dell'ancora influente Sperone Speroni.
Al 1584 risalgono anche le trattative fra il duca di Mantova Vincenzo I Gonzaga e il G. per l'allestimento di una messinscena del Pastor fido in occasione dei festeggiamenti per le future nozze del duca con Eleonora de' Medici. L'opera era molto attesa a Mantova anche in virtù delle voci che si erano sparse già dal 1583, quando, di ritorno da un'ultima missione diplomatica per conto di Alfonso II a Milano, il G., ospitato a Guastalla alla corte di Ferrante Gonzaga, aveva recitato alcune scene della pastorale alla presenza di Curzio Gonzaga, di Muzio Manfredi, di Barbara Sanseverino e di altre dame. Il 7 apr. 1584, scrivendo al Gonzaga, il G. si trovò però costretto a ricusare l'invio del Pastor fido, cui ancora mancavano tutto il V atto e i cori, offrendo in sostituzione della pastorale una commedia classicistica, l'Idropica, la cui redazione, intrecciatasi con quella dell'opera maggiore, risultava a quella data conclusa. Ma il manoscritto dell'Idropica andò smarrito nella spedizione, secondo quanto informa il G. nella lettera del 15 febbr. 1593 a Giannicolò Panizzari, nella quale, preoccupato che la commedia non cadesse in mano altrui, ne espose l'argomento.
Nel frattempo non appaiono del tutto interrotti neppure i rapporti con la corte estense, se nell'agosto del 1584 il G. si trovava a Ferrara per preparare una rappresentazione del Pastor fido, che per un concorso di cause poi non ebbe luogo; vi tornò nel 1585 per presenziare al matrimonio della figlia Anna con il conte Ercole Trotti. Nel settembre dello stesso anno, però, il G. era probabilmente già in viaggio alla volta di Torino con lo scopo di concludere le trattative per una sistemazione presso la corte di Carlo Emanuele I. Recava con sé quell'esemplare del Pastor fido con dedica al Savoia, purtroppo perduto nel 1904 nell'incendio della Biblioteca nazionale di Torino, che, nel gioco degli infingimenti cortigiani utili a ingraziarsi il principe, egli veniva presentando come destinato sin dal "suo nascimento" alla sua dignità e alla sua corte (lettera al duca di Savoia, Padova 15 nov. 1585).
Il soggiorno torinese dovette tuttavia essere brevissimo perché Alfonso d'Este, il quale mal tollerava che i suoi sudditi prestassero servizio ad altri principi, si decise a richiamarlo a Ferrara con la prospettiva di un degno incarico di segretario, nel cui ufficio il G. risulta già insediato dal dicembre 1585. Stanco di peregrinazioni, ma molto più disilluso sulle reali possibilità di un'avventura intellettuale affrancata dal servizio cortigiano, consapevole della perdita ormai irreparabile di un "centro interiore" e autonomo della vita e della scrittura, entrambe in balia di un'alienante "circonferenza delle cose volubili" (Lettere, Venezia, G.B. Ciotti, 1598, n. XVII), il G. rientrava a Ferrara con lo spirito critico di chi, pur reintegrato nei suoi onori, non si tratteneva dal commentare acremente come peggior "condizione" e "più incommoda" non vi fosse che "l'esser servidor vecchio, e segretario nuovo", perché "la segretaria non vuol filosofia", ma "bisogna andare a bottega" (lettera a E. Sfondrato, Ferrara 15 febbr. 1586).
A Ferrara il G. riprese comunque il suo consueto attivismo: terminò, con la tardiva composizione dei cori (1586), la stesura del Pastor fido e si prodigò nel 1587 per l'allestimento a Sassuolo, in onore delle nozze di Marco Pio e Clelia Farnese, della favola pastorale di Agostino Beccari, Il sacrificio (Ferrara 1555), rassettata nella sua forma primitiva e provvista di un nuovo prologo a opera del G. (Ferrara, A. Caraffa, 1587).
Ma l'insofferenza per il servizio cortigiano si esasperò nel 1588, acuita dall'ambiguità con cui il duca aveva cercato di dirimere la lite giudiziaria insorta tra il G. e il figlio Alessandro per il controllo della dote della nuora. Adducendo le solite formali rimostranze per lo svilimento professionale in cui era tenuto dal duca, che di volta in volta gli preferiva segretari certo più modesti, ma anche più affidabili come Imola Laderchi, il G. si licenziò bruscamente e definitivamente dalla signoria di Alfonso.
Iniziò così per il G. un lungo periodo, conclusosi solo con la morte, di precarietà esistenziale e politica, di tediose querelles con gli avversari della tragicommedia, di dissapori conclusi in tribunale e lutti familiari. L'ampia messe dei suoi carteggi testimonia i tentativi fatti in più direzioni e una regia di relazioni utili a procurargli appoggi e a candidare il suo nome per incarichi accademici o cancellereschi presso le varie corti italiane. Sfumata la speranza di una collocazione presso la corte mantovana di Vincenzo I Gonzaga, così come, nei primi anni Novanta, l'ipotesi di un suo incarico presso il Collegio gesuitico romano, sembrò inizialmente andare in porto la possibilità di una sistemazione a Firenze grazie all'interessamento di Belisario Vinta, segretario ducale, e all'intervento degli Accademici Alterati e della Crusca, alla quale il G. era iscritto dal 1587. Al 1596 risale la rappresentazione ufficiale del Pastor fido, a Crema durante il carnevale, dopo una probabile prima a Siena nel 1593, e seguita da quella, sontuosa, del 22 nov. 1598 a Mantova, in occasione della visita del governatore di Milano Juan Fernández de Velasco. Alla corte fiorentina il G. approdò soltanto nel 1599, dopo la morte di Alfonso II e la devoluzione di Ferrara alla Chiesa.
Frutto della stagione fiorentina è un trattato Della politica libertà (Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. II, 83 [=4840]; ed. a cura di G.A. Ruggieri, Venezia 1818), che celebra con un'inevitabile e talvolta fastidiosa amplificatio encomiastica i meriti del principato mediceo. Il libello non appare però del tutto privo di qualità nell'acuto giudizio storico sulle vicende e le istituzioni del proprio tempo e nella valorizzazione delle prerogative civili, di tradizione guicciardiniana, indispensabili a edificare un nuovo ordine sociale di cui il principe fosse garante, in collaborazione con un tipo moderno, e non feudale, di gentiluomo rispettoso delle leggi.
Troncato anche il rapporto con i Medici, nel 1602 cade un breve soggiorno presso la corte urbinate di Francesco Maria II Della Rovere, che confidava di potersi servire della penna del G. per la revisione di due storie della dinastia: l'una dell'abate guastallese Bernardino Baldi, l'altra del veneziano Giambattista Leoni; ma il G. alla fine si sottrasse, adducendo ragioni di amicizia e di prudenza nei confronti degli autori (le tracce di un suo abbozzato intervento sono nell'inedita Critica conservata nel ms. T.3.4 della Biblioteca Angelica di Roma). Dopodiché il G. ritornò definitivamente a Ferrara.
Gli ultimi anni della sua vita, tutti spesi nella cura di tre nuove opere di taglio trattatistico e di impegno filosofico, un Trattato dell'onore (un frammento del III libro nel ms. I.116 della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara), uno sulla Ragion di Stato e un Favorito cortigiano, a tutt'oggi dispersi, sono caratterizzati anche da una vivace partecipazione ad Accademie (i bolognesi Gelati e gli Umoristi romani), in cui si agitavano i nuovi indirizzi poetici secenteschi, e il G. non nascose in varie occasioni le sue simpatie per Marino e per gli indirizzi del preziosismo concettista. Eletto, nel 1611, principe degli Umoristi, impegnò le sue ultime energie nell'ambizioso progetto di una raccolta di liriche rappresentativa degli indirizzi moderni dell'Accademia, che ambiva a porsi a guida del nuovo gusto nazionale.
La morte colse il G. a Venezia, nel 1612, mentre attendeva al definitivo allestimento della collettanea, di cui restano i materiali nel ms. gamma H.2.18 della Biblioteca Estense di Modena.
L'Idropica e il Pastor fido, frutto di un progetto cronologicamente intrecciato (dal 1580 al 1584) e sorretto da una "complementarità d'intenzioni", rappresentano una faccia della sperimentazione d'avanguardia promossa dal G. ferrarese, impegnato nel "tentativo responsabile e organico di ridare dignità ed efficacia" (Prefazione a B. Guarini, Opere, a cura di M. Guglielminetti, Torino 1955, p. 32) alla letteratura compromessa dallo scadimento encomiastico della lirica di corte.
L'Idropica (ed. postuma Venezia 1613) riscosse scarso interesse già nel suo tempo - anche per l'infelice congiuntura della perdita del manoscritto e del suo ritrovamento solo anni dopo, quando ormai trionfava la formula mista del Pastor fido, che inevitabilmente decretava il ritardo della commedia - e ancor meno attrasse la critica novecentesca che a essa riservò sporadici accenni. I giudizi critici più equilibrati attribuiscono all'Idropica una già latente tendenza alla contaminazione dei registri tragico e comico, all'interno di un meccanismo inceppato nell'azione dei personaggi tradizionalmente artefici della peripezia (servi, cortigiane, parassiti) e frenato da un'"astenia sentimentale" dei caratteri. L'intreccio scenico viene così a dipendere dall'imprevedibilità del caso, vero e proprio deus ex machina della fabula, il che provocherebbe l'interna dissoluzione della tradizionale forma comica cinquecentesca, dove l'antagonismo fra universi culturali contrapposti serviva a far prevalere i valori dell'intelligenza ludica e costruttiva dei protagonisti, senza però che ancora si delineasse un approdo verso un nuovo genere di commedia grave o di tragicommedia.
Nel tirocinio stilistico con cui l'autore perfezionò via via registri e tipi scenici del Pastor fido, i personaggi dell'Idropica si prefigurano da bozzetti preparatori di una progressiva tipizzazione dei caratteri che l'autore mise a punto attraverso un singolare travaso di esperienze. È il caso precipuo dei personaggi di Loretta, la scaltra e intrigante meretrice, e del pedante Zenobio, i cui tratti più originali verranno ereditati dalla maschera di Corisca e dal profilo filosofeggiante, quanto parodicamente degradato, del Satiro della pastorale, di tutt'altra energia scenica: la coppia, da cui dipende nel Pastor fido la vitalità e l'animazione dell'intrigo "artifizioso" della fabula, risulta infatti la più stabilmente definita sin dalla sceneggiatura e dai primi abbozzi dell'opera. Del tutto complementare e in evoluzione dall'uno all'altro testo si prospetta anche la struttura terenziana dell'intreccio, geminato nelle coppie degli innamorati, da principio sfasate e alla fine ricomposte, secondo i legittimi desideri individuali, con la risoluzione del nodo che ruota per entrambe le favole intorno al motivo tradizionale del matrimonio imposto e non voluto.
Allo sfortunato destino dell'Idropica fa da contraltare la straordinaria fortuna critica e letteraria del Pastor fido. Sin dalla sua comparsa sulla scena letteraria e ancor prima dell'uscita dell'editio princeps alla fine del 1589 (Venezia, G.B. Bonfadino; ma recante la data del 1590), il Pastor fido sollevò una lunga querelle, di cui fu iniziale promotore il cipriota Giason Denore (o De Nores) professore di retorica a Padova, con la stampa nel 1587 del Discorsointorno a que' principi, cause et accrescimenti, che la comedia, la tragedia et il poema heroico ricevono dalla philosophia morale et civile… (Padova, P. Meietti, 1586, colophon 1587), in cui veniva condannando le nuove ambizioni sceniche del genere pastorale e la mistione tragicomica della favola drammatica. La polemica sul Pastor fido si riaccese a ridosso dell'edizione definitiva (Venezia 1602) dell'opera, a causa dell'intervento di un manipolo di noti letterati in prevalenza veneti (F. Summo, O. Pescetti, A. Ingegneri, P. Beni, G.P. Malacreta, G. Savio e il siciliano L. Eredia), dietro cui emergeva lo scontro fra concezioni diverse della poetica e dello stile. La stampa uscì accompagnata da un Compendio della poesia tragicomica (ibid. 1602) riassuntivo della poetica tragicomica e provvista di un corredo di Annotazioni, in parte d'autore in parte d'altra mano, esplicative sia del funzionamento retorico del testo sia dei significati e dei sovrasensi allegorici della favola, non di rado depistanti in un'indubbia copertura apologetica. Per grandi linee si assiste al prevalere di un filtro interpretativo che neutralizza le interne tensioni scettiche del testo, oscurando la problematicità retorica del nuovo connubio tentato dal G. fra il motivo risolutivo della "fede" e quello tragico del "sacrificio". A un diverso livello si porrà il rilancio del paradigma stilistico del Pastor fido nella felice sanzione sei-settecentesca di una "nuova tradizione temperata di lingua poetica" (Folena, p. 347), di un'armonia media di natura patetica e melica, su cui si forgiò la nascente langue melodrammatica proprio a partire dall'esemplarità guariniana di un'elocuzione arguta e ingegnosa risolta in chiave musicale. Tutto ciò decretò la fortuna del Pastor fido, i percorsi ad ampio raggio del trapianto europeo del suo modello, la felice stagione di traduzioni-imitazioni (in Francia già avviata dal 1593 con Roland Brisset, in Inghilterra con la precocissima edizione londinese, 1591, a spese di Iacopo Castelvetro e poi con diverse traduzioni, tra cui la più celebre quella di Richard Fanshawe del 1647), di liberi rifacimenti di singole scene, di riprese tematiche e metaforiche che sempre più consacrarono la poetica guariniana come "paradigma dei moderni" entro i confini e le mode di un idillismo arcadico sei-settecentesco.
Il nodo critico dei confronti fra Aminta e Pastor fido, d'obbligo alla luce di un'indiscutibile primogenitura e di una competizione ingegnosa con la pastorale del Tasso, è stato circoscritto nella critica novecentesca in un quadro più mosso di esperienze letterarie e modelli scenici, classici e romanzi, che animano il laboratorio "a contaminazione multipla" (Scarpati, p. 234) della pastorale. Il testo attiva, infatti, una riscrittura allusiva di modelli illustri della tradizione drammatica (la Fedra di Seneca, l'Ifigenia in Aulide di Euripide, l'Edipo di Sofocle), che nobilitano l'umile trama pastorale della vicenda. L'ambientazione classica, la favola arcadica con i suoi topoi bucolici, già ampiamente collaudati dall'intensa stagione scenica di drammi pastorali ferraresi (dall'Egle di G.B. Giraldi al Sacrificio di A. Beccari all'Aretusa di A. Lollio), lo stesso gareggiamento con l'Aminta, raffinato lungo il corso dei rifacimenti in chiave sempre più allusiva e divaricante, si assesta, per così dire, alla superficie del testo. Mentre sul piano degli strati profondi il ricorso agli archetipi tragici orchestra le tensioni drammatiche dell'intreccio, a cominciare dalla spregiudicata riscrittura del più illustre mythos tragico, quello edipico. Così l'aggancio della fabula arcadica a un dispositivo di agnizione sofoclea, con cui si scioglie la vicenda principale di Mirtillo e Amarilli, trasforma l'exemplum antico in moderna "favola di salvazione", che costituisce la vera presa di distanza dal modello aminteo. È, in definitiva, una sorta di sovragenere, quello accarezzato dal G., in grado di assorbire all'interno degli istituti drammatici anche un disegno di natura epica ed eroica vicino a quello della Gerusalemme liberata, inscritto nella scelta dell'archetipo, classico e romanzo, più tradizionale e più nobile: quello dell'iter simbolico da errore a salvazione compiuto attraverso il percorso dall'amor alla fides, dall'eros alla salus del buon pastore Mirtillo.
Nella lunga querelle che precorse e accompagnò l'uscita delle due edizioni del Pastor fido, il G. intervenne a difesa della novità della tragicommedia, oltre che con il riassuntivo e finale Compendio della poesia tragicomica, con i due trattati Il Verrato ovvero Difesa di quanto ha scritto m. Giason Denores contra le tragicommedie et le pastorali… (Ferrara, A. Caraffa, 1588) e il Verato secondo, ovvero Replica dell'Attizzato accademico ferrarese in difesa del Pastor fido… (Firenze, F. Giunti, 1593), composti, con lo schermo del nome dell'attore G.B. Verrato, in replica rispettivamente ai due scritti di Giason Denores: Discorso […] intorno a que' principii, cause et accrescimenti che la comedia, la tragedia et il poema heroico ricevono dalla philosophia morale et civile (Padova 1586) e Apologia contra l'auttor del Verato… (ibid. 1590). Il G. vi formula la definizione della poetica tragicomica come temperamento equilibrato delle componenti e degli stili dei due generi, combinati in una unità nuova che, con l'esclusione del terribile tragico e del comico dissoluto, accorda caratteri della tragedia ("le persone grandi e non l'azione; la favola verisimile, ma non vera; gli affetti mossi, ma rintuzzati; il diletto non la mestizia; il pericolo, non la morte", Compendio, p. 231) e della commedia ("il riso non dissoluto, le piacevolezze modeste, il nodo finto, il rivolgimento felice, e soprattutto l'ordine comico", ibid.). Ma la riflessione dei trattati si rivela di tutto rispetto anche per l'interesse che riveste nella revisione di categorie poetiche e retoriche di grande attualità nel passaggio fra Cinque e Seicento. In primo luogo, registra l'affermarsi di un tipo di catarsi emozionale e insieme intellettuale (la "purgazione della mestizia") connessa al lieto fine tragicomico e alla natura edonistica dell'arte, ma soprattutto alla nuova dialettica di poesia e musica, così come rilancia un concetto moderno di meraviglia che dilata il campo del poetabile in direzione dei valori dell'immaginario.
Alquanto intricata si presenta la situazione delle Rime guariniane che, a tutt'oggi, mancano di un'edizione filologica complessiva, in grado di dirimere le molte questioni lasciate aperte o, a loro volta, sollevate dalla stampa settecentesca Tumermani. L'antologia curata da Guglielminetti per l'edizione delle Opere offre un primo esaustivo bilancio dei caratteri della sperimentazione guariniana nei territori di un "petrarchismo eterodosso" (p. 23) di maturo Cinquecento, sempre più scartante da soluzioni bembesche. Rilevanti per la ricostruzione dell'iter poetico guariniano, dagli anni giovanili patavini alla risistemazione, nel triennio 1595-98, della raccolta di rime allestita per la stampa veneziana licenziata dal Ciotti nel 1598, sono le osservazioni da A. Daniele sull'"assidua pratica correttoria" esercitata dal G. sui propri testi (Premessa, in Rime de gli Academici Eterei, a cura di G. Auzzas - M. Pastore Stocchi, Padova 1995, p. 35), almeno rispetto al corpus etereo (36 sonetti, 56 stanze, 1 madrigale), che offre oggi un testo stabilito. In queste prime esperienze liriche si constata un andamento più mosso e frammentato nei rapporti fra verso e ritmo, che la revisione operata in vista dell'antologia del 1598 attenuerà in favore di una continuità ritmico-sintattica e di un superamento delle influenze dellacasiane inizialmente presenti. Significativo, in vista della dispositio per generi dei materiali lirici prescelta nella raccolta del 1598, si rivela anche l'ordine del microcanzoniere etereo, fissato nella forma tipica della scansione per sezioni - d'amore, d'occasione e d'encomio - conclusa da una lirica di sapore penitenziale. Resta comunque calzante, in attesa di un'adeguata risoluzione filologica, la proposta critica con cui Guglielminetti scorge nell'organizzazione della raccolta Ciotti un'accorta dispositio a cornice che, collocando i "sonetti di corrispondenza" dopo quelli di encomio e di lutto e prima di quelli religiosi, finisce per attenuare la portata cortigiana delle rime, con l'esaltazione dei "valori morali dei destinatari" piuttosto "che delle lodi dei potenti" (Introduzione, in B. Guarini, Opere, cit., p. 24).
Anche la forma dell'epistolario, edito sempre dal Ciotti, subisce una visibile trasformazione lungo il corso delle sue ristampe, dalla princeps del 1593 (Lettere del signor cavaliere Battista Guarini nobile ferrarese da Agostino Michele raccolte), dove prevalgono, sia pure a tratti, le sequenze cronologiche, a quella riformata del 1598 (Lettere del signor Battista Guarini… di nuovo in questa quarta impressione sotto capi divise da Agostino Michele raccolte, ibid. 1598), in cui si adotta il criterio tematico delle "lettere per capi divise". La trasformazione registra in modo del tutto originale il cambiamento di rotta in corso dagli anni Novanta nei modelli del genere epistolografico; ma, pur adeguandosi alla nuova tipologia didattica e tecnica nella disposizione per capi delle lettere (così predisposte all'imitazione di segretari novizi), la raccolta lascia trasparire l'intento di un'esemplarità d'autore: la silloge è costruita a partire dalla propria paradigmatica "individualità autobiografica" di letterato e segretario.
L'amara diagnosi sulla reificante condizione moderna del mestiere delle lettere è al centro anche del filosofeggiante Segretario, il trattato sull'arte cancelleresca edito nel 1594 (Venezia, R. Meietti; 2a ed., ibid. 1600). Pensato in origine come una Lettera delle lettere di corredo esplicativo alla sua antologia epistolare, l'opera ben presto si espanse, significativamente in coincidenza con l'abbandono del servizio estense, in un concettoso dialogo che affronta, oltre a una minuziosa e interessante precettistica retorica, anche il problema della dignità dell'intellettuale, nel suo gioco di rapporti con il sapere e il potere e nella sua degradante realtà di uno scrivere espropriato "come altrui vuole". Pur nella consapevolezza scettica della negatività dei tempi, il G. non rinuncia alla ricerca di uno spazio anche minimo di autonomia per il letterato: emerge così la proposta, indubbiamente moderna, di uno statuto professionale da ricercarsi in un ruolo alto e specialistico di tecnico della persuasione e del consenso. In tale direzione è da leggersi anche la complessa discussione epistemologica sulla natura e il fine della retorica che introduce il dialogo, dove la scelta degli interlocutori (Girolamo Zeno, Sebastiano Venier, Iacopo Contarini, Francesco Moresini) e il luogo dell'urbana conversazione, il celebrato "Mezzado" contariniano, raduno civile dei "più eccellenti ingegni" della Repubblica (p. 70), denunciano apertamente la volontà polemica di fungere da osservatorio critico da cui giudicare valori e disvalori del modello cortigiano.
Opere. Gli scritti minori del G. si conservano soltanto in stampe antiche: Oratio ad serenissimun principem Venetiarum Petrum Lauretanum… pro illustriss. atque eccellentiss. duce Ferrariae, Ferrara, F. Rossi, 1568; Venezia, A. Rovenaldo, 1568; Ad sanctissimum Gregorium XIII pont. max. oratio pro sereniss. principe Alfonso II Ferrariae duce, Ferrara, V. Baldini, 1572; Oratio in funere invictiss. imperatoris Maximiliani II Caes. Aug., ibid., F. Rossi, 1577; alcune stanze in A. Ferentilli, Primo libro della scielta di stanze di diversi autori toscani, Venezia, B. Giunti e fratelli, 1584; Parere sopra la causa del priorato del signor cavaliere Roberto Papafava, Venezia, G.B. Ciotti, 1586; In funere Aloysii Estensis principis illustriss. et S.R.E. card. ampliss. oratio, Ferrara, V. Baldini, 1587; Parere per li decurioni di spada della città di Cremona contro la pretensione de' dottori di precedere nel sedere nel Consiglio, Mantova 1601; In praestanda sanctissimo d.n. Paulo s.p.m. pro civitate Ferrariae oboedientia oratio, Roma-Ferrara 1605; Manifesto per occasione delle cose passate e scritte sopra la venerabil'arca del benedetto vescovo e martire s. Bellino, Ferrara 1609; Ragioni… perché non s'abbia a trasportar a Rovigo il venerabile corpo di s. Bellino vescovo et martire, contro l'orazione del dottor Giovanni Bonifacio che pretende il contrario, Ferrara 1609; Il Barbiere. Risposta di Serafin Colato da s. Bellino barbiere, all'invettiva uscita contro il cavalier Guarino sotto il nome di Pier A. Salmone, nella quale risposta si scuoprono le menzogne et le facoltà del vero autore della detta invettiva, senza indicazioni di tipografia. L'edizione più completa delle Opere è quella stampata a Verona, nel 1737-38, in quattro volumi, con la collaborazione di L. Barotti, L.A. Muratori e A. Zeno: comprende il Pastor fido (ed. 1602), la maggior parte degli scritti relativi alla polemica sulla tragicommedia, l'Idropica con note di P. Rolli, le Rime secondo l'edizione Venezia 1621, un corpus di liriche sparse. Edizioni moderne: Il Pastor fido e il Compendio della poesia tragicomica, a cura di G. Brognoligo, Bari 1914; Opere, a cura di L. Fassò, Torino 1950; la cit. edizione del 1955 delle Opere a cura di M. Guglielminetti; Il Pastor fido, in Il Teatro italiano, II, La tragedia del Cinquecento, a cura di M. Ariani, ibid. 1977, pp. 723-947; Il Pastor fido, a cura di E. Bonora, Milano 1978; Il Pastor fido, a cura di M. Guglielminetti, ibid. 1994; Rime de gli Academici Eterei, cit., pp. 62-99; B. Guarini, "Annotazioni". F. Summo, "Due discorsi", ed. anast. a cura di A. Gareffi, Manziana 1997; Il Pastor fido, a cura di E. Selmi, intr. di G. Baldessarri, Venezia 1999.
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