Agnadello, battaglia di
La battaglia di A. o di Ghiaradadda, indicata da M. come giornata di «Vailà» (Vailate, attualmente in prov. di Cremona nel territorio della Gera d’Adda), costituisce il fulcro del giudizio politico sugli ordinamenti della Repubblica di Venezia (→).
Il 14 maggio 1509 le truppe veneziane andarono incontro a una clamorosa disfatta. Le milizie di San Marco erano comandate da Bartolomeo d’Alviano (→) e da suo cugino Niccolò Orsini conte di Pitigliano, con la supervisione del provveditore Andrea Gritti (che si sarebbe poco dopo distinto nella difesa di Padova, destinato a divenire doge nel 1523-38). Contro la Serenissima erano schierati gli eserciti della lega di Cambrai (→), un’alleanza politico-militare internazionale costituitasi con l’esplicito obiettivo di ridimensionare l’ascesa veneziana e il dominio in terraferma della Repubblica. La lega era stata promossa da papa Giulio II e si era costituita segretamente a Cambrai, il 10 dicembre 1508, con il pretesto di una trattativa fra l’imperatore Massimiliano e il duca di Gheldria; partecipavano all’alleanza Francia, Spagna, impero, con possibili vantaggi per l’Ungheria e il ducato di Savoia. Ruolo chiave nell’azione della lega era quello di Luigi XII di Francia, il quale informò direttamente la Repubblica delle proprie intenzioni ostili il 14 dicembre, attraverso l’ambasciatore veneziano in Francia. Sarà l’apologeta di Luigi XII, Claude de Seyssel (→), a conferire alla lega e alla campagna antiveneziana il carattere quasi di una crociata.
La giornata di «Vailà» è il punto di intersezione fra due direttrici di primaria importanza nella riflessione machiavelliana sulla politica internazionale nel primo decennio del Cinquecento. Convergono qui il giudizio negativo sull’azione militare di Luigi XII in Italia e la valutazione sulla Repubblica veneziana e sulla sua eventuale capacità di assorbire la sconfitta e riguadagnare un ruolo nello scacchiere europeo (si considerino a tal fine i documenti della legazione di M. a Mantova e Verona nell’ottobre-novembre 1509). Già nel 1510 Giulio II scioglieva la propria alleanza con la Francia, stipulando nuovi accordi con Venezia: l’anno successivo anche la Spagna e l’impero si univano al papa in una lega Santa antifrancese (tra le conseguenze di tale ulteriore avvicendamento strategico ci fu il crollo della Repubblica fiorentina, del gonfaloniere Soderini, e la fine della carriera politica per il cancelliere M.).
Il terzo capitolo del Principe, dedicato al «principato misto», cioè al consolidamento di un territorio conquistato e annesso, si trasforma in una rassegna della catastrofica parabola francese in questa prima stagione delle guerre d’Italia. Luigi XII poté mettere piede in Italia, riprendendo le mire espansionistiche del predecessore Carlo VIII, proprio in accordo con i veneziani, che agevolarono la corona francese nella conquista del ducato di Milano (sett. 1499-febbr. 1500: Principe iii 4-6 e 35). Il decennio successivo è segnato dai progressivi «errori» di Luigi XII: aver accresciuto il potere temporale del papa, inimicandosi le piccole signorie dell’Italia centro-settentrionale, e aver permesso con il trattato di Granada un crescente dominio spagnolo nel Regno di Napoli.
Una serie di passi falsi coronati dal definitivo errore di aver sottratto o limitato il dominio in terraferma di Venezia:
perché, quando e’ non avessi fatto grande la Chiesa né messo in Italia Spagna, era bene ragionevole e necessario abbassargli [i Veneziani]; ma avendo preso quegli primi partiti, non doveva mai consentire alla ruina loro (iii 44).
Il 27 aprile 1509, quattro mesi dopo aver stipulato gli accordi di Cambrai, il pontefice lanciava la scomunica contro Venezia; intanto le truppe francesi e della lega, al comando di Luigi XII, avevano oltrepassato l’Adda, confine naturale fra il ducato milanese e la Repubblica di San Marco, e dopo una serie di scaramucce nel territorio della Ghiera d’Adda (Treviglio, Cassano d’Adda, Rivolta d’Adda), il 14 maggio infliggevano ai veneziani una grave sconfitta nella battaglia di A. (F. Guicciardini, Storia d’Italia VIII 4). Il cospicuo esercito veneziano si trovava dislocato in un lungo incolonnamento che da Pandino (in prov. di Cremona, presidiata dall’avanguardia e dal comandante supremo Niccolò di Pitigliano) giungeva fino ad Agnadello, dove la retroguardia subì l’attacco di Gian Giacomo Trivulzio (→), cioè dell’artiglieria e della cavalleria francese. D’Alviano si mosse in soccorso della retroguardia, costituita in gran parte da ‘cernite’ ‒ ossia fanti di reclutamento contadino ‒ friulane e padovane, e riuscì in una prima fase a battere la cavalleria del Trivulzio. I francesi seppero riorganizzarsi rapidamente e la cavalleria, insieme con gli svizzeri, tornò a opporsi efficacemente a d’Alviano, cui mancò il sostegno del Pitigliano e di Antonio dei Pio da Carpi. La battaglia era cominciata all’una del pomeriggio e si concluse in circa quattro ore. M., sempre ferocemente critico contro l’impiego di truppe mercenarie, non manca di sottolineare come la sconfitta veneziana si dovette anche alle condotte assoldate dalla Repubblica (Principe xii 26). In effetti Pandolfo Malatesta signore di Cittadella e Giacomo Secco da Caravaggio tradirono Venezia, mentre le truppe di Antonio dei Pio si dissolsero sotto le artiglierie francesi e l’impeto degli eserciti della lega. A determinare la catastrofe fu inoltre lo scarso affiatamento tra i due comandanti:
il reattivo e bellicoso d’Alviano (ferito e imprigionato dai francesi) e Niccolò Orsini, attestatosi con il grosso delle truppe a Pandino (sulla via di Crema e Cremona); quest’ultimo rifiutò di intervenire dopo l’inizio della battaglia, attenendosi alle direttive del senato veneziano che ordinava di evitare lo scontro, anche per preservare le truppe superstiti e contenere i costi di guerra. Non casualmente «Vailà» tornerà nel capitolo conclusivo del Principe, in un elenco di sconfitte militari italiane (insieme con la battaglia del Taro, la caduta di Alessandria e Capua, l’assedio di Bologna e l’incendio di Mestre), a comprovare la necessaria riforma militare che deve accompagnarsi a quella politica (xxvi 19). Un giudizio tecnico-militare sulla sconfitta di A. emergeva anche nel Ritratto delle cose di Francia e tornerà nell’Arte della guerra.
Nel Ritratto del 1510 il disaccordo fra i due comandanti e il «furore» di Bartolomeo d’Alviano erano additati quali causa della sconfitta. Nel 1521, nel dialogo Dell’arte della guerra, fin dal libro I, Fabrizio Colonna sottolinea criticamente la scelta di Venezia, già signora dei mari, di impiegare condotte mercenarie e di non sviluppare milizie proprie: «Questo fu quel partito sinistro che tagliò loro le gambe del salire in cielo e dello ampliare» (pp. 348-49); e con osservazioni più tecniche nel libro IV condanna la strategia veneziana: «I Viniziani, ne’ tempi nostri, se non volevano venire a giornata con il re di Francia, non dovevano aspettare che l’esercito francioso passasse l’Adda, ma discostarsi da quello» (pp. 438-39).
Il giudizio sugli ordinamenti veneziani, prima e subito dopo la «mezza rotta a Vailà», si fa particolarmente severo nei Discorsi III xxxi 14-18. M. sta chiosando l’elogio liviano per la costanza d’animo di Furio Camillo (→), non esaltato dalla dittatura e non avvilito dall’esilio (Livio VI 7), e addita tale comportamento a fronte dello scarso equilibrio mostrato dai veneziani, «i quali nella buona fortuna, parendo loro aversela guadagnata con quella virtù che non avevano, erano venuti a tanta insolenza che chiamavano il re di Francia figliuolo di San Marco» (con riferimento all’alleanza veneto-francese del 1499-1500):
Dipoi, come la buona sorte gli abbandonò e ch’egli ebbono una mezza rotta a Vailà, dal re di Francia, perderono non solamente tutto lo stato loro per ribellione, ma buona parte ne dettero al papa ed al re di Spagna per viltà ed abiezione d’animo.
Occorre sottolineare come M. additi la sconfitta di A. come una «mezza rotta», perché ‒ chiarirà poco dopo ‒ una buona metà dell’esercito veneziano, circa venticinquemila uomini tra fanti e cavalieri, sfuggirà alla disfatta e riuscirà a ritirarsi a Verona al comando del conte di Pitigliano. Dunque se Venezia avesse avuto maggiore capacità politica di resistenza, avrebbe potuto ancora impiegare una buona metà delle proprie milizie. Altre costanti machiavelliane affiorano in questo passaggio: l’opposizione fra i domini conquistati per virtù o per fortuna, insieme con l’esigenza di fare tesoro dei momenti di buona sorte, facendo adeguati preparativi; e anche un implicito riferimento alla capacità di previsione politica e alla sfiducia nelle alleanze diplomatiche, evidente nella sottolineatura che la «mezza rotta» di A. fu inflitta proprio da quel re di Francia che i veneziani consideravano con qualche leggerezza «figliuolo di San Marco».
L’analisi della sconfitta di Vailà implica un’indagine sulla società veneziana. Nella dialettica di classe fra «gentiluomini» e «popolari», Venezia costituisce quasi un’eccezione; in essa i «gentiluomini […] sono più in nome che in fatto» (Discorsi I lv 32), non avendo essi castelli né «alcuna iurisditione sopra gli uomini». Non una classe nobiliare vera e propria (di tipo feudale), ma un patriziato di censo «sendo le loro ricchezze grandi fondate in sulla mercanzia». Le conseguenze di tale peculiare condizione si riverbereranno sul diverso comportamento dei territori dominati in terraferma all’indomani della disfatta militare.
L’aspetto più significativo in tale diagnosi riguarda gli esiti della sconfitta militare: l’abbandono dei domini in terraferma ‒ Bergamo, Brescia, Cremona ‒, la cessione della Romagna e dell’importante porto di Ancona allo Stato pontificio, la caduta in mano spagnola dei porti pugliesi nell’Adriatico meridionale. Si tratta di una resa su tutta la linea, determinata ‒ secondo l’analisi riproposta anche da Guicciardini (Storia d’Italia VIII 6) ‒ da «abiezione d’animo»: un nodo, tipicamente machiavelliano, tra ordini militari non buoni e ordinamenti istituzionali inadeguati, che determinarono la «viltà» dei Veneziani e la loro incapacità di affidarsi a una strategia logoratrice che avrebbe forse avuto ragione dei francesi.
Di particolare interesse è la ricostruzione della crisi successiva alla catastrofe militare di A. nei Diari di Marin Sanudo (→): dopo il 14 maggio 1509 sono registrate puntualmente le nomine di provveditori generali e rettori straordinari, nel tentativo di porre freno al temuto crollo istituzionale della Repubblica.
Spicca qui la lettera di resa incondizionata che già il 5 giugno il doge Leonardo Loredan invia a Giulio II dando «effectualem executionem in restituendis civitatibus et locis omnibus Romandiolae».
Segue il minuto resoconto delle reazioni alla sconfittanei diversi territori dominati: l’ostilità di Brescia e Ferrara, l’ingresso dei francesi a Bergamo, l’incertezza di Crema, le soldataglie allo sbando fra Vicenza e Verona, l’intensa attività diplomatica di raggio europeo svolta dagli ambasciatori veneziani per arginare il fronte avverso alla Repubblica, la situazione delle coste dalmate e dei porti sull’Adriatico orientale, i tentativi di intesa delle città pugliesi con la Sublime Porta. Significative le oscillazioni nel comportamento delle città dominate e del relativo contado:
ancora una volta Sanudo ci informa sulla delegazione padovana che già il 24 giugno 1509 rende omaggio all’imperatore Massimiliano che ha liberato la città dalla prepotenza veneziana. Più articolato il giudizio guicciardiniano (Storia d’Italia VIII 7), dove al piacere invidioso di coloro che gioivano per la caduta di Venezia si affiancano le ponderate considerazioni, che lo storico sembra condividere, di quanti temevano di vedere ormai tutta l’Italia ridotta all’arbitrio straniero.
Di carattere più politico è la diagnosi sulle conseguenze della rotta di A. nel Principe xx 12-14. L’autore si sofferma sull’utilità, per la città dominante, di mantenere vive le discordie nei territori dominati:
così fece Venezia nelle città suddite in terraferma, dove lasciò contendere ghibellini e guelfi (l’autore conserva gli antichi nomi per designare la fazione aristocratica filoimperiale e gli oppositori di estrazione borghese con più spiccati interessi mercantili e finanziari).
Il giudizio machiavelliano è ancora severo: la strategia non giovò ai veneziani «perché, sendo rotti a Vailà, subito una parte di quelle [i ‘ghibellini’] prese ardire e tolsono loro tutto lo stato». Altresì «in uno principato gagliardo mai si permetteranno simili divisioni». In realtà nelle fasi successive alla sconfitta, l’abilità di Andrea Gritti ‒ già agente diplomatico a Costantinopoli, nominato «capitano generale de tera» (cioè responsabile delle milizie in terraferma) ‒ permise una efficace riconquista di Padova nel luglio 1509. Lo stesso Gritti finì prigioniero dei francesi e tuttavia si distinse come negoziatore nei trattati di pace. Di questa ripresa delle attività militari in terraferma all’indomani di A., M. dava notizia ai Dieci in una lettera da Verona del 7 dicembre 1509: con la consueta ironia il Segretario annunciava come nelle città riconquistate i veneziani facessero dipingere un’effige di San Marco con la spada anziché con il libro «d’onde pare che si sieno avveduti ad loro spese che ad tenere li stati non bastano li studj e e’ libri».
Nei dispacci della legazione a Mantova e Verona dell’ottobre-dicembre 1509, Niccolò non mancherà di segnalare episodi di fedeltà e dedizione manifestati dai ceti subalterni in terraferma (specie i contadini, che subivano devastazioni dalle milizie vittoriose francesi e imperiali), ma in un clima di costante tensione.
Già il 17 novembre 1509, a Mantova, il Segretario fiorentino apprende che Vicenza si era ribellata e tornava ai veneziani; nell’imperiale Verona, il 22 novembre, basterà una zuffa di piazza fra soldati spagnoli per far temere una imminente riconquista veneziana.
Anche alla luce di questi differenti orientamenti sociopolitici nei territori dominati, trovano una base documentaria e politica gli articolati giudizi guicciardiniani cui si è fatto cenno.
Nella valutazione complessiva sulla disfatta di «Vailà» spicca un’ulteriore costante del ragionamento politico machiavelliano: la rapidità con cui in una sola giornata si può disperdere un dominio faticosamente conquistato con una secolare ascesa. Il lungo cammino di Venezia per consolidare il controllo dei mari e le conquiste in terraferma fu dissolto ‒ o in ogni caso poté per un momento apparire tale ai contemporanei ‒ sui campi di Agnadello. L’impressione dovette in effetti essere molto forte: M. vi accenna nel secondo Decennale: «alfin Marco rimase in su lo smalto: / poscia che a Vailà misero salse, / cascò del grado suo ch’era tant’alto» (vv. 175-177, e ancora nei vv. 193-216 per la rapida dissoluzione dello Stato veneziano all’indomani della sconfitta), e torna sull’argomento nel Principe xii 26, dove alla infedeltà delle condotte mercenarie l’autore imputa la sconfitta di «Vailà», quando i veneziani «in una giornata perderno ciò che in ottocento anni con tanta fatica avevono conquistato». Il motivo torna insistentemente nel giudizio machiavelliano, A. diviene emblema del rapido rovesciamento di un dominio cresciuto a dismisura ma non adeguatamente consolidato: così nella lettera a Francesco Vettori del 26 agosto 1513:
io stimavo poco i Vinitiani etiam nella maggior grandezza loro, perché a me pareva sempre molto maggior miracolo che eglino havessino acquistato quello imperio et che lo tenessino, che se lo perdessino.
Analogamente il Segretario fiorentino si esprimerà in un luogo di massimo rilievo (Discorsi I vi 28):
Similmente Vinegia, avendo occupato gran parte d’Italia, e la maggior parte non con guerra, ma con danari e con astuzia, come la ebbe a fare prova delle forze sue, perdette in una giornata ogni cosa.
E conclusivamente nelle Istorie fiorentine I xxix, chiudendo il capitolo dedicato a Venezia e consegnandoci nel 1525 un giudizio definitivo sulla Repubblica di San Marco:
cacciati dalla cupidità del dominare, vennono [i Veneziani] in tanta opinione di potenza, che, non solamente a’ principi italiani, ma ai re oltramontani erano in terrore; onde, congiurati quelli contro a di loro, in uno giorno fu tolto loro quello stato che si avevano in molti anni con infinito spendio guadagnato; e benché ne abbiano, in questi nostri ultimi tempi, riacquistato parte [Verona fu riconquistata nel 1517], non avendo riacquistata né la reputazione né le forze, a discrezione d’altri, come tutti gli altri principi italiani, vivono.
Bibliografia: M. Sanudo, Diarii, editi da N. Barozzi, G. Berchet, F. Stefani, R. Fulin, 58 voll., Venezia 1879-1902, in partic. voll. 8°-10° pubblicati nel 1882-1883; P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 19702, pp. 455-69; I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974.