BATIK
. Arte indigena giavanese per colorire tessuti di cotone a varî disegni. Si disegna (giavan. baṭik "punto, disegno") con cera liquida sul fondo bianco, poi s'immerge la tela in un bagno colorante, di modo che, levato lo strato di cera con acqua bollente, il disegno risulta chiaro sul fondo colorato. Questa arte decorativa, esercitata quasi esclusivamente da donne, è originaria da tempi remotissimi di Giava, e più precisamente del centro dell'isola: nelle altre regioni e in altre isole dell'impero coloniale olandese, fu importata e sviluppata sotto l'influsso diretto giavanese. Una forma assai più primitiva di batik si ha sulla costa del Coromandel (Indie inglesi) e forse nel Medioevo il batik fu importato da quelle regioni a Giava ove prese uno sviluppo maggiore.
Ordinariamente il tessuto veniva ricoperto di cera vergine resa più vischiosa dall'unione con resina tropica. Ora invece alla cera si mescola spesso una dose di paraffina, nella proporzione di 1 a 4. La cera viene stesa sulla stoffa mediante uno strumentino ingegnoso - il tjanting - formato di un piccolo serbatoio di rame con un beccuccio, incurvato all'ingiù, e fissato in una piccola maniglia di canna o bambù. Per lavori speciali si conoscono tjanting anche a due o più becchi.
Il tessuto di cotone da colorire deve essere ben lavato con acqua bollente; poi asciugato e nuovamente bagnato in acqua di riso per renderlo sufficientemente saldo. Lo schema rudimentale, ed alcune linee principali del disegno, ma solamente queste, si riportano sul tessuto a matita o a carbone. Il vero lavoro di disegno, in tutti i suoi finissimi particolari, è eseguito a cera mediante il tjanting e a mano libera. Persone poco esperte si servono talvolta d' un modello di stoffa, che applicano sul rovescio di quella che vogliono tingere, di modo che il disegno traluce e può essere così copiato.
Finito il disegno a cera su un lato, viene ripetuto molto fedelmente sul rovescio, di modo che un tessuto, interamente preparato e lavorato al batik, non ha né dritto né rovescio.
Il pezzo di stoffa così preparato per ricevere il primo colore (originariamente anche l'unico) - il nila, cioè il blu-indaco - viene immerso interamente in un bagno di questa tinta, e vi rimane per almeno venti giorni. Tolto da questo primo bagno di colore il tessuto si lascia bene asciugare all'aria per due settimane circa; dopo, viene lavorato un'altra volta nello stesso modo a batik coprendo le parti blu e tutto ciò che a colorazione finita deve presentarsi bianco, per ricevere la seconda tinta: il sogan, vale a dire un colore che va dal bruno-ruggine al tabacco chiaro. La seconda immersione si deve fare in un bagno tiepido, ed il liquido sogan - estratto dalla scorza di Peltophorum ferrugineum - si attacca così difficilmente al tessuto che occorre un ultimo bagno in un'essenza speciale (sarèn) per fissare il colore e renderlo inalterabile. Per ultimo, dopo un lento processo di prosciugamento lo strato di cera viene interamente e definitivamente tolto in un bagno d'acqua bollente a cui si aggiungono olî, aromi e ranno per renderlo più efficace.
Le parti del tessuto dove la seconda tinta deve applicarsi, si liberano prudentemente dalla cera con raschietti e graffiatoi, che permettono di tracciare nello strato asciutto, o quasi, delle linee e tralci anche finissimi, per poi coprire le parti colorate in indaco con cera, adoperando di nuovo il tjanting. Questa ultima fase del batik, in cui il disegno si finisce in tutti i suoi minuziosi particolari, rassomiglia non poco al lavoro dell'acquafortista. Le parti rimaste coperte di cera durante tutta la lavorazione e perciò chiare, prendono nei bagni successivi, per influenza del sogan un tono color crema, o ambra gialla, di modo che un sarong od altro indumento lavorato al batik, mostra una gamma simpatica di ambra, avana ed indaco, oppure di colore latteo, ruggine ed indaco, secondo la regione di provenienza. Dal sec. XVIII in poi si adopera talvolta anche un altro colore, il rosso-mattone, che viene applicato a freddo e non in bagno ma passando sopra il tessuto la densa pasta.
I batik del sultanato di Djokja si distinguono per la gamma più fredda, quelli del sultanato di Solo per la scala più calda. Sono questi da secoli i due centri principali di quest'arte. Il numero dei motivi principali di ornato è piuttosto limitato; più grande è quello delle varianti; mentre la combinazione dei singoli motivi assume un carattere più o meno personale.
Fino al 1500 circa troviamo come motivi spesso le figure del wajang (v. giava), ma dopo l'invasione musulmana i disegni sono esclusivamente ornamentali. Si conoscono un migliaio di motivi, che in lingua giavanese hanno ognuno un nome proprio ed uno spmiale significato. Alcuni, per es., sono riservati alle vesti dei nobili giavanesi e indicano il loro rango. I sultani indossano il giorno dell'incoronazione un sarong di gala, lavorato a batik con un disegno famoso, che neanche a loro è lecito portare in altre occasioni. E così via.
Nel sec. XVIII l'arte del batik era arte di corte e vi si dedicavano le nobildonne giavanesi. Intorno al 1850 in certi luoghi prima, in altri poi, l'arte s'imbastardì con tendenza a divenire industria. L'uso frequente di forme di ottone per stampare il disegno sulla stoffa, rese più facile il lavoro, ma introdusse un procedimento meccanico che deturpò e inaridì l'arte. L'imbastardimento prese addirittura un carattere gravissimo quando gli importatori europei mandarono a Giava matrici con disegni di loro propria invenzione, di modo che si trovano nel commercio anche dei batik giavanesi con disegni a rose e tulipani che per cattivo gusto non sono inferiori alla peggiore industria europea di carta da parati. Anche l'importazione di tessuti di cotone europei dal 1815 in poi circa, e di cera europea dal 1860 in poi, fu causa dell'imbastardirsi del batik. Nel principio del sec. XX, l'industria ha preso ancora una forma diversa con l'uso di materie coloranti chimiche (aniline ed alzarine). Tuttavia la lavorazione con stampi e con colori europei non è più industria femminile ma in gran parte maschile. Si producono annualmente a Giava circa 40 a 50 milioni di pezze di cotone colorate a batik. I vestiti degl'indigeni sono quasi sempre lavorati in questo modo.
Il governo olandese ha preso opportunamente delle misure per salvare l'autentico batik dalle insidie che lo minacciano. Il buon senso degl'indigeni li fece poi ritornare agli antichi provati sistemi quando s' accorsero che i colori d'anilina non erano permanenti.
L'importazione poi di cotoni lavorati in Europa a imitazione del batik fa sì che molti Giavanesi acquistano di preferenza i prodotti europei a buon mercato invece del prodotto locale. Tra i benestanti però il batik genuino sarà sempre ricercato ed apprezzato, perché inimitabile, mentre alle corti di Djokja e Solo l'avvenire di un'arte talmente caratteristica e perfino indispensabile anche per ragioni di culto e per le cerimonie di corte, pare ben assicurato dalla tradizione stessa.
Batik europeo. - Negli ultimi decennî anche le signore europee, in Olanda prima, in Germania e in Inghilterra poi, hanno cominciato a fare lavori a batik, ma ben raramente applicano la tecnica giavanese in tutta la sua complicata originalità. Spesso anzi le loro tecniche semplificate non hanno molto di comune col vero batik. Un ottimo laboratorio di batik esiste in Italia, nell'isola di Capri.
Bibl.: Schmidt, Die Batikkunst, Stoccarda 1909; Rouffaer e Juynboll, Die indische Batikkunst, voll. 4, 1900-905; id., in Nederl. Indie, Haarlem 1914; Jasper e Pirngadi, De Batikkunst, L'Aja 1916.