SINIGARDI, Bartolomeo (Bartolomeo di ser Gorello di Ranieri). – Nacque ad Arezzo: nella sua opera egli ci dice il giorno della sua nascita (18 maggio, san Giovanni), ma non l’anno. Suo padre era il notaio Goro (o Gorello)
figlio di Ranieri, egli pure notaio. Il nome della madre non è conosciuto. Ebbe un fratello, Giovanni, che fu notaio, e una sorella, Simona.
Sinigardi esercitò il notariato, almeno dal 1346, quando il suo nome compare per la prima volta tra quelli registrati nella matricola aretina: a quel tempo, quindi, egli doveva avere superato il ventesimo anno d’età, necessario per essere notaio, e possiamo così dedurre che era nato verso il 1325, come conferma il fatto che nella cronaca si ricorda testimone di avvenimenti risalenti al 1335 (Cronica..., a cura di A. Bini - G. Grazzini, 1917-1922, pp. 34, 217 s., e qui sotto).
Sempre in quel periodo risulta residente ad Arezzo, nel quartiere di porta Crucifera, nella contrada «a Perinis ad Colcitronem» (Cronica..., cit., p. VI). Al tempo aveva già sposato una donna di nome Giovanna di cui non si conosce la famiglia d’origine; i due sembra non ebbero figli, almeno che raggiunsero l’età adulta.
La sua attività di notaio scrittore della documentazione privata è attestata ad Arezzo dal 1353 al 1361 (si conservano un suo quaderno delle imbreviature e un registro di atti suoi e del fratello Giovanni: Arezzo, Archivio capitolare, Fondo canonicale, 878 bis e 869). In quel periodo, come lascia intendere egli stesso nella Cronica (p. 49, vv. 317-318), ricoprì anche un non meglio definito incarico pubblico. Negli anni 1362 e 1363 fu a Todi, giudice delle riformagioni. Rientrò quindi ad Arezzo almeno dal 1365, e riprese la sua vita pubblica di notaio e magistrato (Cronica..., cit., p. 67, vv. 98-99). Dopo il 1380 la difficile situazione aretina segnò anche le vicende biografiche di Bartolomeo che – legato alla fazione ghibellina – fu costretto a più riprese a lasciare la città: al 1382 risalgono atti da lui rogati presso il castello di Pietramala e nel 1385 lo si trova vicario ad Anghiari. Dal 1387 ritornò ad Arezzo dove è attestato sino al 1393, presumibile anno della sua morte.
Probabilmente negli ultimi anni della sua vita – certo dopo il 1384 e forse anche dopo il rientro ad Arezzo nel 1387 – Bartolomeo pose mano alla composizione della sua lunga cronaca in versi divisa in venti canti, l’unico testo da lui composto che si conserva, a eccezione di un sonetto (edito in U. Pasqui, Documenti..., 1904, pp. 104 s.).
Nella riedizione delle cronache aretine condotta da Arturo Bini e Giovanni Grazzini per il quindicesimo tomo della ristampa muratoriana, le informazioni sulla vita di Bartolomeo e sulla tradizione manoscritta della sua cronaca si leggono nell’introduzione alla sua Cronica dei fatti d’Arezzo, mentre l’analisi dell’opera (o piuttosto un suo riassunto) trova posto principalmente nell’introduzione al Liber Inferni Aretii di Giovanni De Bonis, altro poema d’argomento storiografico relativo alle vicende aretine composto nell’ultimo quarto del Trecento.
La lettura della Cronica di Bartolomeo, accostata a quella del Liber di De Bonis, induce a ricondurre questa produzione letteraria aretina di fine XIV secolo a quei componimenti in versi d’argomento storiografico riconducibili alla forma del lamento in cui si erano cimentati alcuni autori, soprattutto toscani, della generazione precedente a quella di Bartolomeo, come il fiorentino Antonio Pucci o il magister Gregorio (Goro) d’Arezzo. Inoltre nei suoi versi sono numerosi i richiami alla Divina Commedia, alla quale si fa anche un riferimento esplicito a proposito della mala inclinazione dei senesi (Cronica..., cit., p. 178, v. 267).
La Cronica di Bartolomeo si apre con un primo canto (nella tradizione manoscritta i canti sono detti capitula) che funge da prologo. In esso il poeta racconta che, giunto ai cinquantaquattro anni d’età, quando i capelli cominciano a imbiancarsi (sembra di cogliere qui l’eco di un componimento di Geri d’Arezzo), ebbe in sonno una visione (non dovuta all’abuso di cibo, egli specifica, forse in omaggio a una tradizione poetica aretina segnata dai versi di magister Gregorio che fu medico) durante la quale gli apparvero la Superbia, l’Avarizia (una dantesca lupa, ma che ha l’aspetto di una vecchia magra e con la borsa al collo) e l’Invidia, le tre cause del male che corrodeva la sua città. Nel secondo canto (che come quasi tutti quelli seguenti è introdotto da una rubrica in latino) al fare del mattino seguente alla notte della visione, Bartolomeo scrive di avere visto un vecchio che si lamentava: si tratta di Arezzo che secondo il poeta avrebbe l’aspetto di un profeta biblico – richiama in effetti l’immagine del Comune in signoria che si vede nel monumento funebre del vescovo Guido Tarlati – ma le sue vesti sono stracciate, i capelli scompigliati e il volto rigato di sangue.
Il racconto è a questo punto piuttosto confuso. Non è ben chiaro se Bartolomeo abbia voluto dare ai suoi versi il tono della profezia: sembra infatti che la visione abbia avuto luogo nel 1381 (l’autore, che dichiara di avere al tempo 54 anni, sarebbe dunque nato nel 1327, data confermata da quanto altro sappiamo di lui), poi però si raccontano come già avvenuti gli avvenimenti che, nel 1384, avrebbero portato alla fine della libertà aretina. A ogni modo sin dal secondo canto è chiarito lo svolgimento dell’opera: Arezzo avrebbe raccontato all’autore la sua storia senza mentire e costui si sarebbe impegnato a redigere un’opera in cui con precisione avrebbe affidato alla scrittura le parole della città. Per vivacizzare l’esposizione Bartolomeo decise di dare al suo poema veste di dialogo in cui al racconto di Arezzo si intercala la voce del narratore che interviene con domande e commenti.
La narrazione ha inizio dal tempo degli Etruschi, arriva rapidamente a Totila – confuso come spesso accade nelle cronache toscane con Attila – e all’affermazione della religione cristiana in città, poi propone un lungo elenco di famiglie aretine. Nel terzo canto si ricordano la battaglia di Campaldino (1289) e, più in generale, la contrapposizione tra Arezzo e Firenze. Dal quarto canto il centro della narrazione è costituito dalle gesta di Guido Tarlati di Pietramala, dal 1312 vescovo e dal 1321 anche signore della città, per il quale il poeta ha parole di grande elogio (per es., Cronica..., cit., pp. 28 e 29, vv. 40 e 66). Ma alla morte del vescovo gli altri membri della famiglia Tarlati (cui pure la cronaca riserva gran risalto) non si mostrarono all’altezza della sua eredità e Arezzo finì nell’orbita di Firenze che ne ebbe il controllo sino al tempo della cacciata di Gualtieri di Brienne, il duca d’Atene. Il quinto canto si conclude con la ritrovata autonomia aretina a guida guelfa, che però coincide con un periodo di lotte interne e di scontri con le città vicine – Perugia in particolare – cui è dedicato il canto seguente. In questi versi – come in genere nell’opera – Bartolomeo seppe alternare informazioni dedicate alla vicenda interna aretina, riportando con costanza numerosi nomi di suoi concittadini, a notizie di più largo respiro. Nel settimo canto il racconto giunge ormai agli anni Sessanta del Trecento, un periodo in cui Bartolomeo fu testimone bene informato delle vicende aretine che a più riprese afferma di raccontare in modo veridico. La narrazione scorre poi veloce sino a giungere al 1380 (nono canto) quando sulla scena cittadina si presentò Carlo di Durazzo, che tante aspettative destò in Arezzo, come la città stessa racconta al poeta. Il racconto giunge così a quel 1381 in cui era avvenuto l’incontro tra Bartolomeo e Arezzo e la città continua a narrare le sventure che l’hanno colpita e che l’autore ben conosce per avervi assistito (come Arezzo stesso gli ricorda: Cronica..., cit., p. 94, v. 180).
Il racconto delle vicende interne ora è assai dettagliato. Non mancano i nomi e nemmeno le critiche dei comportamenti degli aretini, eppure Arezzo ritiene che non tutte le colpe possano essere affidate alla memoria e invita il cronista a non registrare i nomi di alcuni suoi concittadini che pure gli erano ben noti (p. 106, vv. 190-192) e ai quali si doveva l’inganno che aveva impedito una riappacificazione tra guelfi e ghibellini in città. Dal canto undicesimo cominciano ad avere risalto le conseguenze che gli scontri interni tra le fazioni cittadine avevano sul contado aretino e sulla difficoltà di mantenerne il controllo. Una speranza sembrò sollevare l’azione di Ludovico Tarlati di Pietramala, che accompagnò Iacopo Caracciolo vicario di Carlo di Durazzo al suo ingresso in città, ma anche la sua azione non ebbe successo e la città perse così l’indipendenza. A questo punto Bartolomeo mostra Arezzo e il poeta che si separano: il personaggio che incarna la città decide di partire per una sorta di esilio, Bartolomeo vorrebbe seguirlo, ma Arezzo gli nega il permesso di accompagnarlo – si tratta di andare troppo lontano – e si incammina da solo, lamentandosi e girandosi di tanto in tanto per guardare la città di pietra che abbandona. Bartolomeo di nascosto insegue Arezzo e ne ascolta il lamento: la città ha perduto la libertà e il suo contado (le cui località vengono enumerate in molti versi del quattordicesimo canto: Cronica..., cit., pp. 137 e 141, vv. 40 e 100). Alla fine del quattordicesimo canto Bartolomeo lascia Arezzo, quasi svenuto per il dolore di tutti i suoi mali. Da questo punto il poema muta registro: al racconto della città si sostituisce il lamento del poeta che narra in prima persona le tristi vicende della sua città. La Cronica è ormai giunta al 1383, Bartolomeo continua a registrare i fatti tragici che toccano la sua città e, a questo punto, inserisce un nuovo espediente stilistico: al dialogo tra Arezzo e il poeta, si sostituisce l’uso di rivolgersi di tanto in tanto al lettore (pp. 169 e 171, vv. 52-54 e 118-120). Il poema di fatto termina con il diciottesimo canto, nel quale si racconta di come Arezzo cadde nelle mani dei fiorentini dopo essersi a lungo soffermato sulle sventure incorse alla città saccheggiata da soldati di ventura. L’opera giunge mutila perché già il diciottesimo canto è incompleto e del diciannovesimo e ventesimo rimangono solo brevi lacerti.
La Cronica di Bartolomeo non ha riscosso grande fortuna tra gli studiosi. Spesso criticato per il suo modesto talento di versificatore, Bartolomeo non è tuttavia stato valutato per quel significativo testimone del suo tempo che in effetti fu. Notaio, anche per tradizione familiare, esponente, se pure non attivo in ruoli di primo piano, delle istituzioni cittadine e della fazione ghibellina, egli affidò alla sua opera le preoccupazioni comuni ai ceti cittadini dei centri di tradizione comunale che vedevano terminare la loro indipendenza.
Nel XV tomo dei Rerum Italicarum scriptores (Milano 1729) Ludovico Antonio Muratori ha pubblicato una Cronaca in terza rima intorno a i fatti della città d’Arezzo, attribuendola a un certo Gorello (diminutivo di Gregorio) di Ranieri di Iacopo Sinigardi, notaio aretino. Così facendo Muratori accolse una tradizione cittadina che voleva ricondurre un non meglio identificato Gorello, al quale numerosi codici – tutti di età moderna – attribuiscono la paternità di una cronaca in versi, tra gli esponenti della nobile famiglia dei Sinigardi di Arezzo. Ma ricerche seguenti – conclusesi con la messa a punto di Ubaldo Pasqui (Documenti..., cit., pp. 103 s.) – hanno dimostrato l’estraneità del cronista alla famiglia Sinigardi e stabilito che il suo nome era Bartolomeo di ser Gorello di Ranieri, confermandone la professione notarile.
Fonti e Bibl.: U. Pasqui, Documenti per la storia d’Arezzo nel medio evo, IV, Arezzo 1904, pp. 103 s.; Cronica dei fatti d’Arezzo di ser Bartolomeo di Ser Gorello, a cura di A. Bini - G. Grazzini, in RIS, XV, 1, Bologna 1917-1922 (edizione riproposta in formato elettronico, http://www.classicitaliani.it/trecento/gorello_cronica_arezzo.htm; 23 giugno 2018).
L. Fatini, Il culto di Dante in Arezzo, in Dante in Arezzo, a cura di L. Fatini, Arezzo 1922, pp. 167-171; Liber Inferni Aretii. Cronica in terza rima di Giovanni L. de Bonis, a cura di A. Bini, in RIS, XV, 1, Bologna 1933, pp. XVII-XXIX; L. Morreale, Bartolomeo di ser Gorello, in The Encyclopedia of the Medieval Chronicle, I, Leiden-Boston 2010, p. 146.