SCHEDONI, Bartolomeo
– Nacque a Modena il 13 gennaio 1578, primogenito di Giulio (originario di Formigine) e di Giulia Zardi.
Sulla sua formazione mancano documenti, ma l’attività del padre, commerciante e forse anche artigiano di maschere, settore in cui i modenesi erano specializzati, ne favorì l’accesso al mondo della pittura. Nel 1594 si trovava a Parma, insieme al padre, alla corte dei Farnese. Nello stesso anno, per interessamento del duca Ranuccio I, fu mandato a Roma ad apprendere l’arte pittorica all’Accademia di S. Luca, diretta da Federico Zuccari. Già nel settembre del 1595 ritornò in Emilia a causa di una «malatia che accenna lunghezza», come lo stesso Zuccari riferì a Ranuccio (Ronchini, 1869, p. 13). Nel marzo del 1597 era di nuovo al servizio del duca di Parma come pittore, mentre nel 1599 stipulò a Modena un contratto per un’Adorazione dei Magi (perduta) per le monache di S. Eufemia. Non è noto l’accordo per la pala del Rosario (anch’essa smarrita) destinata alla parrocchiale di Formigine, luogo di provenienza della famiglia.
Incertezze permangono pure sulla sua fase reggiana: la notizia che nel 1599 lavorasse a Reggio per decorare un «camerone» nel palazzo del nobile Stefano Scaruffi emerge da un interrogatorio cui fu sottoposto a Parma nel marzo del 1600, dopo essere stato arrestato per aver teso un agguato a un individuo che infastidiva una sua amica, la prostituta Giulia de’ Rossi (Dallasta, 2015, p. 91).
All’epoca dell’arresto il pittore dichiarava di essere ospite dell’amico parmigiano Paolo Camillo Farasio e confessava un altro episodio criminale occorsogli l’anno precedente. Il soggiorno a Reggio e i frequenti spostamenti fra Parma e Modena erano dettati evidentemente dall’esigenza di sfuggire alla giustizia, ma si deve ricordare che i legami fra le corti estense e farnesiana erano intensi e coinvolgevano gli artisti, favoriti dalla presenza a Parma del conte Nicolò Cesi, modenese al servizio di Ranuccio I. Dal carcere parmense fu liberato, dietro pagamento di una cauzione di 100 scudi d’oro, da un impiegato della tesoreria ducale parmense, Alfonso Anghinolfi, personaggio che sarebbe riapparso nel corso della vita di Schedoni fino a essere citato nel testamento del 1615.
Nel 1600, quando fu arrestato, Schedoni si stava dedicando, insieme ai colleghi Innocenzo Martini e Bernardino Buj, alla decorazione della parete esterna del monastero benedettino di S. Paolo, davanti al quale sarebbe passato il corteo nuziale di Ranuccio I e della sposa Margherita Aldobrandini. Nel 1601 fu chiamato dal Farnese a far parte dell’équipe incaricata di decorare la sala maggiore del palazzo del Giardino, la residenza dei duchi di Parma, accanto al citato Martini, al fiammingo Jan Soens e al cremonese Giambattista Trotti, detto il Malosso.
L’anno successivo si impegnò, invece, nel rinnovamento decorativo della vecchia residenza del duca Cesare d’Este a Modena, impresa resasi necessaria in seguito al trasferimento della corte estense a Modena, conseguentemente alla devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio nel 1598. Dipinse infatti nel 1602-03 all’interno del «camerino di Sua Altezza» (Lodi, 1978, p. 50), nel 1604 sulle pareti del cortile del primitivo palazzo ducale; nello stesso anno eseguì diversi ritratti «grandi e piccoli» (p. 50), nel 1605 nove quadri per il soffitto della «Cappellina di Sua Altezza» (p. 51), nel 1606 lo Sposalizio della Vergine destinato allo stesso ambiente (oggi, Modena, Galleria Estense; Guandalini, 1980, pp. 35-37). In queste imprese fu affiancato dai propri fratelli Giambattista e Domenico, decoratori e doratori.
Già nel 1604, però, alle commissioni ducali accostò quelle municipali, essendogli stata affidata la decorazione del soffitto della sala del consiglio comunale di Modena, da condurre in collaborazione con Ercole dell’Abate. Il progetto iconografico elaborato dal letterato modenese Ludovico Castelvetro (Miller, 1982, pp. 17-29) prevedeva scene tratte dalla storia antica o dal mito (Coriolano e Armonia assegnati a Schedoni; Menecio Tebano ed Ercole a dell’Abate) e un fregio: il tutto da realizzare ad affresco. Tuttavia per ragioni conservative i pittori e i committenti optarono per la tecnica delle tele a olio riportate sul soffitto. Nel corso dell’impegnativa impresa Schedoni, ormai apprezzato e molto richiesto, fu distratto da altri lavori: per i conti Ronchi di Fiorano Modenese, per i marchesi Bentivoglio di Gualtieri (Reggio Emilia) e ancora per gli Estensi, cosicché la documentazione registra molte interruzioni. Il 30 giugno 1606 il duca Cesare e il cardinale Alessandro d’Este si impegnarono, da parte loro, per consentire la conclusione dell’impresa municipale, a limitare gli incarichi da affidare a dell’Abate e a Schedoni, ma quest’ultimo fu coinvolto in due nuovi episodi di violenza che lo portarono in un caso all’arresto e nell’altro alla fuga da Modena.
Nel corso degli ultimi mesi del 1607 si spostò a Gualtieri presso Ippolito Bentivoglio e il primo dicembre entrò alle dipendenze di Ranuccio I Farnese, lasciando incomplete le pitture del palazzo comunale di Modena, poi concluse da dell’Abate. Il contratto siglato con il duca di Parma gli garantiva un consistente stipendio trimestrale (106,50 scudi), gli permetteva di avvalersi della collaborazione dei fratelli (che formavano la sua ‘bottega’) e lo obbligava, tuttavia, a non accettare ulteriori incarichi da altri committenti, senza l’approvazione della corte. Il Farnese pretese addirittura che una pala d’altare commissionata e già pagata a Schedoni dal nobile modenese Magnanino Magnanini e ormai quasi terminata al momento dell’assunzione alla corte di Parma fosse ceduta al nuovo padrone (oggi infatti è conservata a Napoli, Museo nazionale di Capodimonte, dove sono confluite le raccolte farnesiane). Del resto, quando nel 1610 il cardinale Federico Borromeo gli richiese la copia della Zingarella del Correggio, egli poté accettare solo perché il duca acconsentì (l’opera è oggi a Milano, Pinacoteca Ambrosiana).
Fu lo stesso Ranuccio a individuare una sposa per il pittore (Barbara Saliti, figlia del fattore ducale Paolo) e a donargli, in occasione delle nozze nel 1613, l’usufrutto di alcuni appezzamenti fondiari nel territorio parmense. Il poeta Giambattista Marino festeggiò il lieto evento con un epitalamio, nella speranza di convincere il pittore a mandargli un suo disegno da inserire nella Galeria, che in quegli anni stava componendo. In effetti l’ottenne e lo sottopose al giudizio degli «intendenti», che lo giudicarono «un miracolo», come testimoniano alcune lettere dell’epistolario mariniano (Marino, 1911, pp. 145 s.).
Nel 1614 Schedoni consegnava due fra le sue opere più celebri: la Deposizione di Cristo nel sepolcro e Le Marie al sepolcro (Parma, Galleria nazionale), grandi tele oblunghe destinate alla chiesa del convento cappuccino di Fontevivo (fra Parma e Fidenza), la cui fondazione era stata voluta e finanziata da Ranuccio Farnese. A vari ambienti di questo complesso cenobitico Schedoni dedicò, con la collaborazione dei fratelli e di altri aiutanti, la propria attività negli ultimi anni di vita, lasciando però incompiuta la vasta impresa, che comprendeva un affresco nel coro raffigurante La Sacra Famiglia con i ss. Francesco e Chiara (oggi, staccato, a Fontanellato, Rocca Sanvitale), un’Ultima cena (Parma, Galleria nazionale) e nove tele con i santi cui sono dedicate le principali basiliche romane (attualmente smembrate fra Napoli, Palazzo Reale e Capodimonte; Palermo, Galleria regionale della Sicilia e Museo diocesano). Il ciclo si sarebbe dovuto completare con affreschi nelle volte e sulle pareti della chiesa, ma a causa della malattia e della morte dell’artista le decorazioni vennero realizzate da altri pittori, a tutt’oggi di incerta identificazione.
Benché Schedoni nel maggio del 1614 si definisse «molto debole» (Lodi, 1978, p. 64), in dicembre poté ricevere l’onorificenza della cittadinanza parmigiana e nel luglio del 1615 veder nascere il proprio figlio, a cui impose il nome di Ranuccio, in segno di gratitudine verso il duca, che ne fu il padrino presso il battistero di Parma. Gli ultimi mesi di vita furono amareggiati dal rifiuto da parte dei committenti della pala d’altare dipinta per la cappella di S. Giuseppe nella basilica della Madonna della Steccata a Parma, raffigurante Sacra Famiglia con s. Giuseppe al tavolo da falegname. Il dipinto (oggi a Napoli, Palazzo Reale) fu però subito acquistato dalla Confraternita della Concezione eretta nella chiesa di S. Francesco a Piacenza, su interessamento del duca e di uno dei suoi più stretti collaboratori, il tesoriere Cesare Riva. Ma già nel settembre del 1615 Schedoni si definiva «in letto amalato» (Dall’Acqua, 1982, p. 267) ed era costretto a trascurare vecchie e nuove commissioni, come quelle già citate per i cappuccini di Fontevivo, per la chiesa dei Gesuiti di Parma (Cristo appare a s. Ignazio di Loyola, Parma, S. Rocco; Deposizione di Cristo dalla croce, Parigi, Musée du Louvre, realizzate da altri artisti) o per la Confraternita di S. Bernardino a Carpi (Modena), tutte approvate dal duca.
Il 20 dicembre 1615 dettò testamento e nominò come tutore del figlio lo stampatore parmigiano Anteo Viotti.
Morì il 23 dicembre nella propria casa di Parma, nei pressi della parrocchia di S. Uldarico, e venne sepolto nella vicina chiesa dei Carmelitani (la tomba è andata dispersa in epoca imprecisabile; Lodi, 1978, p. 53).
Subito dopo fu redatto l’inventario post mortem con l’elenco delle tele non finite, che fornisce elementi sulla vita privata del pittore e sulla sua produzione artistica. Attestazioni di stima giunsero da Modena, in particolare dal poeta di corte Fulvio Testi, il quale alla triste notizia compose una canzone che celebrava la capacità di Schedoni nell’imitare la natura. Il naturalismo correggesco fu, infatti, il suo modello di partenza, appreso mediante la copia e il restauro delle pale d’altare e degli affreschi dell’Allegri per le chiese di Modena, Reggio e Parma. Lo Schedoni citò così spesso le opere del Correggio che i primi biografi, come Lodovico Vedriani, ne sottolinearono la naturale capacità di far rivivere gli «spiriti» del «sovrano maestro». Era stimolato in questo dal successo ottenuto dai Carracci e dai loro allievi in Emilia e a Roma, mentre ulteriori spunti gli giunsero, intrecciandosi nella sua formazione, da Guido Reni e da Caravaggio, specialmente da quando egli assunse il ruolo di primo pittore alla corte farnesiana. In questo ambiente pesò anche l’apporto innovativo dello scultore Francesco Mochi, che dal 1612 si era stabilito fra Parma e Piacenza per la realizzazione delle due statue equestri di Alessandro e Ranuccio Farnese destinate alla piazza civica di Piacenza.
In base allo stile e ai soggetti raffigurati la produzione del pittore può essere suddivisa in tre fasi: nella giovinezza egli superò il manierismo seguendo l’esempio correggesco, ma limitandosi sempre a piacevoli scene sacre (due piccole tele con Volti infantili a Torino, Galleria Sabauda; Annunciazione presso l’oratorio dell’Annunciata a Formigine; S. Geminiano nella sala capitolare della cattedrale di Modena; Gesù e s. Giovannino abbracciati nella Galleria Pallavicini di Roma; diverse Sacre Famiglie). Negli anni in cui si spostava fra più località emiliane per sfuggire alla giustizia e per trovare i migliori committenti si appropriò di un linguaggio più originale e drammatico, adatto anche a soggetti seri e impegnativi (Sposalizio della Vergine, Modena, Galleria Estense; Sacra Famiglia con s. Giovannino e s. Francesco d’Assisi, Milano, Pinacoteca di Brera; S. Maria Maddalena penitente, Bologna, collezione privata; Utili, 1995, pp. 307-310). Dopo l’assunzione alla corte parmense nel 1607 il rinnovamento si fece più evidente, per rispondere alle richieste e ai gusti del nuovo patrono, a sua volta condizionato dal cugino Mario Farnese, duca di Latera, arbiter elegantiarum aggiornatissimo sulle tendenze artistiche romane. Lasciati da parte, quindi, i volti sorridenti delle Madonne e dei Bambini adottati nei dipinti giovanili, Schedoni cominciò a rappresentare episodi densi di pathos della vita di Cristo (Ecce Homo e Il tributo della moneta, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte) o dei santi (S. Girolamo in preghiera e S. Giovanni Battista, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte e Palazzo Reale). Anche soggetti dall’iconografia di per sé soave come il Riposo nella fuga in Egitto (in due versioni: a Capodimonte e in collezione privata tedesca; per quest’ultima v. Melzi D’Eril, 1971, p. 77) sono ora risolti con un’impostazione sapiente e studiata dei piani spaziali e con l’introduzione di dettagli drammatici, come il cielo tempestoso, la vegetazione mossa dal vento e il sentiero pietroso, per sottolineare la difficoltà del cammino. La tavolozza diventa più scura e i contrasti di luce più forti, specialmente in alcune grandi pale caratterizzate dalla presenza di molti attori: la citata Sacra Famiglia con s. Giuseppe al tavolo di falegname (Napoli, Palazzo Reale), la Sacra Famiglia in gloria adorata dai ss. Lorenzo, Giovanni Battista, Francesco d’Assisi e Pellegrino (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte: commissionata dal Magnanini e sottratta da Ranuccio Farnese), Il “precetto” del Faraone (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), La carità al cieco (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), L’incontro di Gioacchino e Anna alla Porta Aurea (Napoli, Palazzo Reale, di cui esistono altre versioni al Museo Amedeo Lia di La Spezia e allo Statens Museum for Kunst di Copenaghen) e il ciclo per Fontevivo (Ultima cena; Deposizione di Cristo nel sepolcro; Le Marie al sepolcro, Parma, Galleria nazionale; otto tele per le nove cappelle esterne della chiesa, ora presso i musei napoletani e palermitani). Il realismo caravaggesco emerge in molte opere di quest’ultima fase, come nel Ritratto di Vincenzo Grassi, calzolaio di corte (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), in alcuni dettagli a trompe l’oeil, e specialmente nella Deposizione di Cristo nel sepolcro per Fontevivo, dove si notano citazioni dalla Deposizione del Merisi oggi alla Pinacoteca Vaticana e dalla Vocazione di s. Matteo nella cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi a Roma. Le Marie al sepolcro (1614), pur contemporanee a queste opere, sembrano invece unire la lezione del Merisi a quella del Reni. I panneggi appaiono come scolpiti, quasi che Schedoni avesse voluto misurarsi con la tecnica del Mochi.
Fra le opere non finite, ma presenti nell’atelier del maestro alla sua morte, figura un S. Sebastiano ferito, assistito dalle pie donne (Napoli, Museo nazionale di Capodimonte), che mostra il santo in scorcio, disteso nudo su una pietra squadrata che, con il suo spigolo anteriore rivolto verso il riguardante, lo invita a entrare emotivamente nella scena. È la sintesi fra realismo caravaggesco (studio anatomico) e classicismo reniano (geometrizzazione delle masse).
Di Schedoni sono rimasti diversi disegni preparatori in carboncino o a sanguigna, talvolta quadrettati e con rialzi in biacca, e un’incisione a bulino raffigurante la Sacra Famiglia, impressa dal tipografo romano Gian Giacomo Rossi, e nota in tre stati (il disegno preparatorio si trova a Firenze, Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi). Lo Schedoni ebbe due allievi modenesi che formarono la sua ‘bottega’ a Parma: Bernardo Cervi e Stefano Gavassini, e numerosi imitatori, che ne copiarono le opere.
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