SAVIO, Bartolomeo
SAVIO, Bartolomeo (Bartolomeo Francesco Savi). – Nacque a Genova il 17 gennaio 1820 da Francesco, uno straccivendolo da poco immigrato in città che morì poco dopo, e da Rosa Ghilino, una popolana originaria del sobborgo di Sant’Olcese.
Sarebbe stato poi lo stesso Bartolomeo a modificare il cognome in Savi, così come ad aggiungere il nome paterno Francesco nella firma.
Nonostante gli scarsi mezzi economici e una salute cagionevole riuscì a seguire un corso regolare di studi fino all’iscrizione ai corsi universitari di filosofia, per proseguire poi privatamente da semiautodidatta.
Classicismo repubblicaneggiante, aspirazioni patriottiche e sensibilità romantica, con un chiaro ed evidente riferimento al modello foscoliano e in particolare all’Ortis, e una spiccata attenzione per le concrete problematiche sociali, dovuta sia alla sua esperienza personale sia agli influssi della tarda filosofia illuministica, costituirono fondamentalmente l’orizzonte intellettuale di Savi.
Rifiutata nel 1840 la cattedra di lingua greca al liceo di Lugo per non lasciare sola la madre, Savi iniziò a lavorare come precettore presso alcune nobili famiglie genovesi. Conobbe così la marchesa Barbara Brignole-Tagliacarne, vedova e più anziana di lui di vent’anni, che costituì per Savi una figura di riferimento quasi materna con la quale intessé un’affettuosa amicizia destinata a consolidarsi negli anni.
L’adesione al movimento repubblicano maturò nel clima del lungo Quarantotto genovese, nei cui eventi ebbe tuttavia un ruolo marginale. Proprio l’assenza di un passato rivoluzionario consentì a Savi di occupare, dai primi anni Cinquanta, una posizione di primo piano nella costruzione di una struttura organizzativa democratica legale che affiancasse la rete clandestina rivoluzionaria: nel febbraio del 1851 venne eletto nel comitato di amministrazione della neonata Associazione di mutuo soccorso; il 30 marzo fu la volta del Tiro nazionale, di cui fu a lungo segretario; nello stesso anno partecipò alla fondazione del Comitato di soccorso dell’emigrazione italiana di cui nel 1853 sarebbe stato scelto come delegato; infine, alle elezioni amministrative, tenutesi nello stesso 1851, fu eletto, con 123 voti, in Consiglio comunale.
Nel giugno partecipò alla fondazione del giornale Italia e Popolo, di cui assunse la direzione a partire dal 26 febbraio 1852, con enormi sacrifici anche personali, compresa la mancata riscossione per mesi di qualunque forma di retribuzione.
Nonostante le difficoltà di gestione, Savi salvaguardò costantemente l’autonomia del periodico anche a costo di una dura polemica con Giuseppe Garibaldi, nel 1854, e malgrado l’insoddisfazione di Giuseppe Mazzini che avrebbe voluto una linea più ligia alle sue indicazioni.
Savi, infatti, pur fedele alla linea mazziniana, fece dell’Italia e Popolo uno spazio di dibattito aperto, attento ai dibattiti europei, ma anche alle iniziative messe in campo dalle associazioni operaie e democratiche, spesso anche con la sua partecipazione diretta. Infatti, se il giornale costituì in quegli anni la principale responsabilità di Savi egli comunque non abbandonò il suo coinvolgimento nelle organizzazioni operaie.
Nel 1853 fu tra gli artefici della nascita della Confederazione operaia genovese. In quello stesso anno, al congresso operaio di Asti, facendosi sostenitore della svolta politica in senso nazionalpatriottico del mutualismo operaio, presentò un ordine del giorno, respinto dall’assemblea, che chiedeva l’apertura dei congressi operai ai delegati di tutte le province d’Italia. Savi partecipò attivamente anche ai congressi di Genova del 1855, di Vigevano del 1856 e di Novi del 1859, caratterizzandosi per la capacità di combinare concretezza riformatrice e un’ampia visione politica che individuava nell’emancipazione delle classi popolari – esemplificata dalla richiesta del suffragio universale – la premessa piuttosto che la conseguenza dell’unità nazionale.
Tra il 1854 e il 1856, partecipò all’organizzazione dei tentativi insurrezionali al confine tra Liguria e Lunigiana, e sostenne, anche in contrasto con Mazzini, l’opportunità di un’insurrezione della stessa Genova. Nell’agosto del 1856 lanciò dalle colonne dell’Italia e Popolo la petizione dei 10.000 fucili, ponendosi così su un piano di azione extralegale, e iniziò a collaborare con la Libera parola di Carlo Pisacane, aderendo alla linea della ‘propaganda del fatto’ sostenuta da quest’ultimo.
Nel febbraio del 1857 l’Italia e Popolo venne sostituita da un nuovo giornale, l’Italia del Popolo, diretto sempre da Savi, e in esplicita continuità con il primo.
Nei mesi successivi, pur essendo a conoscenza del progetto e condividendolo, rimase estraneo all’organizzazione effettiva della spedizione di Pisacane e della contemporanea insurrezione della città, forse perché completamente assorbito – come gli rimproverava lo stesso Mazzini – dalla gestione dell’Italia del Popolo.
Venne comunque coinvolto nella repressione che seguì il fallimento del moto genovese. Arrestato il 2 luglio 1857, nonostante l’assenza totale di prove, venne condannato, alla fine di marzo del 1858, a dieci anni di lavori forzati, poi commutati, a causa delle sue precarie condizioni fisiche, in carcere ‘semplice’, prima a Saluzzo e poi a Ivrea, dove la sua salute subì un ulteriore pesante aggravamento, e da dove uscì solo all’inizio di maggio del 1859, grazie all’amnistia promulgata in seguito allo scoppio della seconda guerra d’indipendenza.
Rientrato a Genova, dove nel frattempo la persecuzione governativa aveva portato alla fine dell’Italia del Popolo, a marzo del 1860 fu tra i promotori del quotidiano L’Unità italiana.
Alla notizia dell’insurrezione siciliana Savi si schierò tra i sostenitori della necessità di un’azione immediata, collaborando all’estensione del Proclama ai Siciliani di Garibaldi. Arruolatosi nei carabinieri genovesi, seguì Garibaldi in Sicilia, affiancando all’impegno militare l’attività di corrispondente per L’Unità italiana. Malgrado una lieve ferita a Calatafimi e il peggioramento della sua salute, rifiutò di entrare nel ministero siciliano come responsabile dell’Istruzione e continuò a combattere raggiungendo il grado di capitano e venendo decorato con la medaglia d’argento al valor militare.
Accettato l’incarico di giudice militare restò a Napoli fino a dicembre del 1860 collaborando con il Popolo d’Italia.
Tornato a Genova, si impegnò per il superamento della spaccatura tra i comitati di provvedimento garibaldini e le mazziniane associazioni unitarie promuovendo la nascita dell’Associazione emancipatrice italiana, della quale stese lo statuto e di cui il 9 marzo 1862 venne eletto segretario.
Dopo lo scioglimento dell’Associazione emancipatrice in seguito ai fatti di Aspromonte, fu tra i partecipanti alla riunione indetta da Mazzini a Lugano il 16 settembre 1862 per riorganizzare il ‘partito’ repubblicano e dar vita alla Falange sacra, di cui fu tra i primi aderenti.
Più ancora che dall’attività politica e patriottica, gli anni Sessanta furono caratterizzati dal rinnovato impegno nelle società operaie, la ‘sua partita’, secondo l’icastica definizione di Mazzini.
Savi si concentrò in particolare sullo sviluppo a livello nazionale della rete associativa e sul superamento del mutualismo puro sostenuto dai moderati. La rottura con questi ultimi avvenne nel congresso operaio nazionale di Firenze del settembre 1861, in cui Savi giocò un ruolo chiave nella vittoria della linea ‘politicista’ mazziniana, consacrato dalla sua elezione nella commissione direttiva permanente.
Al congresso successivo, tenutosi a Parma nel 1863, fu confermato nella commissione direttiva e gli fu affidata la direzione del Giornale delle associazioni operaie italiane.
Alle elezioni amministrative del luglio 1864 fu rieletto nel Consiglio comunale di Genova con 617 voti. Alla fine di ottobre di quello stesso anno, partecipò al congresso operaio di Napoli, dove fu incaricato di redigere, su uno schema di Mazzini, l’Atto di reciprocanza (il futuro Patto di Fratellanza).
Non mancarono tuttavia per Savi contrasti e critiche anche in quegli ultimi anni. Nel luglio del 1864 la pubblicazione sul Diritto di una dichiarazione firmata ‘alcuni ufficiali garibaldini’, ma di pugno di Savi, che criticava l’idea di una spedizione nei Balcani guidata da Garibaldi, provocò aspre polemiche: d’altra parte, le difficoltà nella gestione delle società operaie e in particolare del Giornale, furono all’origine di dure critiche da parte di Mazzini che ne attribuiva la responsabilità a Savi.
Le critiche e le difficoltà del lavoro organizzativo finirono per incidere pesantemente sulla sensibilità ‘ortisiana’ di Savi. Un peggioramento delle condizioni di salute fece precipitare definitivamente la situazione: nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1865, dopo aver avuto ripetuti sbocchi di sangue che lo convinsero dell’irrimediabilità del suo male e dell’imminenza della fine, si uccise nella sua casa di Genova con una rivoltellata al petto.
Fonti e Bibl.: Gran parte delle carte appartenute a Savi furono da lui stesso bruciate nel corso del suo arresto il 2 luglio 1857. Il fondo archivistico più significativo è conservato presso l’Istituto mazziniano di Genova. Altro materiale è reperibile presso l’Archivio di Stato di Genova, la Biblioteca universitaria di Genova, l’Istituto per la storia del Risorgimento italiano di Roma, la Società toscana per la storia del Risorgimento di Firenze e la Domus Mazziniana di Pisa.
B. Montale, La Confederazione operaia genovese e il movimento mazziniano in Genova dal 1864 al 1892, Pisa 1960, ad ind.; Ead., B.F. S., in Bollettino della Domus Mazziniana, XI (1965), 2, pp. 37-84; S. Soldani, S. F.B., in Il Movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, a cura di F. Andreucci - T. Detti, IV, Roma 1978, ad nomen; Mondo operaio e politica nell’Ottocento ligure, a cura di E. Costa - G. Fiaschini, Savona 1996, ad ind.; F. Pau, L’idea di democrazia progressiva nella stampa mazziniana. «Il Dovere» e altri giornali repubblicani (1848-67), Roma 2015, ad indicem.