POPOLESCHI, Bartolomeo
POPOLESCHI, Bartolomeo. – Nacque nel 1368 o poco prima da Tommaso di Piero, membro dell’antica famiglia magnatizia dei Tornaquinci, e da una monna Piera sua moglie.
Nel 1370 suo padre, impegnato in rilevanti incarichi pubblici e membro dei Dieci ufficiali della guerra, venne gratificato dalle autorità della Repubblica fiorentina con lo status popolare, e quindi esentato da tutte le limitazioni politiche imposte ai magnati.
Il privilegio conferito a Tommaso di Piero, che comunque sarebbe rimasto personalmente escluso dalle magistrature di governo della città, si legava a una vera e propria separazione formale dall’antica stirpe Tornaquinci, con l’assunzione di un nuovo cognome – fortemente evocativo – di Popoleschi. Tommaso di Piero non fu il solo della famiglia Tornaquinci ad attuare una politica di passaggio dallo status magnatizio a quello popolare: altri rami della medesima consorteria ne seguirono l’esempio negli anni seguenti, dando luogo alle ‘nuove’ famiglie dei Cardinali, Giachinotti, Iacopi, Marabottini e, soprattutto, dei Tornabuoni. Ciò non interruppe tuttavia i legami con la ramificata consorteria Tornaquinci, i cui membri una volta fatti popolani continuarono spesso a gravitare anche spazialmente intorno all’area tradizionale della famiglia: lo stesso Bartolomeo, stando ai documenti fiscali del figlio Piero nel 1427, visse probabilmente nella casa del popolo di San Pancrazio, nell’attuale via della Vigna Nuova e quindi presso l’agglomerato avito dei Tornaquinci, mentre nella vicina chiesa di S. Pancrazio fu sepolto.
La data di nascita di Popoleschi è desumibile indirettamente, dal momento che nel 1393 dichiarava all’Arte dei giudici e notai di avere compiuto 25 anni; una nota nei registri per la qualificazione agli uffici pubblici (Archivio di Stato di Firenze, Tratte, 598, c. 124r) lo dice non ancora quarantenne nel 1408, ma la testimonianza è dubbia perché il testo è guasto per una cancellazione di mano dello scrivano.
Compiuti studi di diritto presso l’Università di Bologna, dove conseguì il titolo di dottore in iure civili, nell’agosto 1393 fu ammesso alla corporazione cittadina con il patrocinio, tra gli altri, di messer Lorenzo Ridolfi, celebre canonista e uomo di punta del regime cittadino. Il giovane giurista avviò quindi un’intensa attività di consulente sia per privati, sia nel contesto delle istituzioni pubbliche, che non di rado si rivolgevano a dottori di leggi per quesiti più o meno tecnici sui vari aspetti dell’amministrazione. Già nel giugno 1395, per esempio, fu chiamato a emettere un consilium ai notai della camera del Comune per la convalida della cancellazione di una condanna – un incarico che avrebbe poi svolto almeno una dozzina di volte durante la sua carriera. Della sua attività di consultore per privati, soprattutto intorno a materie successorie, si conservano testimonianze nelle collezioni della Biblioteca nazionale centrale di Firenze; il suo prestigio professionale lo accreditò anche presso lo Studio cittadino, dove fu docente di diritto nel periodo 1401-03.
È ragionevolmente da collocare in questi anni il matrimonio con Bartolomea Manetti, dalla quale ebbe sette figlie e probabilmente un solo figlio, Piero: la morte prematura di questi (appena diciottenne) nel 1427 avrebbe lasciato senza discendenti diretti il suo ramo della famiglia.
La professione legale fu per Popoleschi non soltanto un prestigioso e lucrativo impiego, ma anche la via maestra per consolidare la sua posizione nell’élite politica cittadina: sebbene, a differenza di suo padre, il suo status di popolano gli consentisse di essere estratto per le principali magistrature del Comune (priore e gonfaloniere di Giustizia), svolse pochissimi uffici nei collegi di governo (fu soltanto membro dei Dodici buonuomini all’inizio del 1409), a differenza del fratello maggiore Piero, che fu priore già nel 1396, e dell’altro fratello, Salvestro, giunto alla massima carica della Repubblica nel 1410 e poi a più riprese negli anni seguenti. In una complementarietà di strategie di affermazione sociale molto ricorrente nelle famiglie fiorentine del tempo, Popoleschi seguì innanzitutto la via professionale, mettendo poi a frutto il grande prestigio come giurista in quella che in un certo senso era sempre stata la tradizione tipica delle famiglie magnatizie, ovvero la carriera negli incarichi di ambito militare e diplomatico.
Una prima ambasciata a Venezia gli fu affidata insieme con altri cittadini già alla fine del 1395; nel 1397 si recò in missione a Genova e presso il papa, mentre l’anno successivo e ancora nel 1399 avrebbe di nuovo visitato in veste diplomatica la Repubblica di Venezia. Nel corso del 1400 fu a Bologna, forse per timore della peste che si era di nuovo diffusa a Firenze, ma probabilmente anche per un’ulteriore missione diplomatica verso la Serenissima. In questi soggiorni tra Bologna e Venezia scrisse a più riprese a Francesco di Marco Datini, al quale si rivolgeva come a un «padre» e «singulare amico»; la familiarità con il celebre mercante dovette proseguire negli anni seguenti, visto che anche nel 1401 fu arbitro per una sua controversia con alcuni pratesi, mentre ancora nell’ottobre 1406 ringraziava Datini per l’ospitalità ricevuta ad Avignone di passaggio da una sua missione diplomatica.
Nel luglio 1401 gli incarichi di ambasciatore lo portarono di nuovo a Roma presso Bonifacio IX; lì fu impegnato, tra l’altro, nella trattiva per il mantenimento a Firenze del controverso vescovo Nofri Visdomini-dello Steccuto. Tra il 1402 e il 1403 questa serie di missioni per la Repubblica conobbe una pausa, probabilmente legata al suo impegno presso l’Università cittadina: Popoleschi continuò tuttavia a essere molto presente nel dibattito pubblico con i suoi interventi nelle commissioni ristrette di supporto al regime (le consulte), e la sua già matura esperienza nella politica estera lo portò nel 1404 ad assumere il delicato ufficio di membro dei Dieci di Balìa, che avrebbe svolto di nuovo nel 1409.
Nell’agosto 1405, dopo una nuova missione tra Padova e Venezia, fu con Gino Capponi tra i sindaci di Firenze per l’acquisto di Pisa da Gabriele Visconti, uno degli atti che innescarono la drammatica vicenda della conquista di Pisa e che dovevano condizionare pesantemente la carriera di Popoleschi. L’anno seguente, infatti, dopo una missione a Napoli in compagnia di Giovanni de’ Medici e Maso degli Albizzi, ebbe l’incarico di recarsi a Parigi con il difficile compito di giustificare presso la corte di Francia, che era stata direttamente coinvolta nella vicenda pisana, la politica fiorentina. Ritenendo Firenze colpevole di uno sgarbo diplomatico ai danni del regno, Luigi d’Orléans decise di incarcerare per rappresaglia presso il castello di Blois i due ambasciatori, Popoleschi e Bernardo Guadagni. Nel gennaio 1407 giunse a Parigi Buonaccorso Pitti con la missione di ottenerne la liberazione; l’assassinio del duca d’Orléans pochi mesi dopo e il caos politico che ne seguì a Parigi facilitarono la riuscita dell’operazione, e Popoleschi poté tornare in libertà, sebbene probabilmente non facesse ritorno a Firenze prima della primavera del 1408. A parte un incarico come sapiente del Comune (un ruolo che istituzionalizzava la funzione di consulenza giuridica spesso svolta dai doctores iuris cittadini) tra luglio e novembre di quell’anno, nel 1408-10 Popoleschi fu quasi ininterrottamente impegnato come ambasciatore presso i papi – Gregorio XII a Siena, Alessandro V a Pisa e poi Giovanni XXIII a Bologna – nel contesto delle trattative per la convocazione, i lavori e l’applicazione dei decreti del Concilio di Pisa.
La posizione sociale di Popoleschi era ormai assimilata a quella dei pochissimi giuristi che potevano collocarsi al cuore dell’élite cittadina: nel 1410 una delle ambasciate previste al nuovo papa Alessandro V lo vide scelto in compagnia di Maso degli Albizzi e Niccolò da Uzzano, gli indiscussi capi del regime, e anche l’anno successivo viaggiò spesso in missione con lo stesso Niccolò e con Palla di Nofri Strozzi; nel 1411 fu capitano di Parte guelfa (insieme a Buonaccorso Pitti), a conferma di una nettissima preferenza per gli uffici tipicamente oligarchici e di prestigio.
Partito di nuovo per un’ambasciata al re di Napoli Ladislao, morì a Napoli nell’agosto 1412. Alla notizia della sua morte, la Signoria deliberò di onorare la sua memoria di «doctor famosus et vir bonus et rectus» dotando a spese della Camera del Comune le sue sei figlie non sposate.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze, Arte dei giudici e notai o del Proconsolo, 95, cc. 76r-77r; 670, c. 84r-v; Catasto 76, cc. 376v-377r; Manoscritti, 248: Priorista Mariani, cc. 115v-116r; Pareri di Savi, 2, cc. 197, 233, 275, 370, 405; 3, cc. 11, 29, 105, 141, 159, 199; Provvisioni, Registri, 101, cc. 152v-153r; Tratte, 598, 900; Ufficiali della grascia, 187, c. 775r; Archivio di Stato di Prato, Fondo Datini, b. 1101, ins. 57, nn. 6100503-6100506; Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Magliabechi, XXIX, 117, n. 2; Nazionale, II.IV.434; Carte Passerini, 190.34; Poligrafo Gargani, 1602; Cronica, o memorie di Iacopo Salviati dall’anno 1398 al 1411, in Ildefonso di San Luigi, Delizie degli eruditi toscani, XVIII, Firenze 1784, pp. 175-381; C. Guasti, Commissioni di Rinaldo Degli Albizzi per il Comune di Firenze dal 1399 al 1433, I, Firenze 1867, pp. 87, 194 s.; Lapo Mazzei, Lettere di un notaro a un mercante del secolo XIV: con altre lettere e documenti, a cura di C. Guasti, Firenze 1880, I, p. 411, II, pp. 172, 341; Buonaccorso Pitti, Cronica, a cura di A. Bacchi della Lega, Bologna 1905.
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