PINELLI, Bartolomeo
PINELLI, Bartolomeo. – Nacque a Roma il 19 novembre 1781 da Giovanni Battista e Francesca Cianfarani, nel quartiere Trastevere, nei pressi dell’ospedale S. Gallicano.
Le fonti concordano sul primo apprendistato presso il padre, ‘scultore mediocre’ che sopravviveva modellando piccoli rilievi e statuette di terracotta. All’età di undici anni circa, trasferitosi a Bologna con lui, Bartolomeo trovò un sostenitore in Giovanni Lambertini, pronipote di Benedetto XIV. Affidato al pittore e incisore Giambattista Frulli, frequentò l’Accademia Clementina dove, nel 1798, vinse il primo premio per la scultura, con un tondo a rilievo raffigurante Bruto condanna i suoi figli a morte. Il suo ritorno a Roma, dove fu accolto in casa dell’abate modenese Levizzari, avvenne verso la fine del secolo, forse dopo la fugace partecipazione alla spedizione della Repubblica Romana contro l’insurrezione di Civitavecchia nel gennaio 1799. Dal 1802 circa fu ospite e collaboratore, come figurista, del paesaggista svizzero Franz Kaiserman con il quale sperimentò l’uso della camera ottica. A una sorta di sdoppiamento con questo artista può essere collegato l’uso del nome François con cui Pinelli firmava acquerelli e incisioni nel 1805.
Nel 1809, Pinelli risultava abitare in via delle Carrozze – probabilmente un altro ingresso per l’abitazione di piazza di Spagna 90 che lui stesso aveva indicato come suo indirizzo nel 1808 – denunciandosi come Francesco Pinelli, insieme alla moglie Mariangela Latti e ai due figli, Maria di tre anni e Cesare, di tre mesi, in realtà Achille (1809-1841), futuro allievo ed erede (Roma, Archivio storico del Vicariato, Parrocchia di S. Lorenzo in Lucina, Stato delle anime 1809, f. 19). Nel 1812 e nel 1814, sarebbe comparso come Bartolomeo Pinelli, sempre con la moglie e i due figli, dei quali il maschio era correttamente nominato Achille (ibid., 1812, f. 40; 1814, f. 30).
In quegli anni, Pinelli frequentò l’Accademia di S. Luca e fu premiato tre volte nel 1805, nel 1807 e nel 1809. Il disegno raffigurante Cristo e l’adultera, relativo alla prova del 1805, richiamava moduli di Felice Giani. Mentre è smentita la collaborazione con l’artista per le decorazioni di palazzo di Spagna (Ottani Cavina, 1999, II, p. 578), è probabile la partecipazione di Pinelli all’Accademia della Pace, ispirata e coordinata tra Roma e Bologna da Giani per tutto l’arco della sua vita. La ricchezza e la novità dei temi affrontati in questo ambito, il ruolo essenziale del disegno come estemporaneo strumento di interpretazione dei soggetti, sulla base della tradizione classica, in un clima di fraterna emulazione tra gli artisti, appaiono il sostrato coerente della produzione di Pinelli.
Dal 1806 eseguì numerosi acquerelli con scene popolari, avviando un’elaborazione autonoma di tematiche pittoresche, corrispondenti alla crescente domanda del mercato, confermata dal successo del tema alla prima delle annuali mostre in Campidoglio istituite dal governo francese nel 1809. Nello stesso anno, con la Raccolta di Cinquanta costumi pittoreschi, Pinelli si cimentò per la prima volta con l’incisione, fissando l’iconografia idealizzata del popolo romano attraverso un linguaggio lineare, semplificato – inaugurato da John Flaxman alla fine del Settecento – e permeato dalla nozione di anatomie e fisionomie classiche che egli avrebbe riproposto con la pubblicazione di raccolte diverse fino al 1831.
In un acquerello firmato e datato 1809 raffigurò il recital di Charlotte Henriette Haser, a palazzo Fiano, residenza romana di Federico di Sassonia Gotha. La presenza di intellettuali e artisti, tra i quali Antonio Canova, Bertel Thorvaldsen, Vincenzo Camuccini, testimoniava i contatti di Pinelli con i protagonisti dell’arte a Roma e la frequentazione dei salotti della capitale. Nel 1810 circolò clandestinamente, senza autore, La scuola di Priapo inventata da Giulio Romano, una serie di incisioni all’acquaforte in cui Pinelli rielaborò i modelli cinquecenteschi, in sintonia con una licenziosità ispirata all’antico, tipica della cultura dell’epoca.
Durante il governo napoleonico, Pinelli aderì alla propaganda filofrancese, accettando la commissione ufficiale di disegni e incisioni. Nel 1811, per la nascita di Napoleone Francesco Carlo, figlio dell’imperatore nominato re di Roma, eseguì una serie di disegni allegorici, due dei quali tradotti in medaglie da Tommaso Mercandetti. In un biglietto non datato a Guillaume Lethière – direttore dell’Académie de France dal 1807 al 1816 – Pineli dichiarava di aver ricevuto sei scudi per l’incisione della statua di Napoleone (Rome, Archives de l’Académie de France, faldone 14, f. 93). Nel 1811 illustrò con quattro tavole gli interventi di scavo al Foro Romano voluti dai francesi e diretti da Giuseppe Camporese e, nel 1812, fu coinvolto in un progetto di riproduzione di pitture della Domus Aurea, al quale rinunciò nel 1813. Tra il 1809 e il 1814, Pinelli fu tra gli artisti autorizzati dal governo francese a occupare alcuni ambienti dell’ex convento della Trinità dei Monti; in quel periodo incise a semplice contorno gli affreschi del chiostro della chiesa omonima. Con la stessa tecnica lineare, apprezzata dagli specialisti dell’epoca, Pinelli copiò, nel 1813, il fregio degli affreschi della Farnesina – erroneamente attribuiti a Giulio Romano – dedicandoli a Martial Daru. Responsabile delle committenze per le decorazioni del palazzo del Quirinale, Daru, nello stesso anno, aveva affidato a Pinelli quattro dipinti raffiguranti scene di storia romana per il Bagno dell’imperatore che, forse per il precipitare degli eventi, non furono mai realizzati.
Con la Fucilazione del brigante Spadolino alla Bocca della Verità, del 1812, Pinelli dette inizio al racconto delle vicende che in quegli anni opposero bande di fuorilegge nelle campagne a sud di Roma alle autorità francesi e in seguito al governo pontificio. Insistendo sugli episodi di cronaca più drammatici, Pinelli anticipava l’epopea romantica che, sul tema, avrebbe concepito di lì a poco il pittore franco-elvetico Louis-Léopold Robert. Nel 1822 illustrò Venticinque soggetti di Briganti per il conte Nikolaj Dmitrievich Gouriev e l’anno seguente concepì una vera e propria cronaca illustrata dal titolo Raccolta de’ fatti li più interessanti eseguiti dal capo brigante Massaroni per la strada che da Roma conduce a Napoli, dall’anno 1818 fino al 1822 (Roma 1823), che ebbe due edizioni inglesi. Per lo stesso Gouriev e per William Cavendish, VI duca di Devonshire, Pinelli si misurò anche con la tecnica della pittura a olio.
Dei sei dipinti ricordati dalle fonti, si conoscono Il Saltarello notturno delle mozzatrici, datato 1821, e la coeva Ripresa dei barberi (entrambi al Museo di Roma). Un terzo dipinto a olio, Scena di saltarello fuori Porta, in vendita presso la Galleria Walter Padovani di Milano nel 2013, è oggi in collezione privata. Un quarto dipinto, raffigurante un gruppo di popolani romani, esposto alla mostra curata nella capitale nel 1956 da Giovanni Incisa della Rocchetta, è invece attualmente disperso.
Caduto Napoleone, Pinelli si adattò con flessibilità al nuovo clima politico, eseguendo, nel 1814, disegni e incisioni commemorativi delle cerimonie e degli apparati effimeri allestiti per il ritorno di Pio VII a Roma e collaborò con artisti spagnoli legittimisti illustrando la guerrilla vittoriosa contro i francesi.
L’attenzione di Pinelli agli orientamenti culturali dell’epoca emerge dall’impegno dedicato, soprattutto negli ultimi quindici anni circa della sua attività, a interpretare la letteratura e la storia antiche, in sintonia con il nascente interesse ideologico ed erudito per il tema delle origini nazionali. Nel 1811, presso Luigi Fabri, aveva pubblicato l’Eneide e, nel 1819, con Giovanni Scudellari, vide la luce l’Istoria Romana. Realizzata con il lavoro di tre anni, in cento tavole su carta pregiata, di formato più grande di tutte le precedenti, l’opera si basava sulla traduzione settecentesca di Charles Rollin della storia di Tito Livio, sviluppando un efficace linguaggio di schemi narrativi e gestuali, amplificazione enfatica della contemporanea pittura di storia, da Pelagio Palagi a Camuccini.
Il successo gli suggerì nuove iniziative e, nel 1821, Pinelli pubblicò Raccolta di n. 100 soggetti li più rimarchevoli dell’Istoria greca e, a distanza di pochi mesi, Raccolta di n. 100 soggetti li più rimarchevoli dell’Istoria romana. All’ulteriore popolarità di queste due edizioni contribuì il testo esplicativo di Fulvia Bertocchi che accompagnava le tavole di entrambe. Autrice di testi teatrali e didattici, la scrittrice animava a Roma un salotto letterario, frequentato anche da Gioacchino Belli, cui è probabile partecipasse lo stesso Pinelli. Con Scudellari, dal 1820, l’artista progettò l’Istoria degli Imperatori che incise fra il 1821 e il 1824 e completò nel 1829. Nel 1826 firmò settantuno acquerelli a monocromo di soggetto mitologico, per i quali fu giudicato da Francesco Podesti «sovrano disegnatore e compositore» (De Gubernatis, 1897, p. VII). Ancora inediti alla morte dell’artista, gli acquerelli furono acquistati dagli editori Maussier e Maruca di Roma che, nel 1895 e nel 1897, li pubblicarono in due diverse edizioni con il titolo Mitologia illustrata.
Pinelli aveva avuto rapporti continuativi anche con Antonio Guattani, per il quale incise alcune tavole del V tomo delle Memorie enciclopediche del 1809 e il frontespizio allegorico dello stesso periodico del 1817, rinnovato nel nuovo clima della Restaurazione.
I contatti con l’Accademia di S. Luca, anche se controversi, sono testimoniati dall’illustrazione della copertina di un opuscolo sulla cerimonia della distribuzione dei premi per il concorso Clementino del 1824 che riapriva dopo un’interruzione ventennale. In un disegno a penna e inchiostro dello stesso anno, Pinelli si rappresentò al lavoro nel nuovo studio a Via Felice 134, dove visse fino alla morte. Diverso dai precedenti autoritratti che accompagnarono quasi tutte le serie incise, questa immagine, con l’ampia stanza occupata dall’esposizione di decine delle sue opere riconoscibili, ricalcava la tradizionale iconografia dell’artista nel suo studio, rivelando una nuova consapevolezza dell’autore affermato.
Nella documentazione frammentaria e spesso inesatta – per il gusto della burla di Pinelli – dello Stato delle anime della parrocchia dei Ss. Vincenzo e Anastasio, tra il 1825 e la sua morte, l’artista risultava abitare da solo in quella casa studio, salvo qualche intermittente apparizione di un figlio con nomi diversi, identificabile con Achille. Nella constatazione di morte, sarebbe risultato vedovo.
Negli anni che separano le prime incisioni della Istoria degli Imperatori dalle ultime, Pinelli si dedicò intensamente all’illustrazione letteraria. Il suo linguaggio lineare e la rapidità di esecuzione si prestavano alle esigenze dell’editoria romana, in competizione con quella di Milano, Firenze e Venezia, dove circolavano, già dal secondo decennio del secolo, edizioni illustrate della storia e della letteratura nazionale ed europea. Nel 1823 Pinelli illustrò Meo Patacca, un poema romanesco eroicomico di Giuseppe Berneri, ambientato all’epoca dell’assedio turco di Vienna del 1683. Tra il 1825 e il 1826 riprese la collaborazione con l’editore Scudellari, pubblicando i rami delle tre cantiche della Divina Commedia. La Biblioteca italiana dell’aprile-giugno 1828 recensì entusiasticamente l’opera «immaginata ed espressa con franchezza di disegno, con felicità d’invenzione e con verità di mosse e d’affetti» (Mazzocca, 1981, p. 357). Ancora con Scudellari, nel 1827, pubblicò La Gerusalemme liberata e, nel 1829, L’Orlando furioso. Nel 1828, per Fabri, aveva eseguito cento rami de Le avventure di Telemaco, testo pedagogico di Fénelon, apprezzato nei salotti dell’epoca, e le prime quattro tavole da L’Asino d’oro di Apuleio. Con la Litografia delle Belle Arti di Giuseppe Cecchini in via del Clementino, fra il 1830 e il 1832 Pinelli sperimentò la nuova tecnica per l’illustrazione dei Promessi Sposi. Infine, nel 1834, per Romualdo Gentilucci, interpretò il mondo picaresco di Miguel de Cervantes con Le azioni più celebrate del famoso cavaliere errante don Chisciotte della Mancia.
In quegli ultimi anni, tra il 1829 e il 1832, lavorò anche per la Calcografia camerale, con una nuova serie di rami di grande formato sulla storia greca e un’altra sui costumi romani, diversa da tutte le precedenti.
Anche l’illustrazione devozionale, fonte necessaria e costante di guadagni, punteggiò tutta la carriera di Pinelli. Tra il 1808 e la sua morte incise storie bibliche e di santi per l’ottavario dei morti, fissando la memoria delle cerimonie allestite con fondali dipinti e statue di cera nei cimiteri di confraternite e chiese. Al rito della Via Crucis dedicò due serie, nel 1822 e nel 1833.
Oltre all’esperienza con Kaiserman, nel corso della sua carriera, Pinelli si dedicò ancora all’attività di figurista collaborando con Johann Friedrich Gmelin e con Angelo Uggeri. Ma il rapporto più continuativo si stabilì, tra il 1817 e il 1835, con il più giovane Luigi Rossini (1790-1857). Nelle sue vedute l’incisore inseriva gruppi di figure, inventando e incidendo il frontespizio de I Sette colli di Roma antica e moderna del 1829. Su questo soggetto Pinelli aveva anticipato l’amico pubblicando, nel 1825, grandiose visioni panoramiche dei colli romani.
La sua attitudine a modellare in terracotta, sperimentata con il padre, si era affinata a Bologna nell’ambito della tradizione locale di stuccatori e modellatori di argilla. A questa produzione si dedicò intensamente negli ultimi anni, mentre ne preparava il catalogo a stampa che avrebbe pubblicato nel 1834 con il titolo Gruppi pittoreschi modellati in terracotta da B. P. ed incisi all’acquaforte da lui medesimo. Oltre a esigenze commerciali, con quest’opera, conclusa un anno prima della morte, Pinelli sembrò rivendicare il mestiere di scultore, atteggiamento evidente in un autoritratto nell’atto di modellare destinato a Thorvaldsen. Le terrecotte corrispondevano ai temi delle incisioni – scene popolari, idilli bucolico-pastorali, risse violente di briganti – interpretati con un linguaggio accademico, ispirato ai modelli classici e animato da un forte senso della linea. In una terracotta di notevoli dimensioni, datata 1834, Pinelli affrontò altresì un tema epico, Achille trascina il corpo di Ettore, derivato dall’iconografia sei e settecentesca di Pietro Testa e Gavin Hamilton.
Sostrato della varietà e vivacità espressiva delle immagini di Pinelli fu la costante pratica del disegno dal vero, secondo i criteri tradizionali dell’insegnamento accademico e, allo stesso tempo, frutto di un’appassionata osservazione della realtà quotidiana. Per quanto siano rari i disegni e gli schizzi in relazione diretta con le incisioni delle diverse serie, è evidente che il repertorio di queste si basa sull’appunto rapido e immediato durante i suoi pellegrinaggi per la città e le soste nelle osterie. Provenienti dagli eredi dell’editore Fabri, il Museo di Roma possiede una serie di circa ottanta studi e disegni finiti, tra cui il famoso ritratto di popolano, identificato dalle iscrizioni come ‘vero discendente romano’, e alcuni nudi di raffinato realismo. Altri nudi di analoga qualità e schizzi raffiguranti personaggi diversi, colti con immediatezza, alcuni caricaturali, furono collezionati da Thorvaldsen e oggi sono conservati a Copenaghen, al Museo a lui intitolato.
Nonostante i guadagni molto alti, Pinelli fu oppresso dai debiti per tutta la vita, come testimoniato dalla pur scarsa documentazione autografa costituita da biglietti a editori e amici in cui offriva il suo lavoro in cambio di prestiti e anticipi di denaro. L’artista lavorò perciò indefessamente sino alla fine. Diciotto ore prima di morire, completò l’ultimo rame del Maggio romanesco, poema dialettale di Giovanni Camillo Peresio pubblicato poco dopo da Romualdo Gentilucci.
Probabilmente consumato dall’abuso di alcol, morì a Roma il 1° aprile 1835.
Al funerale, celebrato solennemente dagli allievi dell’Accademia di S. Luca, con il contributo economico degli amici e degli estimatori, le cronache ricordano una grande affluenza popolare. L’artista fu tumulato nella chiesa dei Ss. Vincenzo e Anastasio dove, cento anni dopo, si era persa traccia del luogo preciso.
Come riconosciuto già dai contemporanei, la produzione di Pinelli fu prodigiosa per quantità e varietà. Lo straordinario successo commerciale ne ha determinato la dispersione nel mondo in collezioni private e musei, la cui ricognizione più esaustiva è tuttora quella di Giovanni Incisa della Rocchetta che curò il catalogo della mostra romana del 1956. Nel 1835, gli editori con i quali Pinelli aveva lavorato, in particolare Scudellari e Fabri, possedevano la quasi totalità delle matrici delle sue opere, circa duemila disegni e numerose terrecotte. Gran parte di questi materiali sono confluiti in istituzioni romane: il Museo di Roma a Palazzo Braschi, l’Istituto nazionale per la grafica e la Galleria nazionale di arte moderna, il Museo Napoleonico. Tra i musei nel mondo, oltre ai disegni del Museo Thorvaldsen, si ricorda un album di novanta disegni conservato al Metropolitan Museum di New York.
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