NERONI, Bartolomeo
NERONI, Bartolomeo (detto il Riccio). – Di questo artista proveniente da una famiglia di pittori originaria di Montecchio, nel contado pisano, non si conoscono il luogo e la data di nascita, avvenuta verosimilmente tra il 1505 e il 1510.
Del nonno Lorenzo, che ottenne la cittadinanza pisana nel 1494, e dei suoi figli Bastiano e Matteo, rispettivamente padre e zio di Bartolomeo, sono documentate alcune pitture a Montecchio. Matteo giunse a occupare importanti cariche a Pisa, ove vissero i figli Jacopo – padre del celebre cosmografo Matteo –, Domenico e Pierlorenzo (Firenze, Biblioteca nazionale, Ms. Passerini 189/86; Archivio di Stato di Firenze, Sebregondi 3809 e Carte Ceramelli Papiani, 3392).
A Siena Bartolomeo fu conosciuto con il soprannome di Riccio, mentre il cognome Neroni fu utilizzato solo a partire dal 1540, quando sono noti i tentativi di riallacciare i contatti con i familiari pisani. Fu miniatore, pittore, architetto civile e militare, scenografo e regista di complesse opere di pittura, scultura e intaglio. Ebbe fiorente e ben organizzata bottega e Giorgio Vasari ne lodò le capacità organizzative e imprenditoriali. La sua figura appartiene a quella di un artista-gentiluomo, «civis senensis, excellentissimus pictor et architector» (Ceppari Ridolfi, 1998, p. 17).
Coinvolto nei più importanti cantieri artistici senesi tra 1540 e 1570, fu spesso richiesto per pareri professionali e figura tra i fondatori della Congrega dei Rozzi.
Entrò presto nella bottega di Antonio Bazzi detto il Sodoma, con il quale stabilì un saldo legame, rinforzato dal suo matrimonio nel 1543 con Faustina, la figlia trentenne del pittore, da cui nacquero Persenia e Beatrice.
Il Dialogo amoroso di Phylolauro di Cave del 1533 menziona il Riccio tra i migliori pittori del tempo (R. Bartalini, Le occasioni del Sodoma, Roma 1996, pp. 124 s.). l primi tentativi di ricostruzione della sua personalità artistica si devono a Giulio Mancini e Guglielmo Della Valle, continuamente ripresi nella letteratura posteriore; spetta tuttavia ad Alberto Cornice il merito della prima moderna revisione critica della sua opera, base di ogni indagine successiva.
Il corpus pittorico si caratterizza per uno stile dapprima derivato dal Sodoma, poi, negli anni centrali, forte di suggestioni raffaellesche mediate attraverso Baldassarre Peruzzi e Domenico Beccafumi e, infine, sempre più freddo e dissonante, rappresentativo del manierismo senese di seconda generazione, prossimo a maestri meno prolifici, tra cui Marco Bigio, Giomo del Sodoma, Bartolomeo di David, Giorgio di Giovanni e il Marco Pino degli esordi.
Le prime opere pittoriche documentate sono i cinque antifonari miniati del monastero olivetano di Finalpia, oggi nella Biblioteca Berio di Genova, databili tra 1531 e 1532; una delle miniature reca l’autoritratto, un giovane intento a miniare una pagina con la scritta «FACIEBAT» e la firma «MAGISTER BARTHOLOMEUS DICTUS RIXUS SENENSIS MINIAVIT». Fra 1532 e 1534 dipinse alcune opere nel contado intorno a Monteoliveto Maggiore e, nel 1534, nello stesso Archicenobio il Commiato di Mauro e Placido affrescato a conclusione delle Storie di s. Benedetto dipinte da Luca Signorelli e dal Sodoma nel chiostro grande. Decisivo fu l’incontro con Peruzzi, in quegli anni architetto dell’Opera del duomo, come evidenziano i frammenti del distrutto altare dei Ss. Quattro Coronati (Martirio dei santi con sinopia, Santo martire, Madonna con Bambino, angeli e santi, Museo dell’Opera), allogato nel 1534 dall’Arte dei maestri di pietra e suo unico lavoro nominato da Vasari. Tra 1536 e 1547, datano i lavori per la Compagnia di S. Giovanni Battista della Morte, oggi nella cappella di palazzo Chigi Saracini, il più maturo affresco di Cristo e l’adultera a Monteoliveto, la pala del Paradiso (Pinacoteca nazionale di Siena) per le olivetane senesi di Ognissanti.
Con la morte del Sodoma (1549), Bartolomeo divenne «erede di tutte le cose del suocero attenenti all’arte» (Vasari, 1568, VI, p. 399), tra cui una piccola collezione antiquaria (Milanesi, 1856, pp. 110-112), rimanendo, dopo la scomparsa di Beccafumi (1551), il principale continuatore della tradizione pittorica cittadina e l’inevitabile punto di riferimento per un’intera generazione di artisti, tra cui Michelangelo Anselmi detto lo Scalabrino, Bartolomeo di Francesco Almi, Lorenzo Brazzi detto il Rustico, Tiberio Billò, Giovan Battista Sozzini, Arcangelo Salimbeni. A questo periodo data l’Incoronazione della Vergine e santi (Pinacoteca nazionale di Siena), eseguita per S. Francesco ad Asciano.
Durante gli anni della guerra di Siena, svolse il compito di architetto e ingegnere della repubblica, coinvolto in lavori di difesa a Siena, Chiusi, Sinalunga, Massa Marittima, Monterotondo Marittimo, Chiusdino.
Una testimonianza di Lorenzo Pomarelli del 1570 ricorda che Neroni, prima del trasferimento a Lucca nel 1556, aveva iniziato in città alcuni importanti edifici, caratterizzati da grande novità formale e dal fantasioso ricorso a ordini rustici, finestre bugnate, fasce marcapiano, mensole triglifate: il poco studiato conservatorio di S. Orsola detto delle Derelitte; il palazzo di Claudio Zuccantini alla Lizza (poi Zondadari e Ceccuzzi), avviato ex novo intorno al 1547; il palazzo di Mariano Tantucci (poi ‘alla Dogana’), in fase di costruzione nel 1549 e felice recupero di precedenti edifici; il palazzo di Agostino Bardi alla Postierla (forse lapsus calami per palazzo Chigi alla Postierla, poi Piccolomini), postogli esattamente di fronte e sorto sulle case di un altro celebre Agostino, il Magnifico banchiere dei papi, su cui l’erede Scipione fece realizzare ex novo, tra 1548 e 1573, un raffinata residenza, per Adolfo Venturi (1939, p. 670) «il capolavoro architettonico» di Neroni e «una delle più sontuose ed eleganti dimore tardo-rinascimentali non solo a Siena». A essi può aggiungersi il palazzo stilisticamente affine di Alessandro Guglielmi (poi Azzoni Pannilini), in parte già eretto nel 1549, comunemente attribuito a Neroni anche per la parentela del committente con la famiglia Fondi, per la quale l’artista aveva affrescato un monumento parietale nella cappella Azzoni in S. Agostino, oggi pressoché scomparso (Riedl, 1980). Si tratta di architetture memori della lezione di Peruzzi nello sperimentalismo compositivo, oltreché bene aggiornate sulle novità di Sebastiano Serlio e Giulio Romano.
Nel 1551 la famiglia abitava nel Terzo di Camollia con «Huomini due, Bocche quattro», quando ricevette la visita di un certo Pietro Trappolini interessato all’acquisto di alcuni oggetti d’arte appartenuti al Sodoma (Borghesi Banchi, 1898, p. 526). Un viaggio a Pisa sembra essere avvenuto nel 1552, data di una lettera umoristica inviatagli da Siena relativa al perduto ritratto del capitano spagnolo don Diego Hurtado de Mendoza eseguito dall’artista nel 1548 (Della Valle, 1786, p. 300; Romagnoli [ante 1835], 1976, VI, c. 721).
Il 24 agosto 1556 chiedeva licenza di trasferimento a Lucca con la seconda moglie, Giuditta di Giovanni Giovannangeli, sposata in data imprecisata, al fine di riunirsi alle figlie. Nonostante i ripetuti ritorni a Siena, il soggiorno lucchese si prolungò per un decennio e lì è ricordato da Vasari (1568, VI, p. 399).
A Lucca avrebbe occupato il ruolo che in Siena era stato già di Peruzzi, quale insegnante pubblico di disegno, prospettiva e architettura militare (Della Valle, 1786, p. 300). La permanenza in città sembra gli sia stata gradita, come ricorda una testimonianza dell’architetto Baldassarre Lanci del 1570 (Milanesi, 1856, p. 237). Sono note poche sue opere lucchesi, tra cui una Trinità in S. Paolino, firmata e datata 1566, una Natività della Vergine nella cappella degli Anziani di palazzo pubblico (Museo nazionale di Villa Guinigi), una Madonna con Bambino, S. Jacopo e s. Andrea nella pieve di Massarosa.
Nel 1560 faceva ritorno a Siena per allestire la magnifica scenografia de L’Ortensio di Alessandro Piccolomini nel nuovo teatro degli Intronati. Pur derivata dall’allestimento della Calandria del Bibbiena, messo in opera da Peruzzi nel 1514, questa scenografia ebbe enorme successo e fu smantellata solo nel 1647 (al Victoria & Albert si conserva il bellissimo bozzetto da cui furono tratte le incisioni di Girolamo Bolsi; Fattorini, 1999, pp. 133-135). Nonostante l’assenza, da Siena gli giunsero inoltre due prestigiose commissioni, soltanto avviate, una per l’oratorio della Compagnia della Ss. Trinità, nel 1561, l’altra per l’oratorio della cucina in S. Caterina in Fontebranda, nel 1564.
In previsione del definitivo rientro a Siena, nel 1567, Bartolomeo diede un complessivo riassetto alle sue proprietà immobiliari, trasferendosi con la famiglia in piazzetta del Conte presso Postierla, forse in quel palazzetto che in nuce mostra lo stile delle sue maggiori architetture. Nel 1568 era tuttavia trattenuto a Lucca dalla gotta. Il definitivo rientro a Siena si dovette all’incarico per i progetti dei nuovi stalli del coro del duomo, del leggio e della residenza, procuratogli dall’operaio del duomo Marcello Tegliacci, grazie a una sollecitazione del governatore di Siena Agnolo Niccolini.
L’8 ottobre 1567 il lavoro d’intaglio venne allogato a Teseo di Bartolino da Pienza, Benedetto di Giovanni da Montepulciano, con la collaborazione di Domenico Chiari e Baccio Descherini e successivamente terminato da Domenico Cafaggi detto Capo (Fattorini, 1999, p. 128). A questi lavori può forse aggiungersi il disegno della scala del pulpito di Nicola Pisano messo in opera da Bernardino di Giacomo (Id., 2009).
Tra le ultimissime opere di Neroni, di grande impatto fu l’incompiuta Adorazione dei pastori in S. Niccolò al Carmine, terminata da Arcangelo Salimbeni. Al Riccio spetta poi una vasta produzione di pitture devozionali e testate di cataletti. Gli è stato inoltre attribuito il disegno di due cassoni realizzati per Cosimo I tra 1561 e 1569, ora al Victoria & Albert (Von Henneberg, 1991).
Gli ultimi anni furono rattristati dalla controversia con l’operaio Tegliacci, il quale nel 1570 smise di corrispondere il compenso pattuito. La difesa dell’artista fu unanime (oltre alle citate testimonianze di Baldassarre Lanci e Lorenzo Pomarelli, vi furono quelle del Rustico e di Vincenzo de’ Rossi, mentre non è pervenuta quella richiesta all’amico Bartolomeo Ammannati). A suo favore fu anche la sentenza dei giudici di Ruota che imposero all’operaio di procedere al saldo, corrisposto alle eredi post mortem.
Morì a Siena qualche giorno dopo il 14 giugno 1571, data del testamento, eleggendo a sepoltura la chiesa del Carmine, dove erano i suoi antenati.
Le esequie vennero pagate dagli allievi e il successivo 12 luglio le figlie accettarono l’eredità paterna, in modo che Persenia, erede universale, pagasse a Beatrice la dote monacale per entrare nel monastero della Concezione in Camollia, di cui faceva parte anche un Cristo risorto (Collezione Chigi Saracini), generalmente ritenuto il capolavoro giovanile di Neroni, posto con grandi onori sull’altar maggiore della chiesa (Ceppari Ridolfi, 1998).
Un ritratto di autore anonimo intitolato a «Bartolomeo Neronio» figura tra gli accademici dell’Accademia nazionale di S. Luca.
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