QUERINI, Bartolomeo I
QUERINI, Bartolomeo I. – Figlio di Romeo Querini (del ramo noto come Zii, ‘ovvero dai Gigli’) e di una Richelda, probabilmente anch’essa appartenente ai Querini, nacque a Venezia nella prima metà del Duecento, forse attorno agli anni Trenta, e fu avviato presto alla carriera ecclesiastica.
Il casato dei Querini, le cui abitazioni erano poste in antico nel confinium della Ss. Trinità di Gemini, risulta attivo in terra veneta e nel Mediterraneo orientale già a partire dalla metà del XII secolo: Domenico e Pietro Querini, padre e figlio, operavano a Costantinopoli nel 1159. Ma la fortuna sociale della famiglia si concretizzò nella prima metà del XIII secolo, innanzitutto attraverso la carriera ecclesiastica di Leonardo Querini (nel 1229 primicerio di San Marco, nel 1238 patriarca di Grado). Sulla sua scia due figli di Romeo, fratello di Leonardo (Richelda testando nel 1258 lo dice «cognatus suus»), intrapresero la carriera ecclesiastica: Giovanni e Bartolomeo (I). Romeo ebbe altri sei figli: Marco, Matteo, Tommaso, Jacopo, Filippo e un ultimo di nome ignoto.
Giovanni fu destinato da Innocenzo IV a ricoprire la sede di Candia avanti il 1252, ma rimase solo electus e quindi non raggiunse l’isola del Mediterraneo, anche perché fu subito destinato dal papa (17 agosto 1252) a Ferrara in luogo di Filippo Fontana traslato a Firenze. A Ferrara Giovanni seppe trovare un accordo con gli Este e favorì il volere di Beatrice II, figlia di Azzo VII d’Este, intenzionata, dopo la morte del marito, a creare un cenobio benedettino presso la chiesa di S. Stefano della rotta di Focomorto, ove il 25 giugno 1254 il vescovo ricevette dalla stessa Beatrice la promessa di vivere secondo la Regola di san Benedetto e nei modi indicati dai papi Alessandro IV e Innocenzo IV. Giovanni favorì anche l’ascesa ecclesiastica di Federico dei conti di San Martino, poiché accettò la sua nomina, operata dai canonici, alla carica di arciprete di Ferrara il 6 dicembre 1256. Ebbe stretti legami con Alessandro IV, per incarico del quale gestì la delicata questione dell’assegnazione vitalizia al patriarca di Grado, Angelo, dei redditi del semiabbandonato cenobio dei Ss. Ilario e Benedetto, privo di abate (assegnazione contestata da alcuni cenobiti); l’atto conclusivo venne promulgato da Rialto il 12 agosto 1256, da Giovanni Querini, e alcuni mesi più tardi (ormai morto Giovanni) il papa approvò la decisione.
Non va dimenticato l’impegno del presule per favorire il radicamento nel Ferrarese dei membri del suo casato. Infatti, il 14 novembre 1255 Giovanni Querini presenziò a Venezia, nel chiostro del monastero dei Ss. Filippo e Giacomo, alla vendita da parte di Tebaldino, detto Papozzo, del fu Donato da Castel Tedaldo, cittadino di Ferrara di tutte le terre e valli del Polesine di Papozze, presso Ficarolo. Gran parte di tali beni erano stati ceduti iure pacti a Tebaldino, dai canonici di Adria, a condizioni estremamente favorevoli (rinnovo dopo 60 anni, censo ricognitivo di 2 once di incenso, con il solo vincolo della concessione di 9 mansi a vassalli minori). Il nucleo familiare di Romeo si attestava così stabilmente nel territorio della diocesi di Adria ove i Querini avrebbero aumentato la loro giurisdizione minore e i poteri di comando sui rustici ottenendo anche dal vescovo, dopo il 1275, il riconoscimento del diritto a godere di metà della decima sui beni del vasto Polesine.
La carriera ecclesiastica di Bartolomeo partì da questo solido, pur se indiretto, contesto di affermazione del clan Querini. Fu pievano di San Martino (1249) e poi di Santa Maria Formosa, sino al 1260 quando una lettera di Alessandro IV lo appella cappellano papale e pievano di S. Bartolomeo, assicurandogli la possibilità di aggiungere alle sue rendite ecclesiastiche un beneficio sito nella diocesi di Torcello o nell’isola di Creta. Ma prima del 1264 Querini venne chiamato a ricoprire anche la carica di canonico della cattedrale di Castello.
In tale veste Urbano IV gli si rivolse il 1° aprile 1264, sollecitandolo a sostenere indirettamente i diritti di un suo familiaris, Roberto da Bari, creditore per 785 lire di Provins nei confronti di un gruppo di cives et mercatores fiorentini. Querini avrebbe dovuto imporre al suo vescovo, Tommaso Franco, debitore (per colpa dei predecessori, e dunque non obbligato a onorare) dei citati fiorentini, di pagare rapidamente (entro un mese), in maniera da favorire la solvibilità dei debitori di Roberto da Bari.
Alla morte del vescovo Franco (inizi del 1268) gli elettori del presule si divisero in due partiti, uno favorevole a Querini, pievano, canonico della cattedrale e cappellano papale, e l’altro schierato per Pietro Correr, che dal 1267 era primicerio di San Marco. Pur affermando (in una lettera al podestà di Orvieto) di essere legato a Querini, al fine di risolvere il problema il papa ordinò un arbitrato: i due contendenti avrebbero dovuto rimettere nelle mani dei priori dei predicatori e dei minori di Venezia i diritti derivanti dall’elezione, rinunciando a quanto a loro competeva. Di fronte all’ingiunzione Bartolomeo obbedì, mentre Correr rifiutò di cedere i suoi diritti. La situazione si trascinò a lungo sinché Gregorio X, dopo aver analizzato con diligenza il procedimento elettivo di Pietro, primicerio di San Marco, trovò che l’elezione era stata conclusa in modo «meno canonico», e quindi con il consenso dei cardinali (de fratrum nostrorum consilio) decise di annullarla e il 5 aprile 1275 scelse come vescovo Querini imponendogli di assumere subito il regimen della diocesi in modo da garantirle piena utilità spirituale e temporale dopo i lunghi anni di vacanza di governo.
Subito dopo la presa di possesso della diocesi volle riappacificarsi con Pietro Correr, che fu presente a importanti atti giurisdizionali di Querini, tra cui la nomina nel 1281 del prete Antonio a priore dell’ospedale di San Lazzaro. Tre anni più tardi (1284) Bartolomeo volle assegnare a Simeone Moro, pievano di San Barnaba, la carica di commissario apostolico di Chioggia, presto ricusata perché Moro sostituì come primicerio di S. Marco proprio Correr, promosso patriarca latino di Costantinopoli (1286-87).
Nei sedici anni di governo della sua chiesa Querini volle attuare una profonda riforma liturgica che trovò piena espressione nel sinodo da lui presieduto nel 1288; la normativa che ne uscì è in parte conservata, poiché tredici norme sono state inserite nel 1438 nel Synodicon del presule Lorenzo Giustiniani.
Le disposizioni riguardavano il controllo della presenza dei canonici alla recitazione e al canto dell’Ufficio Divino, con la determinazione di multe per le assenze ingiustificate; la necessità di tenere accese le candele sull’altare durante le cerimonie; l’obbligo per i canonici e per i chierici di stare in piedi durante le parti cantate dell’Ufficio. Rilevante è l’ordine valido per tutte le chiese parrocchiali della città e della diocesi di far celebrare in perpetuo una messa dell’alba, cum debita reverentia et solemnitate, tra il Mattutino e la Messa conventuale, segno che vi era una disponibilità dei fedeli a seguire l’ufficiatura. Altre disposizioni riguardavano la recita dell’Ufficio della Beata Vergine e quello dei defunti, la lettura corale dei quali (in coro, non nel cimitero o in processione) era obbligatoria sia per i canonici sia per i mansionari. Durante la lettura delle lezioni liturgiche, il pievano era obbligato a correggere gli errori dei lettori e questi dovevano subito emendare la loro pronuncia. Un’annotazione al termine di una costituzione relativa alle feste con tre lezioni mostra chiaramente che nel 1288 era ancora in vigore il modus ecclesiae Castellanae, cioè l’antica liturgia diocesana. Infine possiamo sapere che le messe per gli sposi erano celebrate dal pievano o da un suo delegato prima della messa maggiore domenicale. Emerge inoltre in Querini, che si rifà a una costitiuzione del patriarca Domenico di Grado, la volontà di solennizzare le feste dei santi a cui erano dedicate le chiese della città e della diocesi con la recita delle nove lezioni durante l’Ufficio Divino.
Qualche tempo dopo il presule ebbe modo di scontrarsi con la domus degli eremiti di Sant’Agostino di Venezia, rappresentati dal frate Crescimbene, a cui il 24 gennaio 1290 vietò di appellarsi contro una sentenza da lui emessa che, a tutela dei chierici della parrocchia, vietava agli eremitani di occupare una casa in S. Bartolomeo. Ma il frate rifiutò l’ingiunzione, affermò di non riconoscere la giurisdizione del vescovo di Castello e, nel successivo contraddittorio (28 gennaio 1290), dichiarò che il presule aveva utilizzato «multa verba iniuriosa et gravamina» (Archivio di Stato di Venezia, S. Stefano, 3036, perg. n. 5c).
Iniziava a Venezia uno scontro tra episcopato e Ordini religiosi mendicanti, dissidio che procurerà effetti negativi al nipote Bartolomeo II, anche lui vescovo di Castello. Il documento è importante pure perché fu rogato «in palacio Castellani episcopatus», a testimonianza della presenza del centro di potere episcopale a Castello.
Nel 1290 il presule acquistò una casa lungo il rio di Castello per creare un ospizio in cui ricoverare almeno 16 infermi. Avanti il 14 febbraio 1291, ottenuto qualche anno prima dal papa Onorio IV il permesso di fare testamento, Bartolomeo dettò le ultime volontà. Lasciò al nipote Bartolomeo, figlio di suo fratello Matteo, una piccola croce che zio e nipote usavano durante la celebrazione delle messe e tutti i suoi libri. Istituì poi presso il Capitolo della cattedrale di Castello sei ‘mansionari’, cioè sei preti obbligati a risiedere e celebrare una messa giornaliera, ma soprattutto a partecipare sempre alla recita del Divino Ufficio in coro, anche se non erano canonici. L’obiettivo era dunque quello di assicurare giorno e notte la presenza di sacerdoti che cantavano e leggevano comunitariamente l’Ufficio. Inoltre egli volle essere fundator hospitalis pauperum Sancti Bartholomei de Castello e chiese al nipote di continuare la sua opera erigendo una chiesa accanto al nosocomio.
Morì tra il febbraio e il marzo del 1291; fu sostituito dal primicerio di San Marco, Simone Moro, mentre il nipote Bartolomeo diveniva a sua volta primicerio della basilica marciana.
Fonti e Bibl.: Archivio segreto Vaticano, Schedario Garampi, Episcopi, voce Castellanus; Archivio di Stato di Venezia, Procuratori San Marco de citra, B. 272, Commissarie di Bartolomeo Querini; San Zaccaria, pergamene, b. 34, n. 116, b. 35, n. 6; San Nicolò al Lido (3014), pergamene, b. 10, n. 154; Santo Stefano (3036), b. 4, n. 5c; Codice Diplomatico Veneziano, Regesti dei Documenti (secolo XIII), San Francesco di Paola; Misc. Codd., II, 23 St. veneta: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, VI, p. 305; Les Registres de Innocent IV. Recueil des bulles de ce pape, a cura di E. Berger, Paris 1884-1887, n. 5918; Les registres de Grégoire X. Recueil des bulles de ce pape, a cura di M.J. Guiraud, Paris 1892, n. 600; Les registres de Clément IV. Recueil des bulles de ce pape, a cura di E. Jordan, Paris 1893, n. 1364; Les registres d’Urbain IV (1261-1264). Recueil des bulles de ce pape, a cura di M.J. Guiraud, Paris 1901-1958, n. 2500; Andreae Danduli Chronica..., in RIS2, XII, 1, a cura di E. Pastorello, Città di Castello 1940, p. 319; Les Registres d’Alexandre IV. Recueil des bulles de ce pape, a cura di C. Bourel de la Roncière, Paris 1959, nn. 1802, 3210.
F. Corner, Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia e di Torcello, Padova 1758, pp. 9 s.; La vita della beata Beatrice seconda d’Este, Ferrara 1777, pp. 51-54; G. Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche libri tre, III, Venezia 1795, pp. 137-139, 229, 234 s., 326; E.A. Cicogna, Delle iscrizioni veneziane raccolte e illustrate, III, Venezia 1830, p. 87; A. Salsi, De pievani della chiesa di San Pantaleone in Venezia. Cenni storico critici, Venezia 1837, pp. 39 s.; Cenni storici intorno ad alcuni canonici della cattedrale di Ferrara, Ferrara 1845, p. 7; V. Lazzarini, Possessi e feudi veneziani nel Ferrarese, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, I, Roma 1958, pp. 215-218; G. Fedalto, Correr Pietro, in Dizionario biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 506 s.; A. Rigon, I vescovi veneziani nella svolta pastorale dei secoli XII e XIII, in La Chiesa di Venezia nei secoli XII e XIII, a cura di F. Tonon, Venezia 1988, pp. 41-44; F. Sorelli, Gli ordini mendicanti, in Storia di Venezia dalle origini alla caduta della Repubblica, II, Roma 1995, pp. 910, 920; A. Fremmer, Venetianische Buchkultur: Bücher, Buchhändler und leser in der Frührenaissance, Köln 2001, p. 324; P. Vuillemin, Droit et réforme ecclésiastique à Venise à la fin du Moyen Âge: le Synodicon Giustiniani (1438). Édition critique: Biblioteca nazionale Marciana Ms. Lat. IV, 105 (= 2378), Roma 2015, pp. 33, 57, 63 s., 100, 152, 210 s.; “Ego Quirina”. Testamenti di veneziane e forestiere (1200-1261), a cura di F. Sorelli, Venezia-Roma 2015, pp. 150-152 (testamento di Richelda Querini).