GRADENIGO, Bartolomeo
Nacque a Venezia il 10 luglio 1636; era del ramo della famiglia patrizia di Rio Marin nella parrocchia di S. Simeone Grande, sestiere di S. Croce, terzogenito maschio del primo matrimonio, celebrato nel giugno 1624, di Daniele di Giovanni Giacomo con Lucrezia Moro di Girolamo. Il 29 luglio fu iscritto all'ufficio dell'avogaria di Comun con il nome di Bartolomeo Paterniano.
Ebbe tre fratelli, Giovanni Giacomo, Girolamo e Marco, e quattro sorelle, Elisabetta, sposa di Daniele II Dolfin, Maria Felice e Canciana, monache al Corpus Domini, e Lucrezia, suora a S. Maria degli Angeli di Murano. Dal secondo matrimonio (nel 1640) del padre con Cecilia Contarini, vedova di Francesco Cappello, non nacquero figli maschi. Solo il fratello Girolamo - che ascenderà sino all'ambita carica di procuratore di S. Marco - continuò la discendenza del ramo familiare generando, con Donata Foscari, ben dieci maschi - a ognuno dei quali fu imposto il nome di Bartolomeo (Bortolo) - e una femmina, Lucrezia, amata nipote del G. che andò sposa ad Andrea Capello.
Il G. fu destinato, come il fratello Giovanni Giacomo, alla carriera ecclesiastica in ossequio alla profonda religiosità che permeava la famiglia e nel solco dello zio paterno Marco, patriarca di Aquileia dal 1629 al 1657. Il 9 apr. 1667 il G. divenne suddiacono, il 2 ottobre diacono e il 9 ottobre fu consacrato presbitero. Nel frattempo conseguì il dottorato in utroque iure. Fu prelato domestico dei papi Alessandro VII e Clemente IX e referendario della congregazione del Buon Governo.
Il primo incarico in territorio veneto gli giunse il 14 nov. 1667, quando fu eletto vescovo di Concordia (oggi Concordia Sagittaria), nella Patria del Friuli, subentrando a un altro veneziano, Benedetto Cappello. Il suo incarico in quella sede periferica fu di breve durata: il 27 febbr. 1668 fu sostituito da Agostino (II) Premoli, già governatore pontificio, e chiamato a subentrare ad Antonio Lupi nella diocesi di Treviso, dove lo precedette la sua fama di uomo di Chiesa di caritatevole indole e di ampie vedute. Per il suo insediamento (che avvenne solo nell'aprile) gli furono dedicati due scritti celebrativi dagli eruditi locali P. Brugni e M. Galanti.
L'attività pastorale del G. fu legata principalmente al sinodo del 16-18 sett. 1670, rinnovato negli anni successivi, le cui costituzioni furono pubblicate solo nel 1681. Le ingenti disponibilità economiche del G. - era con il fratello Girolamo erede unico delle sostanze paterne -, nonché un'innata capacità imprenditoriale gli permisero inoltre di contribuire al sostentamento di chiese, conventi e opere di carità presenti nel Trevigiano, che furono ricordate con generosi lasciti testamentari: 1500 ducati al capitolo della cattedrale, da reinvestire nel Monte di pietà per destinarne gli interessi alle distribuzioni quotidiane alla mensa evangelica del mattutino; 50 ducati annui per venticinque anni, destinati all'insegnamento della dottrina cristiana nella città e nella diocesi; 1500 ducati al Monte di pietà da distribuirsi 500 ai poveri e il rimanente per maritare o monacare giovani povere "di buona fama" del territorio asolano; 300 ducati alle convertite; 200 alle cappuccine e 10 "di commestibile" rispettivamente ai conventi dei cappuccini, dei riformati di S. Francesco e dei carmelitani scalzi. Lasciò invece solo due botti "di vino buono" alle orsoline di S. Angela Merici di cui consacrò l'oratorio nel 1681, come testimonia la lapide.
Il 13 luglio 1682 fu eletto vescovo di Brescia, sede vacante dal 1678 e retta dal vicario capitolare C.A. Luzzago, dove lo aspettava una non facile situazione.
Nel convento domenicano di S. Caterina, che ospitava un'ottantina di monache, erano stati denunciati gravi episodi di rilassatezza morale e scandali a sfondo sessuale in cui risultavano implicati converse e alcuni giovani della nobiltà cittadina. Il processo, che ebbe larga risonanza pubblica, si concluse nell'agosto con la sentenza, emessa dal Consiglio dei dieci, di bando perpetuo e confisca dei beni per 13 imputati, mentre il G. condannò 10 monache a pene da un anno alla reclusione a vita in apposite celle del monastero. Dal settembre, per volere del papa Innocenzo XI, l'istituto fu posto sotto la diretta giurisdizione del G. che si prodigò per un suo rapido e totale recupero. Nella sede bresciana il G. ebbe modo di manifestare appieno le sue qualità di uomo di fede, rigoroso ma scevro da imposizioni autoritarie e vessatorie.
Dopo aver estirpato le pratiche quietistiche, appoggiate dal suo predecessore Marino Zorzi, con la chiusura dell'oratorio di S. Maria delle Consolazioni, a compimento della sua opera riformatrice, tra il 9 e l'11 maggio 1685, proclamò un sinodo, le cui costituzioni, pubblicate nello stesso anno, rimasero le fondamentali disposizioni della diocesi bresciana sino al sinodo del 1889.
Grande momento di commossa religiosità collettiva, di cui il G. fu fervido promotore, il sinodo ebbe luogo nella quaresima del 1688, con la predicazione in duomo del cappuccino Marco d'Aviano.
Come già nella diocesi di Treviso, il G. fu sensibile alla creazione di nuove istituzioni religiose. Per suo volere nel 1684 i padri filippini furono autorizzati all'erezione di una chiesa e di un convento nell'allora palazzo Colleoni Martinengo alla Pallada (inaugurati il 1° nov. 1686), mentre nel dicembre 1691 ai teatini fu concesso di prendere possesso della casa e della chiesa dei padri della Pace, già abbandonate dal 1686, presso il seminario (chiesa di S. Gaetano).
Il G. non trascurò l'istruzione del clero, in particolare per gli studi sacri e umanistici, accrescendo a proprie spese il patrimonio documentario del seminario e quello della sua biblioteca, avviando una tradizione del clero bresciano che si affermò in seguito e per tutto il Settecento. Anche nel suo testamento il G. fu prodigo con il seminario bresciano, cui lasciò mille ducati e l'istituzione di una Cappellania di messa quotidiana per 25 anni.
Sentendosi probabilmente vicino alla morte, nel 1698 tornò a Venezia dove, dopo un mese di febbre, morì il 29 luglio. Adempiuti gli uffici funebri - celebrati, per volere dei nipoti, nella chiesa di S. Simeone Grande presso il palazzo di famiglia - il corpo fu traslato a Brescia e sepolto, come da sua volontà, nella cappella che il G. si era fatto erigere nel duomo nuovo.
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