GRADENIGO, Bartolomeo
Figlio di Angelo di Bartolomeo, cugino di secondo grado di Pietro Gradenigo, nacque a Venezia, nella parrocchia di S. Lio, all'inizio del 1263, tra gennaio e febbraio.
Il padre era stato duca di Creta tra il 1234 e il 1236 e, in tale veste, aveva portato a termine la repressione della ribellione dell'isola che durava ormai da diversi anni. Inspiegabilmente, la Vita del doge Bartolammeo G., operetta manoscritta di Pietro Gradenigo dagli intenti celebrativi ma non priva di una qualche utilità, pur dilungandosi sui meriti civili del G. e della sua famiglia tace del tutto di questa esperienza cretese del padre. D. Barbaro attribuisce al G. un unico fratello, Bertucci, dottore, più volte del Consiglio dei pregadi e nel 1338 ambasciatore presso Ubertino da Carrara, signore di Padova. Forse ebbe anche delle sorelle, ma non è dato saperlo con certezza.
La Vita di Pietro Gradenigo non riferisce alcun episodio circostanziato degli anni giovanili del G. e della sua formazione culturale e poco aggiunge anche sul suo apprendistato politico, sui suoi primi passi sulla scena istituzionale veneziana.
Sempre dalla Vita si ricavano non poche notizie circa il suo cursus honorum non altrimenti documentate, per cui non sempre è possibile separare il dato sicuro dall'intento celebrativo ed encomiastico. Certa appare comunque la sua elezione a podestà di Ragusa (Dubrovnik), una prima volta nel 1310, una seconda volta tra il 1312 e il 1313, una terza nel 1320; e altrettanto indubitabile quella a podestà di Capodistria nel 1329. Fu inoltre ripetutamente inserito, in qualità di sapiens, in numerose commissioni del Senato, incaricate di volta in volta di esaminare questioni di particolare importanza attinenti, a seconda dei casi, alla politica estera oppure a quella interna dello Stato e di riferire al Consiglio, con facoltà anche di "mettere parte"; questo a riprova del prestigio di cui era ampiamente circondato, sia nello stesso Senato, sia in Maggior Consiglio. Partecipò, ma non nella tornata conclusiva, anche all'elezione dei dogi Marino Zorzi (1311), Giovanni Soranzo (1312) e Francesco Dandolo (1329).
Alla morte di Nicolò Falier, il 25 febbr. 1334 fu eletto procuratore di S. Marco de citra, con 382 voti a favore, carica che ricoprì per cinque anni e otto mesi. Morto Francesco Dandolo (31 ott. 1339) il G. fu eletto doge; la tornata elettorale decisiva si tenne il 7 novembre, ed egli stesso figurò tra i 41 grandi elettori.
In quest'occasione giocò un ruolo determinante l'informale alleanza che da più generazioni legava, anche con complessi vincoli matrimoniali, i Dandolo e i Gradenigo, vale a dire le due casate allora dominanti all'interno del patriziato veneziano e che, con accorta strategia famigliare, si alternavano al soglio ducale. Concorrevano al dogado Marino Falier di Iacopo dai Ss. Apostoli e i due rappresentanti più significativi delle famiglie Dandolo e Gradenigo: Andrea di Fantino e il G. appunto, che nel frattempo aveva sposato la sorella maggiore del Dandolo. Solo l'accordo intervenuto tra le tre famiglie permise l'elezione del G., con 33 voti a favore sui 41 disponibili. Andrea Dandolo infatti, appena trentenne, per quanto già famoso per la sua dottrina, era ancora molto giovane per la più alta magistratura della Repubblica, e poteva attendere ancora qualche anno prima di rivestire le insegne dogali, come avvenne puntualmente proprio alla morte del Gradenigo. Nella Vita si possono leggere a proposito dell'incoronazione del G. alcune interessanti note di costume, utili alla migliore comprensione dell'uomo prima ancora che del doge: "Giunto alla scala detta de' Giganti, gli fu consegnato il governo col mettodo di cerimoniali, e poi venne coronato non senza lacrime di tenerezza dal proprio figliolo Ermolao, il più giovane de' consiglieri, con notabile avenimento mai più occorso" (p. 14).
Di età sufficientemente avanzata e non inviso ai ceti popolari, il G. sembrava avviato a un tranquillo mandato, grazie anche a un insieme di circostanze favorevoli che da tempo non era dato di registrare. Tacevano infatti le armi e il partito "guelfo", che tanto aveva movimentato il dogado di Pietro Gradenigo, poteva dirsi del tutto sradicato da Venezia, giusto a seguito della feroce repressione attuata dal Consiglio dei dieci. A motivo soprattutto dei tempi tutto sommato relativamente tranquilli del suo dogado, ove si eccettui l'ennesima rivolta di Creta, fu pertanto possibile mandare a buon fine l'ammortamento del 19% del debito pubblico, con evidente vantaggio delle casse dello Stato. Su proposta del G. il Maggior Consiglio poté avviare a soluzione anche il complesso e delicato problema dell'amministrazione dei vecchi centri del Dogado, Pellestrina, Poveglia e Malamocco, da sempre attribuiti alla diretta giurisdizione del doge. Non erano infatti trascorsi due mesi dall'elezione dogale che anche l'amministrazione di queste località veniva affidata a rettori regolarmente inviati da Venezia. Ai primissimi tempi del dogado del G. va anche ascritta la sistemazione della strada che da Rialto porta a S. Marco, attraverso le Mercerie, e l'avvio dei lavori di costruzione dei granai pubblici di Terranova (17 apr. 1341), dove in precedenza si trovavano gli squeri per le galere grosse. Nel 1342 fu inoltre rinnovata la tregua in corso con Giovanni Paleologo, imperatore di Costantinopoli e prorogata la validità del trattato commerciale che assicurava lucrosi vantaggi ai mercanti veneziani.
Non mancarono tuttavia anche momenti difficili e occasioni di scontro con la città, che contribuirono non poco a far scemare il consenso generale e la popolarità di cui godeva il doge. Ancora una volta nelle parole di un cronista affiorano efficacissime le immagini vivide del momento, e il commento amaro sulla troppa facilità con cui la massa è pronta ad attribuire la colpa di tutte le sue disgrazie a chi rappresenta, o esercita, secondo il caso, il potere: "Soravennero al tempo della signoria di Bortolamio Gradenigo alcuni accidenti, parte naturali et parte seguidi a caso […] che ancora che il detto fosse de graciosa et benigna natura lo fecceno manco grato all'universal, et dal volgo massimamente tutto quello che intravien se attribuisse al signor" (Cronaca… Daniele Barbaro, c. 66r).
Il primo di questi "accidenti" fu la disastrosa mareggiata del 15 febbr. 1341, un'eccezionale ingressione d'acqua marina, che produsse danni rilevanti soprattutto per le merci accumulate nei magazzini a pian terreno, sommergendo gran parte della città, e che sembrò ai più un segno tangibile della collera divina e il preannuncio della fine imminente. Dallo scampato pericolo Venezia trasse comunque occasione per aggiungere un altro mattone al mito del suo esclusivo rapporto con la divinità, che interviene a soccorrerla ogni qual volta la furia degli elementi e degli uomini sembra accanirsi a suo danno.
La spiritualità popolare, opportunamente guidata, non ci mise molto, infatti, ad attribuire la salvezza della città all'intercessione miracolosa di s. Marco, s. Giorgio e s. Nicolò, i quali non solo avrebbero sconfitto i demoni che avevano suscitato la tempesta, ma avrebbero lasciato pure al povero pescatore che li aveva portati con la sua barca attraverso la laguna un anello da recapitare al doge, segno materiale del loro intervento, quasi suggello della speciale protezione accordata a Venezia e alla sua particolare forma di governo. La leggenda dei tre santi rivive in un bel dipinto di Paris Bordone, oggi alle Gallerie dell'Accademia.
Ma ben altra tempesta dovette affrontare il G., e questa volta non tra le lagune, bensì nel più strategico dei possedimenti veneziani in Levante, a Creta, l'isola così importante per il prestigio e per la salvaguardia dei commerci della Serenissima, così fiera nel resistere, al limite della sopravvivenza, alla presenza di uno straniero che voleva dominarne anche l'animo. La ribellione, scoppiata durante gli ultimi mesi del 1342, pose come sempre Venezia di fronte al dilemma senza risposte certe e rassicuranti: repressione sanguinosa e feroce ovvero mitezza e ricerca del consenso.
Il breve dogado del G. fu inoltre funestato da una grave carestia di frumento che gli procurò l'avversione delle masse popolari e gli alienò del tutto le restanti simpatie, sebbene avesse egli stesso ispirato alcuni opportuni e utilissimi provvedimenti, quali gli incentivi all'importazione di granaglie e soprattutto la costruzione dei granai di Terranova.
Nonostante le buone intenzioni il G. non riuscì più a recuperare il consenso popolare. Egli morì il 28 dic. 1342, proprio quando la carestia, imputabile in gran parte alle oggettive difficoltà di approvvigionamento conseguenti alla ribellione di Creta, era ormai in via di superamento. Fu sepolto nel braccio sinistro dell'atrio della basilica di S. Marco, entro un sarcofago gotico di scuola pisana, di buona fattura, collocato sotto il mosaico raffigurante il giudizio di Salomone. Del G. si conserva anche un monumento funebre ai Ss. Giovanni e Paolo.
Prima di sposare, secondo il Barbaro e altri, la sorella maggiore di Andrea Dandolo il G. si sposò con tutta probabilità altre volte: una prima con una Cappello, una seconda quasi certamente con una Contarini, Maddalena. Ebbe numerosi figli maschi, anche se non si sa da quale delle tre mogli, forse dalla prima. Di almeno otto di questi conosciamo il nome e anche qualcosa di più: Bertucci, il primogenito, rettore di Chioggia nel 1328, premorto al padre; Giovanni, dal cursus honorum particolarmente significativo, che alternò ripetutamente incarichi politici, militari e diplomatici di altissimo livello, offrendo in ogni campo singolari prove delle proprie capacità e dei propri meriti; Almorò o Ermolao, che fu tra i 41 nell'elezione a doge di Giovanni Dolfin; Marco; Pietro, conte a Traù nel 1355, che contese il seggio ducale a Giovanni Dolfin nel 1361; Luca; Nicolò, nel 1348 ambasciatore presso Ludovico d'Ungheria e più volte dei Savi; e infine Antonio, conte di Arbe nel 1348. Per loro il padre, offrendo un esempio di nepotismo assai poco edificante che suscitò ovunque malumori e recriminazioni, brigò e ottenne favori, incarichi di governo, anche prestigiosi, missioni diplomatiche, uffici lucrosi; e come se tutto questo non fosse bastato, il doge e i suoi famigliari, compresa anche la dogaressa, si impegnarono più che attivamente nei loro traffici e nei loro commerci privati, al punto tale da provocare, appena dopo la morte del G. e nelle more dell'elezione del successore, un pesante intervento del Maggior Consiglio che non solo vietò l'attribuzione di pubblici uffici ai fratelli, ai figli e ai nipoti di un doge fintantoché questi fosse ancora vivo, ma anzi proibì per il futuro al doge, ai suoi famigliari e ai congiunti di esercitare in alcun modo la mercatura.
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