GOTTIFREDI, Bartolomeo
Nacque a Piacenza all'inizio del XVI secolo, in una data che resta ignota, così come assai scarse sono le notizie intorno alla sua vita.
Di famiglia patrizia, fu abilitato al notariato nel 1531, ma dovette esercitare il mestiere delle armi, verosimilmente negli eserciti imperiali, che lo allontanò per alcuni periodi dalla patria. L'accenno, in due sonetti (ed. 1980, nn. 8, 9), a una "gloriosa, e onorata meta" che lo ha portato lontano dall'amante, sul lido provenzale, è da riferire alla campagna condotta da Carlo V in quella regione nel 1536; mentre il soggiorno in Ungheria, di cui parla la Lettera in lode della chiave di Anton Francesco Doni, indirizzata al G. in data 3 dic. 1543, va forse collocato nel periodo della guerra per arginare l'avanzata degli Ottomani nel 1541. La lettera è una missiva scherzosa, una "chimera", in stile bernesco e piena di trasparenti sottintesi osceni, con la quale il Doni dà il benvenuto all'amico, traendo il pretesto dalla riconsegna della chiave dell'Accademia degli Ortolani, di cui egli ha custodito le carte durante la sua assenza. La data del rientro in patria è confermata da una lettera a Ludovico Domenichi del 20 apr. 1544, nella quale il G. dice di essere tornato a Piacenza da cinque mesi. Prima si era probabilmente trattenuto qualche tempo a Venezia, dove fu anche negli anni successivi, stringendo rapporti con letterati e personaggi attivi nella città. Ai rischi della vita marziale e al coraggio con cui il G. li affrontò sembra alludere l'impresa che gli attribuisce, con chiaro proposito nobilitante, il Domenichi nel suo Dialogo delle imprese (Dialoghi, p. 185): il nodo gordiano tranciato dalla spada, scelto in risposta al destino di morte violenta, predettogli da alcuni astrologi.
Dopo il ritorno a Piacenza il G. fu tra coloro che si schierarono con il principe imposto sul trono del neo istituito Ducato di Parma e Piacenza dalla politica di papa Paolo III. Insieme con altri letterati, locali e non (Annibal Caro, Gandolfo Porrino, Giovanni Pacini, Antonfrancesco Rainerio, Claudio Tolomei), fu tra i nove consiglieri e segretari intimi del duca Pierluigi Farnese, ma non sono chiari né il ruolo da lui svolto nell'opera di riorganizzazione dello Stato avviata con grande energia dal Farnese, né la sua condotta dopo l'assassinio di questo il 10 sett. 1547 e negli anni successivi, per i quali non possediamo notizie.
Non si conoscono la data e il luogo di morte del G.; la sua presenza come personaggio nel Dialogo dell'amore fraterno del Domenichi pubblicato nel 1561 rappresenta l'informazione cronologicamente più avanzata su di lui, ma inutilizzabile a fini biografici.
L'esperienza letteraria del G. appare quantitativamente esigua e, in buona sostanza, riconducibile all'ambiente dell'Accademia degli Ortolani, che fiorì a Piacenza all'inizio degli anni Quaranta, per iniziativa di un gruppo di letterati ristretto e municipale, e nella quale, con lo pseudonimo di Cipolla, egli rivestì, come si è visto, cariche istituzionali. Tra i membri del cenacolo spiccano le personalità emergenti del Doni e del Domenichi, ma vi militavano altre figure di rilievo, anche se il loro ruolo non valicò i limiti cittadini: Tiberio Pandola, Giovan Battista Boselli, Girolamo Mentovato, Antonio Bracciforti. Il programma giocoso e satirico è simboleggiato nel suo emblema (un Priapo, dio degli orti) ed esplicitamente enunciato nel Dialogo delle imprese del Domenichi (Dialoghi, p. 175), che parla tuttavia pure di letture di filosofia, logica, retorica, poesia latina e toscana, nonché di opere degli accademici in latino e in volgare. Anche il Doni, nella lettera a Giovann'Angelo scultore del 3 genn. 1543 (Lettere, c. XXXVIIIr), parla di letture di retorica tenute dal Boselli, di altre di filosofia, poesia latina e volgare, e di un certo numero di opere di accademici (lettere, dialoghi, commedie, versi in onore di Priapo) in corso di composizione. Seppure si deve presumere che l'attività dell'Accademia restasse in prevalenza al livello di un pur pregevole e impegnato dilettantismo, resta pertanto il dato delle aspirazioni erudite coltivate da alcuni accoliti e l'approccio con generi più impegnati: a Tiberio Pandola, oltre a descrizioni di cerimonie pubbliche avvenute a Piacenza e rime, è ascritta una tragedia Della Passione di Cristo, in ottave (Milano 1541); versi degli accademici sono accolti in vari volumi delle sillogi di Rime di diversi autori allestite dal Domenichi (I, Venezia 1545; II, ibid. 1547; III, ibid. 1550; IV, Bologna 1551). Al carattere esplicitamente licenzioso dell'Accademia e alle ostilità che per questo si attirò (nel suo epistolario il Doni parla degli attacchi di un Vincenzo Dini, cancelliere del cardinale U. Gambara, allora legato di Lombardia e governatore di Parma e Piacenza, ricordato in maniera poco lusinghiera anche nel Raverta del Betussi, p. 59), ma forse più all'emigrazione delle sue due principali personalità, il Doni e il Domenichi, in centri letterari e tipografici più vitali (rispettivamente Firenze e Venezia), l'Accademia dovette la sua dispersione, probabilmente già prima dell'avvento, nell'agosto 1545, di Pierluigi Farnese.
Opera principale del G. è lo Specchio d'amore, dialogo nel quale alle giovani s'insegna innamorarsi, pubblicato dal Doni a Firenze nel 1547, insieme con la Lettera in lode della chiave e la risposta del G., sullo stesso registro. La dedica dell'autore a Sforza Sforza conte di Borgonuovo, datata Piacenza 11 sett. 1542, anticipa però di parecchio la data di composizione (una seconda dedica "Alla virtuosa giovane signora Candida", la donna amata dal G., non reca data); il Betussi lo dà come composto nel Dialogo amoroso del 1543 (c. 20v) e una lettera del Doni al Domenichi del 9 sett. 1545 testimonia che il Doni già allora aveva in progetto l'edizione. Si tratta di un dialogo pedagogico sul modello del Dialogo della creanza delle donne di Alessandro Piccolomini, apparso nel 1539, che rappresenta il capolavoro del genere, al quale si possono ascrivere, pur nella loro unicità, il Ragionamento e il Dialogo aretiniani (apparsi rispettivamente nel 1534 e 1536), il Ragionamento nel quale brevemente s'insegna a' giovani uomini la bella arte d'amore di Francesco Sansovino (1454), che presenta la situazione speculare, con interlocutori maschili, nonché il Raverta e la Leonora del Betussi, rispettivamente del 1545 e 1557: con tutti questi letterati il G. entrò certamente in contatto nei suoi soggiorni veneziani. Vicino, nella struttura, al dialogo piccolominiano, lo Specchio è un'opera di formazione, nella quale la servente Coppina istruisce la giovane Maddalena intorno alle pratiche dell'amore e ai modi di poterne fruire liberamente senza destare scandalo. Secondo le modalità di un'institutio che percorre i passaggi topici della materia erotica (convenienza di età, indole, status dell'innamorato, scambio di lettere e versi, ballo, stratagemmi e segni convenzionali, gelosia, incontri, occasioni sociali ecc.; altri argomenti, pure canonici, sono tuttavia trascurati: il trucco, l'abbigliamento), la giovane e ignara Maddalena viene edotta e incoraggiata ad accostarsi all'esperienza amorosa, per la quale ella è matura e di cui è inconsapevolmente desiderosa (infatti il discorso si concretizza rapidamente sul giovane Fortunio, per il quale Maddalena già prova interesse). A partire da un orizzonte che schiva problematiche filosofiche impegnative e fonda l'autorità sull'esperienza (Coppina illustra una condotta che essa stessa ha osservato in gioventù), con toni concreti e espliciti (si accenna tra l'altro alla necessità, nel caso, di partorire senza creare scandalo), ma senza scadere nell'osceno o nel lubrico, con un linguaggio facile e comunicativo di ritmo quasi teatrale, la matura domestica mischia maniera didascalica e maieutica, così da far emergere le legittime e autentiche aspirazioni della fanciulla, e istruirla sui modi di assecondarle con una condotta accorta e sagace, rispettosa delle regole e delle convenzioni sociali, in nome di un naturalismo dei sentimenti e dei bisogni fisici, che si situa agli antipodi dell'amore contemplativo e spiritualizzato promosso dalla corrente bembesca.
Diverso doveva essere il contenuto di un altro dialogo che sarebbe stato composto dal G. e che andava sotto il titolo di Amor santo delle monache. Ne fanno menzione il Betussi, nel Dialogo amoroso (c. 20v) e nel Raverta (p. 78); e, ripetutamente, il Doni: nella Lettera della chiave, nella lettera a Giovann'Angelo scultore del 3 giugno 1543, nella Seconda libraria (p. 275), nella lettera da Firenze del 26 ott. 1545, quest'ultima costruita come un dialoghetto comico circa un aneddoto scabroso che a Lodi era stato riferito al Doni da una conversa e che egli trasmette al G. per il suo lavoro. Doveva essere dunque, nonostante il titolo, un'opera oscena sugli amori illeciti delle religiose, probabilmente sul modello del I libro del Ragionamento della Nanna e della Antonia di P. Aretino, ma, oltre al contenuto, restano vaghe anche le date della gestazione dell'opera, visto che nelle lettere doniane del 1543 e del 1545 se ne parla come di un lavoro in fieri.
Del G. restano anche una trentina di rime, tra sonetti e madrigali, distribuite nei volumi delle miscellanee poetiche curate dal Domenichi di Rime di diversi autori (I, Venezia, G. Giolito, 1545, pp. 233-237; II, ibid. 1547, cc. 79v-82v; III, ibid., A. Arrivabene, 1550, cc. 138v-139r; VII, ibid., G. Giolito e fratelli, 1556, p. 357); a esse si aggiunge il sonetto contenuto nella lettera del Doni al G. del 3 ott. 1543, insieme con quello in risposta del Doni, entrambi di carattere encomiastico. Le rime gottifrediane si iscrivono nell'osservanza petrarchista della scuola cinquecentesca, alla quale aderiscono per uniformità di linguaggio e stilemi caratteristici. Caratteri peculiari sono tuttavia una certa tendenza al concettismo e lo spazio dato alla mitologia, così come una declinazione concreta e appassionata del sentimento amoroso, che, pur nella sua intatta sostanza sentimentale, fa pensare alla concezione terrena e sensuale dello Specchio d'amore. Il G. canta il suo amore per Candida, che è ricordata come la donna amata del G. anche nel Dialogo della nobiltà delle donne del Domenichi (c. 264r) e nel Dialogo della musica del Doni, ma senza il nome di famiglia. è perciò probabile che si tratti di uno pseudonimo letterario (potrebbe essere il calco del greco Egle, "luminosa"), anche perché il catalogo di donne illustri in cui è inserita nel dialogo domenichiano presenta tutti nomi completi e personaggi identificabili con certezza. La presenza di una donna come motore dell'ispirazione, la distinzione possibile tra rime in vita e in morte, il tentativo di conferire alla vicenda amorosa una scansione temporale e di fissarne snodi topici (la lontananza, il risorgere della passione con il ritorno della bella stagione, la beatitudine superiore a quella del paradiso che dà la presenza dell'amata, l'esclusività della passione, il dolore che se ne ricava, la morte della donna e il compianto) testimoniano l'idea di una strutturazione in microcanzoniere e perciò sottraggono l'esperienza di verseggiatore del G. ai limiti dell'occasionalità, per conferirgli un buon livello di consapevolezza letteraria e non spregevole qualità poetica.
Che l'attività letteraria non avesse tuttavia un ruolo di primo piano - professionale - nella vita del G., è peraltro lui stesso a testimoniarlo nella lettera del 20 apr. 1544 al Domenichi, a Venezia (contiene saluti per il Betussi e per la poetessa Franceschina Baffo). Da quando è tornato dall'Ungheria - scrive il G. - non ha toccato penna se non due o tre volte, e spinto da altri; egli è di natura pigra e senza incoraggiamento non fa nulla: finché godeva della compagnia e dello stimolo del Domenichi gli pareva facile scrivere; ora che ne è privo, gli pesa a tal punto che quando prende la penna gli "par di pigliare un'antenna in mano" (Della nuova scelta di lettere, p. 345). Una situazione analoga è ritratta nei Marmi del Doni (Parte prima, Ragionamento settimo, Dialogo quarto), nei quali il G., il letterato ferrarese Alberto Lollio e Silvio scultore (pseudonimo del Doni) discutono delle difficoltà e dei rischi cui va incontro chi scriva (la competizione con i compilatori pedanteschi, la fatica di creare di proprio opere originali, la malignità dei critici ecc.), e il G. giustifica con queste ragioni la sua improduttività. Nel finale, il Doni lo coinvolge in un'allusione maliziosa, messa in bocca al Lollio, alle disavventure occorse al Domenichi (con cui il Doni aveva clamorosamente rotto alla fine del 1547) a Firenze nel 1551, a seguito della traduzione clandestina della Nicodemiana di Giovanni Calvino, ma non ci sono elementi per ritenere che nella contesa il G. avesse preso posizione a favore del Doni.
Testimonianza del favore con cui il G. era guardato nella società letteraria piacentina e veneziana è la serie piuttosto nutrita di dialoghi in cui egli figura come interlocutore o viene menzionato in toni lusinghieri. Nel Dialogo della musica del Doni (Venezia 1544), dedicato a Catalano Trivulzio, vescovo di Piacenza, figura tra gli interlocutori, celato dietro l'acronimo "Bargo", che egli adotta anche nelle sue rime, ricavato da nome e cognome, insieme con altri personaggi d'origine piacentina, verosimilmente della cerchia degli Ortolani, tutti identificati con il solo nome di battesimo o con pseudonimi più o meno trasparenti (il Domenichi, Ottavio Landi, Claudio Veggio, Perissone Cambio, Girolamo Parabosco, Isabetta Guasca), sintomo di una società integrata, cementata da legami personali, della quale si intende dare un ritratto salottiero e conversevole, fondato su occasioni di convergenza, piuttosto che di scontro dialettico. Accanto a Girolamo Roario, il G. è introdotto a parlare nel Dialogo dell'amore fraterno di Lodovico Domenichi (in Dialoghi, pp. 228-272), che si segnala per l'aneddotica di fonte antichistica che vi viene riversata. Il Betussi nel Dialogo d'amore mette lodi del G. in bocca a Franceschina Baffo e a F. Sansovino e, nel Raverta, ancora al Sansovino.
L'incarico confederale comportava l'ingresso di diritto al Gran Consiglio del fascismo. Pertanto con la riunione del 24 luglio 1943, che determinò la caduta di Mussolini, il G., come del resto diversi altri membri, partecipava per la prima volta al Gran Consiglio, in quanto tale organismo non si riuniva più dal 7 dic. 1939.
È accertato che il G. non concertò la sua adesione all'ordine del giorno Grandi con i promotori dell'iniziativa. Nel più volte ricordato memoriale a Pavolini del settembre 1943, egli sostenne, anzi, di non aver mai avuto alcun contatto ("mai stretta la mano o parlato, durante 23 anni") con quelli che sarebbero stati i protagonisti della "notte del Gran Consiglio". Egli si recò alla riunione senza sapere di cosa si sarebbe discusso; cercò di raccogliere qualche informazione da T. Cianetti, ma questi non seppe o non volle dirgli nulla. Tuttavia, finì per aderire all'ordine del giorno Grandi, poiché, come spiegò nella deposizione al processo di Verona, si convinse che il documento presentato da Grandi, auspicando un ritorno nelle mani del re della conduzione della guerra, "sgravava il Duce di molte responsabilità" (Cianetti, p. 467).
Il 16 agosto, P. Badoglio sollevò il G. dall'incarico confederale; egli non si allontanò da Roma ma, appena seppe della liberazione di Mussolini e della costituzione della RSI, inviò a Pavolini, segretario del neonato Partito fascista repubblicano, la sua entusiastica adesione, accompagnando la richiesta con quel promemoria con cui intendeva in sostanza fornire spiegazioni circa il suo comportamento alla seduta del Gran Consiglio. Ma, evidentemente, le spiegazioni non sortirono l'effetto desiderato. Il nuovo regime lo considerava ormai, insieme con gli altri firmatari dell'ordine del giorno Grandi, un traditore.
Agli inizi di ottobre, venne arrestato dalla banda Pollastrini e rinchiuso a Regina Coeli, e successivamente trasferito nel carcere di Padova. Durante tutta la detenzione, il processo a Verona, e davanti al plotone d'esecuzione il G. mantenne un contegno sereno e coraggioso.
Il G. fu giustiziato a Verona la mattina dell'11 genn. 1944.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centr. dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione generale di Pubblica Sicurezza, Divisione polizia politica, b. 620, f. G. L.; Segreteria particolare del duce, Carteggio ordinario, ff. 511.341, 548.853; Carte Cianetti; vedi anche: V. Cersosimo, Dall'istruttoria alla fucilazione, Milano 1949, pp. 118-150; T. Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, Milano 1983, ad indicem; G. Parlato, La sinistra fascista, Bologna 2000, ad indicem.