GIUSTINIANI (Giustiniani Longo, Giustiniani De Longis), Bartolomeo
Nacque nel 1435, probabilmente a Genova, da Giovanni di Daniele e da Pomellina De Fornari di Raffaele; ebbe un unico fratello, Battista, maggiore di lui di alcuni anni.
Tra il 1456 e il 1461 Battista fu presidente della Podestaria di Genova, anziano del Comune, membro degli Uffici di guerra e di moneta; nel 1470 console a Caffa, dove diede "chiari esempi di integrità" (Della Cella, c. 463), e nel 1476 governatore della Maona di Chio. Tutta la famiglia del G. fu impegnata nelle attività politico-finanziarie cittadine ruotanti attorno al Banco di S. Giorgio, particolarmente dinamico in quegli anni (il padre risulta detentore di cento "luoghi" o titoli), e coinvolta, in quanto componente della Maona di Chio, in ruoli di governo della colonia del Levante. Ma i Giustiniani mostrarono, altresì, competenze giuridiche e coltivarono interessi letterari, così da divenire un punto di riferimento della vita culturale cittadina.
Proprio il G. fu inviato a studiare legge a Pavia sotto Giovanni Giacomo Ricci, al quale era stato raccomandato da Iacopo Bracelli, cancelliere della Repubblica ed esponente ragguardevole dell'umanesimo genovese, con un lusinghiero giudizio sulle capacità intellettive del giovane allievo. A Pavia, e poi a Milano, il G. entrò in contatto con gli ambienti dell'umanesimo lombardo, intrecciando legami che mantenne per tutta la vita e guadagnandosi presso i suoi concittadini la fama di uomo dottissimo. Solo diversi anni più tardi, verso il 1490, conseguì la qualifica di notaio. Nel frattempo, dopo la permanenza di almeno un anno a Chio, nel 1451, al seguito del padre, la carriera politico-amministrativa del G. si era avviata a Genova, a partire dal 1466, come ufficiale di Moneta (ufficio incaricato della valutazione dei patrimoni a fini fiscali) e, dopo un intervallo di una decina d'anni, forse trascorsi tra Milano e Pavia, era ripresa, intensa, dal 1476, quando da Genova, in quegli anni sotto il governo sforzesco, il G. venne inviato in ambasceria al duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, dopo il fallimento della "congiura" di Gerolamo Gentile.
Il Gentile aveva cercato di organizzare, ai primi di giugno, una rivolta popolare antisforzesca, che aveva avuto un certo seguito, nella Valpolcevera, ma era stata subito avversata da altri settori della cittadinanza, la cui opposizione aveva di fatto provocato il fallimento del progetto prima ancora che il governo degli Anziani, presieduto dal governatore milanese Guido Visconti, intervenisse con la forza. Comunque, il governo, arrogatosi il merito della pronta repressione, aveva concesso al Gentile e agli altri capi della congiura un'altrettanto pronta amnistia, non gradita da Milano e in particolare dal duca Galeazzo Maria, che da Pavia, mobilitate consistenti forze militari, preparava la discesa su Genova.
In questa situazione, furono stese rapidamente, tra il 6 e il 7 giugno, le istruzioni per i quattro ambasciatori al duca. Il G., Antonio Spinola, Giovanni Salvago e Oberto Foglietta avevano l'incarico di convincere il duca che il fallimento della rivolta del Gentile doveva essere letto come la prova della fedeltà del popolo genovese al governo sforzesco; dovevano perciò ottenere la ratifica dell'indulto già concesso ai congiurati ed evitare l'invio di rinforzi militari, stante la condizione di sicurezza interna della città. La missione del G. e dei colleghi ebbe pieno successo: il duca mandò celeri contrordini alle truppe e, se pur a malincuore, ratificò tutte le richieste del governo genovese. Nei mesi successivi, il G. fu di nuovo a Chio, da dove ritornò per essere nominato anziano del Comune di Genova nel 1478 e 1479; scriba, cioè cancelliere, delle Compere di S. Giorgio nel 1488 e quindi notaio; poi, per un breve periodo, tra il 1498 e il 1499, cancelliere della Repubblica. Dopo aver dovuto riscattare, il 22 nov. 1499, il figlio Luca, catturato da Turchi o da pirati, il G., nel 1501-02, ricoprì la carica di governatore di Corsica (il cinquantaduesimo), con una saggezza e un'umanità tali da mantenere la pace nell'isola. L'anno dopo, con istruzioni del 12 ott. 1503, il G. fu eletto comandante di due navi dirette in Levante, quella di Bartolomeo Promontorio diretta a Chio e quella di Ambrogio Di Negro, sulla quale salì come commissario del governo anche Cristoforo Lercari, con l'incarico di fare da scorta armata alla prima, a difesa degli attacchi portati dalle navi del re di Francia, adirato con Genova che, nel conflitto internazionale in atto, si rifiutava di dichiarare guerra alla Spagna. Questo viaggio, o uno successivo, riportò il G. a Chio, dove ricoprì la carica di supremo governatore, o podestà, nel 1507, tenendosi così lontano dai conflitti cittadini in occasione della rivolta e del governo popolare del 1506-07, che videro tra i protagonisti più accesi membri di altri rami dei Giustiniani. Dall'attività intensa e polivalente del G., del resto, non emerge una sua collocazione politica definita, né in ambito interno né in ambito internazionale. Il Musso propende a collocarlo nell'ambito dei Fregoso, ma piuttosto per affinità culturale che politica; e, considerate le stesse oscillanti alleanze tra, e dei, Fregoso per tutto il Quattrocento fino ai primi decenni del Cinquecento, il problema resta comunque aperto. Sicura è invece l'appartenenza del G. a quel cenacolo di umanisti che, nella dimensione tutta genovese della città-stato priva di una corte, da brillanti dilettanti affiancarono all'attività economica o politica l'otium degli studi. Per testimonianza di un altro Giustiniani, l'annalista Agostino, il G. avrebbe costituito con Gerolamo Palmaro e Nicoloso Brignole "a tempi nostri […] un triumvirato di studi di umanità e di bone littere latine" (A. Giustiniani, p. 223). Ce lo confermano un libro e una bella dedica: nell'agosto del 1520, al G. ormai molto vecchio l'amico Gerolamo Palmaro, mercante e diplomatico, inviò dalla residenza di campagna ad Albaro un libro prezioso per confortarne gli ozi: era l'edizione delle epistole di Plinio il Giovane (Opus epistolarum) curata da Giuliano Maio per i tipi di Mattia Moravo (Napoli 1476). Il libro è attualmente nella Biblioteca universitaria di Genova (Rari, D.III.14) e reca, sulla prima pagina in bianco, una breve lettera in latino del Palmaro al G. con espressioni di affettuosa condivisione, che ci suggeriscono l'esistenza di una ricca biblioteca anche presso il G. ("propterea licet codices omnes mei sint tibi comunes: ut tui mihi") e il coinvolgimento del figlio Agostino in questi interessi letterari.
Il G. morì nello stesso 1520 (errata la data 1510 indicata dal Della Cella) e fu sepolto nella chiesa di S. Maria di Castello, nella cappella detta di S. Tommaso, che il padre Giovanni aveva fatto costruire con il proprio fratello Simone nel 1449.
Tale cappella è annessa alla cappella di S. Gerolamo, fatta edificare nello stesso anno da un altro Giovanni Giustiniani (fu Francesco, del ramo Campi), nel quadro di una sistematica acquisizione, a metà Quattrocento, di cappelle di questa chiesa da parte di vari membri della famiglia: proprio le iscrizioni nelle cappelle, con l'indicazione non solo del patronimico, ma degli ascendenti di due o tre generazioni, risultano strumento prezioso per distinguere tra le numerose omonimie, coinvolgenti anche il patronimico.
Proprio il G., del resto, si trova in questa condizione: un omonimo fu Giovanni, ma del ramo De Castro o Castello, sposato a una Andreola De Franchi Lusardi, con tre figli omonimi di altrettanti del G. (Vincenzo, Luca, Agostino); questo Giovanni operava procure su Lione e su Milano tra il 1503 e il 1516. Il G. aveva invece sposato Luchinetta Grimaldi fu Luca e ne aveva avuto almeno cinque figli maschi, indicati però in numero diverso e incompleto nei vari alberi genealogici: Domenico, Vincenzo, Luca (o Luchetto), Nicola, Agostino. Solo Vincenzo, premorto al padre e la cui moglie Giustina Rocca morì a Chio, continuò la discendenza con Luca, quinto doge Giustiniani nel 1611, da cui un altro Luca, doge nel 1657. Della moglie del G. si conserva presso l'Archivio di Stato di Genova il testamento, rogato il 17 giugno 1525 dal notaio Giovanni Costa (Notai antichi, filza 1289, doc. 354, e non doc. 311, come erroneamente indicato Ibid., Mss., 494, c. 47): vi è ricordato il marito già defunto, i figli sopra indicati e il nipote Luca fu Vincenzo, nonché una figlia Geronima, e date, disposizioni di lasciti all'ospedale di Pammatone e al convento delle clarisse. Non è stato rinvenuto invece il testamento del G., rogato nel 1480 dal notaio Giovanni Brignole, così come sono andate perdute le opere che gli vengono genericamente attribuite nei repertori.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Instructiones et relationes, filza 2707, B.67; Notai antichi, filza 1289, doc. 354; Mss., 494, c. 47; Genova, Arch. stor. del Comune, Mss., 54, cc. 93v, 94v; Ibid., Bibl. universitaria, Rari, D.III.14, c. 1; Mss., C.VIII.16: Alberi genealogici Giustiniani (senza numerazione di pagine); Ibid., Biblioteca civica Berio, Mss. e rari, X.2.168: A. Della Cella, Famiglie di Genova, cc. 463 s.; A. Giustiniani, Annali della Repubblica di Genova, a cura di B. Spotorno, Genova 1854, p. 223; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, Roma 1667, pp. 118-120; R. Soprani, Gli scrittori di Liguria, Genova 1667, p. 50; G. Banchero, Genova e le due Riviere, Roma 1846, p. 392; R.A. Vigna, Illustrazione storica, artistica ed epigrafica di S. Maria di Castello, Genova 1864, p. 350; G.G. Musso, La cultura genovese tra il Quattro e il Cinquecento, in Miscellanea di storia ligure, I, Genova 1958, pp. 143 s., 183 s.