FERRATINI, Bartolomeo
Nacque in Amelia (od. prov. di Terni) nel 1537, nipote del vescovo della città Baldo e pronipote del vescovo Bartolomeo Ferratini morto tre anni prima. In ossequio ai voleri della famiglia, che godeva ormai di una discreta notorietà anche a Roma, fu avviato giovanissimo alla carriera ecclesiastica, tanto che nel 1551 ad appena 14 anni, già si trovava nell'Urbe, presso lo zio, in qualità di canonico coadiutore nella basilica vaticana. A Roma in questo periodo il F. iniziò anche i suoi studi di giurisprudenza, acquisendo una buona padronanza della materia.
Le molte possibilità che la carriera ecclesiastica avrebbe potuto offrire ad un giovane, come il F., ben indirizzato da un parente vescovo, indussero Baldo Ferratini ad un passo che, nel tentativo di favorire la carriera del nipote, rischiò invece di compromettere quella di ambedue. Nei primi mesi del 1559 infatti tentò di rinunciare al suo vescovato passandolo nelle mani del F., allora appena ventiduenne. Ma il momento scelto non era propizio, perché sul soglio pontificio si trovava ancora Paolo IV Carafa, nemico degli abusi in campo ecclesiastico e severo fautore della residenza dei vescovi nella loro sede. La rassegnazione del vescovato attirò su Baldo Ferratini l'accusa di simonia e nell'aprile di quell'anno fu preparato l'ordine per porlo in prigione. Tuttavia la reputazione di Baldo come vescovo, le amicizie della famiglia, lo sfavorevole andamento della guerra promossa da Paolo IV contro gli Spagnoli, e soprattutto la stessa morte del pontefice, sopravvenuta nell'agosto di quell'anno, salvarono i Ferratini dal carcere. Così Baldo conservò per il momento il suo vescovato e il F. dovette invece attendere ancora qualche anno. Non molto perché nel 1562 Baldo Ferratini rinunciò per la seconda volta al vescovato di Amelia ed il 9 ottobre il F. gli subentrò nella diocesi, munito però questa volta di una regolare dispensa "super defectus aetatis".
Desideroso di mostrarsi degno dello zio, il F. prese seriamente l'impegno di vescovo recandosi subito dopo la nomina, l'11 novembre, a Trento dove nel 1560 da Pio IV era stato riaperto il concilio. A Trento il F. si interessò soprattutto della questione che più aveva inciso sulla sua vicenda personale, il problema della residenza dei vescovi. Il 18 genn. 1563 egli intervenne nel dibattito in difesa del decreto a suo tempo emanato da Paolo III e del principio che non si mettessero in dubbio le decisioni adottate. Quando il 15 luglio 1563 l'assemblea riuscì finalmente ad accordarsi sulla regola della residenza, il F. fu uno dei sottoscrittori del decreto.
Dopo questo importante impegno, il F. tornò alla sua diocesi, che governò per nove anni senza però abbandonare gli incarichi che aveva ricevuto a Roma e cessare di frequentare la capitale. Il 17 dic. 1571 ritenendo fosse giunto il momento di stabilirsi proprio a Roma per proseguirvi la sua carriera, rinunciò anch'egli al vescovato, conservandone tuttavia il titolo.
A Roma, dopo la morte dello zio, aveva intanto preso ancora una volta il posto di questo come canonico di S. Pietro il 12 maggio 1569 e prima, sotto Pio IV, aveva raggiunto il grado di referendario delle due Segnature. Una volta liberatosi dagli obblighi di governo di una diocesi, il F. si introdusse nel cuore della burocrazia pontificia, dove rimarrà per trent'anni lavorandovi in maniera incessante. Nel 1579 il F. compare assieme con Orazio Borghese, Fabio Biondi ed Alessandro Giusti tra i deputati o prefetti alla Fabbrica di S. Pietro; carica anche questa passata nelle mani della famiglia Ferratini ormai da decenni.
La presenza del F. nella direzione della Fabbrica coincise con un periodo di grande ripresa delle attività. Gregorio XIII desiderava portare a compimento l'immenso cantiere ed allo scopo aveva promesso al cardinale Alessandro Famese la considerevole somma di 100.000 ducati in dono se si fosse riusciti a terminare la costruzione della cupola ed il F. si gettò nella gara contro il tempo con entusiasmo. Questa gara però fu presto interrotta, non tanto da opportune ragioni di economia di spesa, ma perché Gregorio XIII preferì invece insistere sulla conclusione di quelli nel braccio destro del transetto, nel luogo che sarà detto, dopo la morte del papa ed in suo onore, cappella Gregoriana. Qui papa Gregorio voleva erigere un degno luogo di sepoltura per il corpo di s. Gregorio da Nazianzo, per il quale aveva particolare devozione e che era stato conservato fino ad allora in S. Maria di Campo Marzio. Cadendo la festa di questo santo l'11 giugno 1579, il papa ordinò che per tale data la cappella fosse terminata in modo da poter procedere ad una solenne traslazione. I lavori terminarono non senza difficoltà. Giunto quel giorno, il papa concesse indulgenze, ridusse il prezzo del pane, liberò gli arrestati per debiti mmori di 20 scudi i cui creditori soddisfò personalmente, e infine si svolse una grande processione che vide in prima fila, premiato così per la sua fatica, proprio il F., in qualità di prefetto della Fabbrica.
Nel 1580 il F. raggiunse il grado di vicario della basilica vaticana, divenendo poi vicecancelliere e reggente della stessa Cancelleria e quindi presidente della Segnatura di Grazia. Prima del 21 nov. 1584 è ricordato come luogotenente del vicecancelliere cardinale A. Farnese, che aveva conosciuto durante i lavori alla cappella Gregoriana, ma fu ancora una volta la Fabbrica di S. Pietro che, con l'avvento di Sisto V, gli procurò un momento di notorietà.
Il F. segui da vicino i lavori per l'obelisco e la cupola: il 10 settembre 1586 D. Fontana innalzò, tra la meraviglia dei presenti, l'obelisco in piazza S. Pietro; il 26 dello stesso mese il F. celebrò una solenne messa nella basilica vaticana in onore della S. Croce, in presenza del papa e del clero di S. Pietro, seguita da una processione fino all'obelisco dove lo stesso F. benedisse la grande croce di bronzo dorato che Sisto V pose come coronamento della punta del monolite. Il 14 maggio 1590 toccò invece al F. intonare il Te Deum sotto l'arcone davanti alla cappella Gregoriana, mentre l'ultima pietra della cupola veniva trascinata per la chiesa per essere collocata "in circulo test itudinein claudente" (Francia, 1977, p. 119). Il 19 maggio fu chiuso l'occhio della cupola.
In questi anni il nome del F. era già divenuto popolare in Roma per un'altra opera architettonica, il palazzo che si era fatto costruire sul lato meridionale di piazza di. Spagna, dalle belle forme in bugnato di gusto sangalliano.
Iniziato negli anni della sua venuta a Roma, l'edificio doveva essere terminato nel 1586 quando fu selciata la via che unisce ancor oggi il Corso al detto palazzo e che i Romani alla fine del secolo già chiamavano via Ferratina, e più tardi Frattina. Il F. possedeva un patrimonio cospicuo, che aveva saputo accumulare con la sua parsimonia, essendo uomo "che molto aveva dell'austero, e poco del cortegiano", come scrisse di lui il cardinale G. Bentivoglio. Parte di questo patrimonio doveva essere investito in immobili: abitavano una sua casa due sacerdoti siciliani, uno dei quali testimoniò il 25 febbr. 1597, nel primo processo per s. Filippo Neri.
Il F. oramai avanti con gli anni, fu creato cardinale da Paolo V il 14 sett. 1606. Ma il F. non ebbe neanche il tempo di ricevere il titolo, morendo nel suo palazzo romano il 1º nov. 1606. Fu sepolto nella cattedrale della sua Amelia, in un ricco sepolcro con un solenne epitaffio.
Dei suoi averi la maggior parte fu sperperata dai quattro figli del fratello Giovanni, e cioè i monsignori Baldo e Fulvio, assieme con Fabrizio e Simon Pietro, che erano già carichi di debiti quando era ancora vivente il loro zio, al quale dettero parecchie preoccupazioni. Il palazzo, gravato da numerose ipoteche, ospitò prima l'accademia di lettere latine e greche del nipote di Clemente VIII cardinale G. B. Deti, poi fu acquistato per 14.500 scudi dallo spagnolo mons. G. B. Vives, con l'intento di fame un istituto per le missioni, senza peraltro poterlo godere perché i fratelli Ferratini nella loro disperata ricerca di denaro avevano ben pensato di venderlo contemporaneamente anche alla marchesa F. Ruspoli. Finalmente Urbano VIII, cui premevano le sorti del "Collegium de Propaganda Fide" ideato proprio dal Vives, nel 1624 troncò la causa con la sua autorità ordinando di consegnarlo allo spagnolo. A partire dal 1639 venne infine ingrandito e profondamente modificato per adattarlo alla sua nuova funzione dal Bernini e dal Borromini, che gli diedero l'aspetto attuale.
Fonti e Bibl.: Il primo processo per s. Filippo Neri nel codice Vat. lat. 3798 e in altri esemplari dell'archivio, dell'Oratorio di Roma, a cura di G. Incisa della Rocchetta-N. Vian-C. Gasbarri, II, Città del Vaticano 1958, p. 151, n. 1309; Cocilium Tridentinum diariorum, III, 1, Friburgi Brisgoviae 1931, p. 548; G. Bentivoglio, Memorie e lettere, a cura di C. Panigada, Bari 1934, pp. 92 s.; U. Gnoli, Topografia e toponomastica di Roma medioevale e moderna, Roma 1939, p. 116; L. von Pastor, Storia dei papi, VI, Roma 1963, p. 464 n. 4; IX, ibid. 1955, pp. 801, 805; X, ibid. 1955, p. 465; XII, ibid. 1962, p. 234; E. Francia, 1506-1606: storia della costruzione del nuovo S. Pietro, Roma 1977, pp. 112, 119; G. Antonazzi, Ilpalazzo di Propaganda, Roma 1979, pp. 15 s., 18 s.; T. Amayden, La storia delle famiglie romane, a cura di C. A. Bertini, I, Roma s.d., p. 395; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XXIV, p. 189; G. van Gulik-C. Eubel, Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, III, Monasterii 1923, p. 106; P. Gauchat, Idem, IV, ibid. 1935, p. 10; B. Katterbach, Referendarii utriusque Signaturae..., Città del Vaticano 1931, p. 123.