DAVANZATI, Bartolomeo
Nacque, probabilmente a Firenze, intorno alla metà del sec. XV.
Il Passanolo identificò con un omonimo nato nel 1395, ma a torto: il D. è infatti noto solo come autore di un'opera in versi composta in gioventù il cui dedicatario, Cosimo Rucellai, visse tra il 1468 e il 1495. Non si hanno notizie dirette sulla sua persona, ma si tratta con molta probabilità del terzo figlio maschio di Mariotto, noto poeta volgare, e di Lisa di lacopo di Francesco de' Pulci (sorella di Luca e Luigi Pulci), nato nel settembre del 1460. Del figlio di Mariotto si sa che nel 1491 sposò Piera di Francesco di Conte di Francesco e che ebbe tre figli, Mariotto (n. 16 marzo 1500), Simone (n. 15 giugno 1502) e Raffaello (n. 23 marzo 1505).
L'opera per la quale il D. è noto è un rifacimento in versi di una novella largamente conosciuta, la Novella del Grasso legnaiuolo, che sul finire del sec. XV si poteva leggere in tre differenti versioni in prosa ed una in versi. Ma mentre il D. afferma di conoscere le versioni in prosa non fa invece menzione di un'altra versione poetica, opera di Bernardo Giambullari e rimasta inedita fino al 1955.
L'incunabolo che conserva il poemetto è privo di colophon, e restano perciò ignoti oltre l'anno di composizione, anche quello di pubblicazione delle ottave; considerato però che l'autore definisce la sua un'opera giovanile ("essendo questo il primo fructo dell'inculto mio ingegnio"), l'uno e l'altro non dovettero essere molto lontani dagli anni 1480-85 indicati dai bibliografi. Il termine post quem, fissato dal Rochon nel 1495 in relazione alla morte di Cosimo Rucellai, va comunque anticipato al 1493, quando il giovane nobile, coinvolto in una congiura contro Piero de' Medici, era stato inviato a Roma dal padre: improbabile che il D. intendesse associare il proprio nome a quello di un perseguitato (l'anno successivo Cosimo venne comunque esiliato).
La Novella di Matteo e del Grasso legnaiuolo per Bartholomeo Davanzati cittadino fiorentino al sapientissimo giovane Coximo di Bernardo Rucellai si sviluppa per 189 ottave non numerate, di lettura tutt'altro che piacevole, e termina con un indirizzo al dedicatario nel quale il giovane autore motiva il suo lavoro e si scusa delle asprezze inevitabili in un frutto ancora acerbo com'è il suo. Il D. ha modellato le sue ottave su una delle tre versioni in prosa, la "vulgata", e in particolare su uno dei dieci codici che la tramandano (il Magl. II. IV. 128). Di quella redazione riprende la linea generale dello svolgimento, i personaggi e la loro caratterizzazione, anche se qua e là interviene poi a introdurre e modificare o amplificare o, più di rado, a sopprimere qualche particolare (il Brunelleschi vi è "compare" del Grasso ed il Grasso stesso si chiama Matteo Amanatrini e non Ammannatini; nel riportare il legnaiuolo a casà, il Brunelleschi e i suoi amici lo depongono nel letto ma non capovolto, com'è invece nelle altre versioni; il compagno con cui fugge in Ungheria è chiamato Pelacchino e si dice di lui che aveva imparato l'arte delle tarsie insieme al Grasso da un comune maestro; Pippo Spano è del tutto ignorato e, inoltre, sono i figli dei Brunelleschi che con il passare del tempo hanno cura di raccogliere. informazioni e delineare lo svolgimento della vicenda nel suo complesso). Chiaramente comprensibile la particolare attenzione prestata alla figura di Giovanni Rucellai, avo del dedicatario dell'operetta, il cui ruolo, appena accennato dagli altri redattori della novella, viene sottolineato e la sua persona introdotta più volte in scena fino a farne il primo tra i collaboratori di quel regista fine, accorto ed ormipresente che è il Brunelleschi. La preoccupazione continua di provare la veridicità dei fatto narrato e la sua conformità alle narrazioni precedenti, accomuna l'opera alla tradizione dei cantari popolari; del resto ad uno dei cantari più diffusi e artisticamente più validi, il Geta e Birria di Ghigo di Attaviano Brunelleschi e di Giovanni Gherardi (volgarizzamento di una comedia elegiaca di Vitale di Blois, il Geta [1160], a sua volta rifatto sull'Amphitruo di Plauto), si possono ricondurre non solo l'idea di fondo della beffa, quella della metamorfosi, ma anche alcuni particolari ripresi in questa versione in maniera più puntuale di quanto non sia nelle altre.
La nitidezza della veste tipografica dell'incunabolo non ha un felice riscontro nello stile dei D., impacciato e contorto e privo di fantasia, attento più alla congerie dei particolari che non alla scioltezza del dettato.
La Novella di Matteo e del Grasso legnaiuolo nella versione poetica del D. è contenuta in un incunabolo in 40 conservato alla Bibl. naz. di Firenze (cfr. Indice generale degli incunaboli delle Biblioteche d'Italia, II, p. 144, n. 3378), stampato a Firenze forse da Francesco di Dino intorno al 1485. La copia della Nazionale presenta degli interventi manoscritti (correzioni di ipermetri e di alcuni pochi refusi tipografici) datati 1713 e di mano del commediografo toscano G. B. Fagiuoli (1660-1742).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze: Tratte, 443 bis, c. 121r; Famiglie fiorentine illustrate con varie scritture da Pier Antonio Dell'Ancisa, 359, c. 372r; Carte Sebregondi, n. 1896. L'incunabolo è descritto nei maggiori repertori (Reichling, 1192; GW, 8159; IGI, 3378) e in Filippo Brunelleschi; l'uomo e l'artista, Mostra documentaria (catal.), a cura di P. Benigni, Firenze 1977, n. 157, p. 102; un primo accenno alla versione poetica del D. è nel Libro di novelle e di bel parlar gentile, a cura di D. M. Manni, II, Firenze 1782, p. 279 n. 2. L'errata indicazione biogr. di G. B. Passano è nel suo catalogo I novellieri ital. in verso, Bologna 1868, pp. 19 s., che riprende un'ipotesi di E. Bindi, il quale, nella presentazione delle Opere di Bernardo Davanzati, aveva tracciato l'albero genealogico della famiglia e di un tale Bartolommeo nato nel 1395 diceva: "forse è l'autore della Novella in ottava rima, citata dal Gamba...". Sull'opera si sofferma, en passant, A. Rochon nel saggio Une date importante dans l'histoire de la beffa; la nouvelle du Grasso legnaiuolo, in Formes et significations de la 'beffa ' dans la littér. ital. de la Renaissance, s. 2, Paris 1975, pp. 221 ss. e passim.