Alviano, Bartolomeo d’
Nacque nel 1455, probabilmente a Todi, da Francesco e Isabella degli Atti (il feudo di A. si trova fra Narni e Bagnoregio).
Aveva dieci anni quando il padre e gli zii Corrado e Tommaso uscirono sconfitti da un conflitto contro la città di Amelia, sorretta da papa Paolo II, e furono rinchiusi in Castel Sant’Angelo, a Roma, dal quale non uscirono che nel 1471, alla morte del pontefice.
In seguito a questi eventi, A. fu accolto come paggio da Napoleone Orsini, al cui fianco iniziò a partecipare ad alcuni fatti d’arme. Nel 1478 fu al seguito di Girolamo Riario nella guerra del papa e del re di Napoli contro Firenze (1478), e qualche anno dopo prese parte alla guerra di Ferrara a fianco di Roberto Malatesta, Ridolfo Baglioni ed Everardo Montesperelli (1482-84).
Nel 1494 A. si trovava nell’esercito pontificioaragonese, di cui aveva il comando supremo Nicolò Orsini conte di Pitigliano, e aveva accanto a sé Virginio Orsini e Gian Iacopo Trivulzio; combatté in Romagna, poi negli Abruzzi e in Puglia. Quando nel 1496 gli Orsini passarono alla parte francese, A. si unì a loro, partecipando alle operazioni intorno ad Atella, finite con la resa dei francesi. Pochi mesi dopo Alessandro VI, profittando della prigionia di Virginio e della lontananza di Nicolò, tentò di abbattere gli Orsini: allora A. fu l’animatore della difesa di Bracciano e dei castelli circostanti. La difesa di Bracciano accrebbe molto, anche presso i francesi, la fama di A., il quale nell’aprile 1497 accettò di guidare, insieme con Piero de’ Medici, una schiera di milletrecento uomini d’arme fin sotto le mura di Firenze, nella vana speranza che il popolo si sollevasse contro la Repubblica. In questo stesso anno A. passava al soldo di Venezia, al cui servizio rimase, con poche interruzioni, fino alla morte.
Dopo la strage di Senigallia compiuta dal duca Valentino (31 dic. 1502), A. disegnò una nuova coalizione antiborgiana, pur senza risultati. Nell’estate, però, alla notizia della morte improvvisa di Alessandro VI, lasciò il Veneto e l’8 settembre, insieme con Gian Paolo Baglioni, entrò in Perugia, da dove in ottobre si portò a Roma. Con l’accordo di Venezia, si unì poi all’esercito spagnolo in guerra con i francesi nel Napoletano: i patti gli assicuravano 8000 ducati annui, il titolo di duca e il soldo fino a cinquecento lance. Giunse in novembre al campo spagnolo sulla sinistra del Garigliano. Aderendo al piano del gran capitano Gonzalo de Córdoba di approfittare del maltempo per varcare il fiume e sorprendere i francesi, A. condusse l’avanguardia con abilità ed energia per due giorni di seguito (28-29 dic. 1503), così che l’azione, ben sorretta d’altro canto da Gonzalo, si concluse con una smagliante vittoria: sorpresa e manovra furono i due principali coefficienti del grande successo. Il 30 dicembre A. era davanti a Gaeta e occupava l’antemurale di Monte Orlando: il giorno dopo l’esercito francese cedeva la piazza, ottenendo di potersi ritirare indisturbato fino a Roma. Con tale battaglia A. entrò veramente nella grande storia: alle corti di Luigi XII e di Massimiliano lo si considerava il vero vincitore.
In seguito A. si mescolò agli intrighi e ai tentativi dei Medici e del cardinale Ascanio Sforza d’impadronirsi, con l’aiuto degli Orsini e dei Baglioni, di Pisa e di Firenze, per poi cercare di cacciare i francesi dalla Lombardia. Imbaldanzito dai trionfi precedenti, A. avanzò imprudentemente dalla Maremma e, sorpreso a Campiglia Marittima dalle forze della Repubblica fiorentina, subì una grave rotta per opera di Ercole Bentivoglio e di Antonio Tebalducci Giacomini (Torre San Vincenzo, 17 ag. 1505). Nel 1508, nuovamente al servizio veneziano, A. risollevò la sua fama con la brillante vittoria sugli imperiali in Cadore e con la successiva conquista di Pordenone, possesso imperiale in pieno territorio veneziano, di Gorizia, di Trieste, di Fiume. La vittoria segnò il culmine della potenza veneziana, ma, al contempo, valse a riunire contro la Serenissima la coalizione di Cambrai.
Nell’inverno del 1509 A. si trovava a rafforzare le fortificazioni di Vicenza in vista dell’imminente aggressione, e poco dopo fu nominato governatore generale – ossia comandante in seconda dell’esercito veneto – accanto al capitano generale, Nicolò Orsini conte di Pitigliano. Ma mancava un’armonia di vedute: A. avrebbe voluto invadere il Milanese e sollevarlo contro i francesi prima che questi terminassero la loro adunata in Lombardia, e quindi risolvere rapidamente la campagna da questo lato per poi volgersi contro gli imperiali; il conte di Pitigliano riteneva invece opportuna una strategia più prudente: tenersi sulla difensiva sfruttando al massimo la fortificazione campale, così da frenare l’impeto dei francesi, e poi, al momento buono, agire di controffensiva. Conclusione di siffatta diversità di vedute fu la rotta di Agnadello (14 maggio 1509): mentre l’esercito veneziano si portava dal territorio di Treviglio a quello di Pandino nel Cremasco, la retroguardia, formata dalle schiere di A., venne assalita dall’avanguardia francese. A. respinse il nemico, ma, anziché svincolarsi, incalzò l’avversario chiedendo invano al conte di Pitigliano di essere sostenuto; alla fine, dopo avere respinto i tiratori guasconi e gli stessi svizzeri, i fanti di A. vennero circondati e annientati, ed egli stesso, ferito al volto, fu fatto prigioniero.
Nel 1513, dopo la stipula di un’alleanza tra Venezia e Luigi XII, A. venne liberato dalla prigionia e nominato capitano generale dell’esercito veneziano.
In seguito alla nuova situazione, guidò le proprie truppe penetrando decisamente in Lombardia fino a Pizzighettone sul basso Adda per collegarsi con i francesi giunti da Asti ad Alessandria, ma questi, che avevano cinto d’assedio Novara, vennero sbaragliati dagli svizzeri il 6 giugno. A. dovette allora retrocedere, mentre imperiali, spagnoli e pontifici dilagavano nel Veneto, spingendosi alla fine sino all’orlo delle Lagune. Ricevuto dal senato l’ordine di uscire da Padova e di collegarsi col Baglioni, A. riuscì a indurre alla ritirata il nemico, che però, a ovest di Vicenza (presso la Madonna dell’Olmo), sbarrò la via al condottiero mentre stava ripiegando verso Verona. A. inseguì le truppe avversarie verso Schio e li costrinse a battaglia presso La Motta (7 ott. 1513), ma il poco fermo contegno di una parte delle sue fanterie, formata di elementi raccogliticci, e la sfortuna del grosso della sua cavalleria pesante, che si impantanò in terreni acquitrinosi mentre compiva un’azione avvolgente, determinarono una grave rotta.
Dopo che nel corso del 1514 A. era riuscito a cogliere nuovi successi, nel 1515 scese in Italia il nuovo re di Francia, Francesco I, che per congiungersi con i veneziani si portò fino a Melegnano. A. giunse invece a Lodi Vecchio, distante una decina di chilometri.
Gli svizzeri uscirono da Milano e alle quattro del pomeriggio del 13 settembre ebbe inizio la grande battaglia, che si protrasse fino a mezzanotte, per riaccendersi all’alba del 14. Alle otto del mattino la sinistra dello schieramento dell’esercito francese stava ormai cominciando a cedere quando sopraggiunse Alviano. Sulle prime egli fu coinvolto nella ritirata francese, ma al sopraggiungere del grosso della cavalleria pesante veneta le sorti della grande battaglia mutarono: gli svizzeri si trovarono presi di fianco e alle spalle e i francesi e i lanzi tedeschi che erano con loro poterono riordinarsi e contrattaccare, assicurando la vittoria al re di Francia. Ventitré giorni dopo, però, il 7 ottobre 1515, a Ghedi presso Brescia, A. moriva di malattia viscerale.
Assertore di una strategia quanto mai vigorosa, in alcuni casi annientatrice, A. trovò difficoltà ad attuarla per la sua novità in confronto con la politica e la prassi guerresca del tempo. Nel campo tattico, a differenza della maggior parte dei condottieri del suo tempo, non fu un seguace del principio difensivo-controffensivo appoggiato alla fortificazione campale, ma assertore di una tattica ardita, mirante ad avvolgere uno o entrambi i fianchi dell’avversario.
Mente aperta a ogni innovazione, contribuì ad armare e addestrare alla svizzera le fanterie veneziane, e utilizzò grandemente la fanteria leggera degli stradiotti; fu pure valente ingegnere militare, come mostrano i castelli da lui fatti costruire o ricostruire nell’Umbria e i rafforzamenti delle fortificazioni di Vicenza e di Treviso.
Riferimenti ad A. si trovano nelle lettere ufficiali di M., da Roma, del 28, 29, 30 ottobre; 8, 16, 21 novembre; e 6 dicembre 1503 (in LCSG, 3° t.). Il movimento di A. contro Firenze «per mutare questo stato» è registrato, con qualche scetticismo, nella lettera privata del 1° giugno 1504 a Giovanni Ridolfi.
Ricordato in un colloquio fra M. e Giampaolo Baglioni (cfr. la lettera ai Dieci dell’11 aprile 1505, da Cortona, in LCSG, 4° t., pp. 414-20), è nominato spesso, come è ovvio, nelle lettere dell’estate 1505, in coincidenza con lo sfortunato tentativo di invadere il dominio fiorentino dalla Maremma (terza legazione a Siena, 16-24 luglio 1505, in LCSG, 4° t., pp. 544-77). In particolare, per lettera del 21 luglio, M. riferisce di un colloquio con Pandolfo Petrucci; dinanzi alla contraddittorietà delle notizie e dei pronostici relativi all’impresa di A., Pandolfo disse che le incertezze «erano etiam favorite da la natura dello Alviano, che era uomo da dare in un tratto speranza e paura alli suoi vicini». L’aggressione subita per opera di A. è menzionata nel proemio alla Provvisione della ordinanza, 1° dicembre 1506 (SPM, p. 478).
La continuità della condotta di A., da parte dei veneziani, è addotta come esempio positivo nel Ghiribizzo circa Iacopo Savello, del 1511 (SPM, p. 538).
A proposito della battaglia di San Vincenzo, A. è ricordato nel secondo Decennale (v. 19) e in Discorsi I liii 22. Nonostante la grandissima importanza attribuita da M. alla battaglia di Agnadello (→), un riferimento esplicito alle responsabilità di A. si legge nel Ritratto di cose di Francia (SPM, p. 550: i veneziani «non arebbono perso la giornata di Vailà, se fussino iti secondando e’ franzesi almanco dieci giorni; ma il furore di Bartolomeo d’Alviano trovò uno maggior furore»), ma non nel Principe (xii 26), là dove sono bollati di inettitudine i capitani di San Marco, «con e’ quali [i veneziani] avevano a temere della perdita, non del guadagno loro». L’omissione dipende probabilmente dal fatto che nel 1513-14 Venezia era alleata dei francesi e A. doveva contarsi fra i virtuali protagonisti dell’alleanza militare antispagnola ipotizzata da Machiavelli.
Bibliografia: P. Pieri, Alviano (Liviani) Bartolomeo d’, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2° vol., Roma 1960, ad vocem (con bibliografia).