ALVIANO (Liviani), Bartolomeo d'
Nacque nel 1455, probabilmente a Todi, da Francesco e da Isabella, della nobile famiglia degli Atti. La madre morì nel darlo alla luce e l'A. fu allevato nella casa paterna insieme con i fratelli Bernardino e Aloisio, e spesso ebbe le cure della zia Milia Monaldeschi, moglie di Corrado d'Alviano, fratello di Francesco, che lo tenne accanto ai suoi due figli. Sebbene gracile ed esile, mostrò subito passione alle armi, in un ambiente di continue risse e guerriglie. Il padre, del resto, era valoroso guerriero e lo zio Corrado aveva combattuto nelle schiere veneziane contro lo Sforza e sotto Pio II fu connestabile della Chiesa. L'A. ebbe, tuttavia, buoni fondamenti culturali, che lasciarono traccia nel suo spirito, dall'umanista Antonio Pacini.
Aveva dieci anni, quando il padre e gli zii Corrado e Tommaso furono travolti da una lotta contro quelli d'Amelia sorretti dal papa Paolo II, e chiusi a Roma in Castel Sant'Angelo, donde non uscirono che nel 1471, alla morte del pontefice. L'A. fu accolto come paggio da Napoleone Orsini e dové assistere, quattordicenne, nel 1469, alla rotta subita da costui, quale capitano generale della Chiesa e di Venezia, presso Rimini, per opera di Federico da Montefeltro. In seguito egli partecipa alle continue lotte e guerricciole nella regione di lodi, Alviano, Amelia, Orvieto: così nel 1472 si trova a lodi fra le schiere che il papa ha richiesto contro i Chiaravallesi ribelli; l'anno dopo appoggia presso Orvieto Uguccione dei conti di Baschi, in lite col fratello Ranieri, sbaragliando i fautori di lui. Quindi è di nuovo a lodi e contribuisce grandemente alla vittoria sui Chiaravallesi fuorusciti, rafforzati da schiere di Amelia e di Terni. Al tempo stesso è paggio di Virginio Orsini, trovandosi spesso nei suoi castelli: segue così i lavori di trasformazione del castello di Bracciano, secondo i nuovi principi della difesa radente e fiancheggiante; e di quello di Soriano, ove si lega in dimestichezza con Giovanni Tornei d'Este, sperimentato castellano. Nel 1478, a ventitré anni, partecipa a una vera e propria guerra, quella del papa e del re di Napoli contro Firenze, seguendo nelle schiere pontificie Gerolamo Riario e curando le artiglierie. Prende parte alla guerra di Ferrara (1482-84), a fianco di Roberto Malatesta, di Ridolfo Baglioni e di Everardo Montesperelli, anche nella seconda fase del conflitto, quando il papa si volge contro Venezia. Finita la guerra, torna in Umbria e sposa Bartolomea Orsini, cugina di Virginio. Quindi accorre a lodi, da cui scaccia i Chiaravallesi fuorusciti che se ne erano impossessati, ed èfatto governatore della città dal papa. Dura nella carica un anno, durante il quale ristabilisce la sicurezza e inizia nuovi lavori di rafforzamento nelle mura e nella rocca.
Con la calata di Carlo VIII comincia un nuovo periodo nella vita dell'Alviano.
Nel 1494 egli si trova nell'esercito pontificio-aragonese, di cui ha il comando supremo Nicolò Orsini conte di Pitigliano, ed ha accanto a sé Virginio Orsini e Gian lacopo Tnvulzio. Il 12 ottobre sorprendeva e sbaragliava presso Faenza una scorreria di trecento cavalli e fanti, in gran parte francesi, e aveva quindi parte nel rafforzamento degli Aragonesi-pontifici in Cesena. Si prodigò poi per difendere gli accessi degli Abruzzi presso Tagliacozzo; quindi retrocedeva in Puglia, prolungando la resistenza a Brindisi e Gallipoli insieme con don Cesare d'Aragona.
Quando, nel 1496, gli Orsini passarono alla parte, francese, l'A. si unì a loro, partecipando alle operazioni intorno ad Atella, finite con la resa dei Francesi; ma, a differenza di Virginio Orsini, egli riuscì a fuggire e a mettersi in salvo. Quando, pochi mesi dopo, Alessandro VI, profittando della prigionia di Virginio e della lontananza del Pitigliano, tentò d'abbattere gli Orsini, l'A. fu l'animatore della difesa di Bracciano e dei castelli circostanti, coadiuvato dalla fiera consorte, Bartolomea Orsini. La guerra ebbe termine, com'è noto, grazie all'intervento di Vitellozzo Vitelli, che a Soriano, il 24 genn. 1497, metteva in piena rotta i pontifici.
La difesa di Bracciano accresce molto, anche presso i Francesi, la fama dell'A., la cui attività si circoscrive però di nuovo nelle contese locali. Nell'aprile accetta di guidare, insieme con Piero de' Medici, una schiera di milletrecento cavalli fin sotto le mura di Firenze, nella vana speranza che il popolo si sollevi a favore di quest'ultimo; quindi muove contro Todi caduta in potere dei Chiaravallesi, li scaccia dalla città e vi ristabilisce gli Atti. Dopo di che soccorre, unitamente ai Baglioni e ai Vitelli, gli Orsini contro i Colonna e i Savelli in un'aspra guerriglia. Rimasto vedovo poco dopo la liberazione di Bracciano, sposa in seconde nozze Pantasilea, sorella di Gian Paolo Baglioni.
In questo stesso anno passa al soldo di Venezia, e al servizio di questa rimane, pur con interruzioni, fino alla morte, fedelmente. Si trova col Pitigliano, che ècapitan generale dell'esercito veneto: nel settembre 1498, quando la repubblica di San Marco muove guerra dalle Romagne ai Fiorentini, per soccorrere Pisa, l'A. con duecentocinquanta cavalli e ottocento fanti, grazie all'intesa con Ramberto Malatesta signore di Sogliano, per la valle del Savio penetra in Casentino occupando prima l'eremo di Camaldoli, poi Bibbiena. Per la mancata occupazione di Poppi la guerra ristagna fra Casentino e alta Vai Tibenina, finché termina per la mediazione del duca di Ferrara, nell'aprile 1499. Nel giugno 1500, sempre al servizio di Venezia, l'A. redige un progetto di difesa del Friuli contro le incursioni turche; l'anno dopo, nel maggio, col Pitigliano è incaricato di vegliare alla sicurezza della stessa regione.
Svanito il pericolo, l'A. ottiene di potersi recare in Umbria, per una vera crociata di sterminio contro i Chiaravallesi; partecipa poi a un'azione contro Viterbo, da cui sono cacciati i figli di Giovanni Gatti. Tornato al servizio veneziano, dopc la strage di Sinigallia compiuta dal Valentino al termine del 1502, l'A., il 28 genn. 1503, ottiene dal Senato di recarsi a Ravenna, dove propone che vi si raccolgano Gian Paolo Baglioni, il duca d'Urbino, il Vitelli, vescovo di Città di Castello, per marciare su Urbino, Perugia, Siena, e giungere infine alle spalle del Valentino, direttosi verso Bracciano. Ma la sua proposta non è accolta, ed egli, deluso e sdegnato, se ne torna a Venezia. Vorrebbe nel marzo correre a difendere Ceri, ultimo baluardo degli Orsini, ma ne è impedito dal Senato veneziano. Nell'estate, però, alla notizia della morte improvvisa di Alessandro VI, senz'attendere il permesso del Senato, lascia il Veneto e l'8 settembre, insieme con Gian Paolo Baglioni, entra nella città di Perugia.
La Francia intanto, che ha perso il Regno di Napoli, s'accinge con un nuovo esercito a riconquistarlo; e la Spagna, che ha già dalla sua i Colonna, mira ad attirare a sé anche gli Orsini. E costoro, offesi dalla protezione che il cardinale d'Amboise pur sempre accorda a Cesare Borgia, passano nelle file spagnole: l'A. ha parte preponderante in questa faccenda, e agisce di pieno accordo con l'ambasciatore veneziano. Nei patti sono assicurati all'A. 8.000 ducati annui, il titolo di duca e il soldo fino a cinquecento lance. Giunge in novembre al campo spagnolo sulla sinistra del Garigliano.
Aderendo al piano del Gran Capitano Gonzalo de Cordoba di approfittare del maltempo per varcare il Garigliano e sorprendere i Francesi, l'A. conduce l'avanguardia con abilità ed energia per due giorni di seguito (28-29 dic. 1503), così che l'azione, ben sorretta d'altro canto da Gonzalo, si conclude con una smagliante vittoria: sorpresa e manovra sono i due principali coefficienti del grande successo. Non solo, ma l'A. il 30 dicembre è davanti a Gaeta e occupa l'antemurale di Monte Orlando: il giorno dopo l'esercito francese cede la piazza, ottenendo di potersi ritirare indisturbato fino a Roma. Con tale battaglia l'A. entra veramente nella grande storia: alle corti di Luigi XII e di Massimiliano lo consideravano il vero vincitore.
In seguito l'A. è mandato in Puglia con Pietro Navarro e debella definitivamente in pochi mesi le ultime schiere francesi occupanti Venosa, Atella, Altamura. In compenso ottiene la contea di San Marco in Calabria. Ma, dopo questo fulgido periodo, l'A. si mescola agl'intrighi e ai tentativi dei Medici e del cardinale Ascanio Sforzà d'impadronirsi, con l'aiuto degli Orsini e dei Baglioni, di Pisa e di Firenze, per poi cercare di cacciare i Francesi dalla Lombardia. Imbaldanzito dai trionfi precedenti, l'A. avanza imprudentemente dalla Maremma e, sorpreso a Campiglia Marittima dalle forze della Repubblica fiorentina, subisce una grave rotta per opera di Ercole Bentivoglio e di Antonio Tebalducci Giacomini.
Nuovamente al servizio veneziano, nel 1508 l'A. risolleva la sua fama con la brillante vittoria sugl'imperiali in Cadore, e con la successiva conquista di Pordenone, terra imperiale in pieno territorio veneziano, di Gorizia, di Trieste, di Fiume.
Massimiliano, che solleva le pretese sulla terraferma veneziana e sul ducato di Milano, viene fermato in Val Lagarina dalle forze riunite franco-veneziane del Trivulzio e del Pitigliano. Con una diversione, Massimiliano alla fine di febbraio entra in Cadore, ma l'A., che si trova a Bassano di riserva, da Longarone, ad onta della neve altissima, per la valle di Zoldo, attraverso la forcella di Cibiana, si cala a Valle di Cadore, tagliando agl'imperiali la via della ritirata su Cortina. Sul Rio Secco (Rusecco) li ferma, li avviluppa, li annienta. Occupata ia rocca di Pieve di Cadore, l'A. ridiscende al piano, impadronendosi di Pordenone e conquistando successivamente Gorizia, Trieste e Fiume.
Il grande trionfo dell'A. segnava il culmine della potenza veneziana, ma valeva a riunire contro la Serenissima la coalizione di Cambrai.
Fatto duca di Pordenone, l'A. s'insediava nella cittadina e quivi teneva una vera accademia, mostrando come la sua mente non fosse aliena dagli svaghi letterari e filosofici. Ma già nell'inverno del 1509 si trovava a rafforzare le fortificazioni di Vicenza, in vista del nembo sovrastante; e poco dopo era nominato governator generale, ossia comandante in seconda dell'esercito veneto, accanto al capitan generale, conte di Pitigliano. Ma mancava quell'armonia di vedute che già aveva portato Gonzalo de Cordoba e l'A. alla grande vittoria del Garigliano: l'A. avrebbe voluto invadere il Milanese, sollevarlo contro i Francesi, prima che la loro radunata in Lombardia fosse terminata, risolvere rapidamente la campagna da questo lato, per poi volgersi contro gli imperiali; il Pitigliano riteneva, invece, opportuna una strategia più prudente: tenersi sulla difensiva, sfruttando al massimo la fortificazione campale, così da frenare l'impeto dei Francesi, e poi, al momento buono, agire controffensivamente. Conclusione di siffatta diversità di vedute fu la rotta di Agnadello (14 maggio 1509): mentre l'esercito veneziano si portava dal territorio di Treviglio a quello di Pandino nel Cremasco, la retroguardia, formata dalle schiere dell'A., era assalita dall'avanguardia francese. L'A. respingeva il nemico, ma, anziché svincolarsi, incalzava l'avversario e chiedeva invano al Pitigliano d'esser sostenuto; alla fine, dopo aver' respinto itiratori guasconi e gli stessi Svizzeri, i fanti dell'A. erano circondati e annientati, ed egli stesso, ferito al volto, era fatto prigioniero. Il re di Francia mostrò di valutare al massimo tale fortunato evento, perché per quattro anni non a in libertà consentì rimetterlo. Durante la prigionia l'A. stese alcune memorie (Commentari), che il Giovio poté vedere, e, a quanto sembra, anche scritti di teoria guerresca, e compose persino rime; ma di tutto ciò nulla è rimasto.
Nel 1513, stipulatasi l'alleanza tra Venezia e Luigi XII, l'A., liberato dalla prigionia, era nominato capitan generale dell'esercito veneziano.
Nonostante la decadenza militare della Repubblica, connessa a quattro anni di guerre e di devastazioni, l'A., tentato invano un colpo di mano contro Verona, penetrava decisamente in Lombardia fino a Pizzighettone sul basso Adda, per collegarsi con i Francesi giunti da Asti ad Alessandria. Ma costoro, che avevano cinto d'assedio Novara, erano sbaragliati dagli Svizzeri, non lungi dalla città, il 6 giugno. L'A. doveva allora retrocedere, e, dopo aver tentato per la seconda volta un colpo di mano su Verona, si rafforzava in Padova, ponendo Gian Paolo Baglioni in Treviso, mentre imperiali, Spagnoli e pontifici dilagavano nel Veneto, spingendosi alla fine sino all'orlo delle Lagune. Ricevuto allora dal Senato l'ordine d'uscire da Padova e di collegarsi col Baglioni, riusciva a indurre alla ritirata il nemico. Ad ovest di Vicenza, alla Madonna dell'Olmo, gli sbarrava la via mentre ripiegava verso Verona; l'inseguiva verso Schio e veniva a battaglia presso La Motta (7 ott. 1513). Quivi, però, il poco fermo contegno di una parte delle sue fanterie, formata di elementi raccogliticci, e la sfortuna del grosso della sua cavalleria pesante, impigliatasi in terreni acquitrinosi mentre compiva azione avvolgente, determinavano una grave rotta. L'A. si salvava a stento; i collegati di nuovo dilagavano; La perizia dell'A., unita alla sua grande energia, riusciva a dominare la situazione: appoggiandosi ai due capisaldi di Padova e di Treviso, ricostituito l'esercito, fronteggiava gli avversari dislocati fra Verona, Este e Montagnana. Nel 1514, dopo che gli imperiali discesi dal Friuli erano stati fermati dal forte d'Osoppo, l'A. con la cavalleria sbaragliava quella tedesca presso Pordenone, occupava la città e liberava Osoppo dall'assedio, obbligando i nemici alla ritirata e riconquistando quasi tutto il Friuli. Retrocédendo a fronteggiare gli Spagnoli, si spingeva fin presso Verona; quindi moveva fulmineamente contro Rovigo, sorprendendo e facendo prigionieri duecento uomini d'arme spagnoli. Di nuovo presso Verona, con la mira d'appoggiare Renzo di Ceri, che difendeva Crema, si spingeva poi su Bergamo. Prospero Colonna ideava allora un grande piano per prender fra due fuochi l'A. e tagliarlo fuori dalla base d'operazione di Padova: il Pescara da Verona si sarebbe portato a Monselice, mentre egli dal Cremasco avrebbe puntato, attraverso il territorio di Mantova, su Legnago. Ma l'A. sfuggiva alla stretta: teneva a bada con la cavalleria leggera il Pescara, e intanto col grosso s'imbarcava sull'Adige, lo seguiva fin presso la foce, poi, sceso a terra, per Piove di Sacco riguadagnava Padova. Il nemico non osava intraprendere una nuova grande operazione contro di lui.
L'anno dopo, 1515, scendeva in Italia il nuovo re di Francia, Francesco I. Si rinnova la situazione di due anni prima, ma senza gli errori d'allora. Il re infatti mira per prima cosa a congiungersi con i Veneziani, e si porta fino a Melegnano, mentre l'A. è giunto a Lodi Vecchio, a una decina di chilometri di distanza. Gli Svizzeri escono da Milano: alle quattro del pomeriggio del 13 settembre ha inizio la grande battaglia, che si protrae fino a mezzanotte, per riaccendersi all'alba del 14. Alle otto del mattino l'esercito francese comincia a cedere sulla sua smistra, quando sopraggiunge l'A. al quale, durante la notte, è pervenuta in Lodi Vecchio una pressante richiesta d'aiuto da parte di Francesco I. Sulle prime egli è coinvolto nella ritirata francese, ma, al sopraggiungere del grosso della cavalleria pesante veneta, le sorti della grande battaglia mutano; gli Svizzeri si trovano presi di fianco e alle spalle, i Francesi e i lanzi tedeschi che sono con loro possono riordinarsi e contrattaccare: la vittoria rimane al re di Francia.
Ventitré giorni dopo la smagliante vittoria, il 7 ott. 1515, l'A. morì, di malattia viscerale causata dai continui strapazzi, a Ghedi presso Brescia, che egli si disponeva a riconquistare alla Repubblica di San Marco.
L'A. fu certo uno dei nostri maggiori condottieri del Rinascimento; assurse alla più alta fama relativamente tardi, a quarantott'anni, con la battaglia del Garigliano, e solo dieci anni più tardi si trovò a comandare un esercito. Assertore d'una strategia quanto mai vigorosa, vera strategia annientatrice in alcuni casi, trovò difficoltà ad attuarla per la sua novità in confronto con la politica e la prassi guerresca del tempo. Dove, però, si poté giungere a una piena comprensione e a una reciproca fattiva collaborazione fra generalissimo e generale in sottordine, come al Garigliano, o fra entrambi i capi dei due eserciti alleati, come a Melegnano, il successo fu clamoroso; dove l'accordo mancò, come ad Agnadello, si ebbe la sconfitta. Quando l'A. agi da solo, parve rivelare più le manchevolezze che i vantaggi del suo arrischiato procedere; ma, in realtà, la rotta di Campiglia fu un episodio d'imprudenza dovuto ad eccessiva sottovalutazione dell'avversario; in quella di La Morta ebbero parte decisiva deficienze di truppe e insidie del terreno accp.xitrinoso. Viceversa, la vittoria di Rio Secco in Cadore fu la conseguenza di un'azione arditissima sulle retrovie del nemico, operata in terreno asprissinio e nel cuore dell'inverno. E mirabile fu la campagna del 1514: privo ormai, dopo la rotta di La Morta, di gran parte della cavalleria pesante e della fanteria pesante (di picchieri), fatta sua base d'operazione Padova, con cavalleria e artiglieria leggera, cernite, venturieri, seppe di nuovo tener testa bravaniente agli Spagnoli e ai Tedeschi, da Legnago a Osoppo e da Bassano a Rovigo. Nel campo tattico, a differenza della maggior parte dei nostri condottieri, non fu un seguace del principio difensivo-controffensivo appoggiato alla fortificazione campale, ma assertore d'una tattica ardita, mirante ad avvolgere uno o entrambi i fianchi dell'avversario; il che non gl'impedi d'applicare magistralmente anche l'altro principio, come al Rio Secco in Cadore. E fu sempre un animatore, molto amato dai soldati, cui pure imponeva una dura disciplina e dai quali richiedeva a volte i maggiori sforzi. Piccolo e brutto, mezzo gobbo, tutt'altro che robusto quanto a costituzione fisica, seppe con l'esercizio e con la volontà rimediare a tali deficienze. Fu poi mente aperta ad ogni innovazione: contribuì ad armare e addestrare alla svizzera le fanterie veneziane, utilizzò gràndemente la fanteria leggera degli stradiotti; e fu pure valente ingegnere militare, come mostrano i castelli da lui fatti costruire o rifatti nell'Umbria e i rafforzamenti delle fortificazioni di Vicenza e di Treviso. Non solo, ma si mostrò mente aperta a ogni forma di cultura, e le non poche lettere che di lui rimangono mostrano proprietà di lingua e vigore di stile; a Pordenone tenne una vera accademia nell'autunno-inverno 1508-09 e 1514-15. Per un momento, alla caduta del Valentino, parve aspirare a formarsi una signoria comprendente Todi, Amelia, Alviano, forse Orvieto; e forse pensò pure alla possibilità d'una signoria in Pisa: ma non segui tali obiettivi con la sua solita energia e costanza; e, passato definitivamente a Venezia, servì la Repubblica con la massima fedeltà. Il maggiore elogio dell'A. fu fatto dai suoi soldati che, dopo la sua morte, non vollero per venticinque giorni separarsi dalla sua salma, e da Teodoro Trivulzio che, nel trasportarla da Ghedi a Venezia (ove trovò sepoltura nella chiesa di S. Stefano), passando sotto le mura di Verona non volle chieder salvacondotto a Marcantonio Colonna, che ivi comandava il presidio spagnolo, affermando, al dire del Guicciardini, "non essere conveniente che chi vivo non aveva mai avuto paura degli inimici, morto facesse segno di temergli".
Bibl.: L. Leonii, Vita di B. di A., Todi 1858; H. Harkensee, Die Schlacht bei Marignano, Göttingen 1909; O. Haintz, Von Novara bis La Motta, Kirchhain 1912; M. Hobohm, Machiavellis Renaissance der Kriegskunst, II, Berlin 1913, passim; P. Pieri, Intorno alla politica estera di Venezia al principio del Cinquecento, Napoli 1934; C. Cansacchi, I primi Passi di un grande condottiero: B. d'A., in Bollett. d. Ist. stor. e di cultura dell'Arma del Genio, dic. 1937, n. 7,pp. 39-76; P. Pieri, La battaglia del Garigliano del 1503, Roma 1938; Id., Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952. Da vedersi poi: A. Ferrai e A. Medin, Rime storiche del sec. XVI, in Nuovo arch. veneto, XX (1900), pp. 295 ss.; A. Medin, La storia della repubblica di Venezia nella poesia, Milano 1904, passim; A. Ciscato, B. d'A. a Padova nel 1513, in Bollett. d. Museo civico di Padova, III (1900), nn. 11-12, pp. 156-160; IV (1901), nn. 1-2, pp. 46-48; A. Battistella, Pordenone e i d'Alviano, in Mem. stor. forogiuliesi, IX (1913), pp. 241 ss.