CORSINI, Bartolomeo
Nacque a Barberino di Mugello (Firenze) il 18 giugno 1606 da Anton Francesco e da Alessandra Forasassi. Era il secondo di quattro figli: Antonio, Costanza, Corsino (1613-1686). La famiglia era stabilita nel Mugello da almeno due secoli (si veda l'albero genealogico dei Corsini in Torracchione desolato, ed. 1887) ed era la più facoltosa. del luogo: dagli Annali di Barberino (in Scritti inediti, p. 170) risulta che Anton Francesco era tassato per 45 ducati, più di ogni altro capofamiglia barberinese.
Ricevette in patria le prime conoscenze di lettere e filosofia e nel 1626 (o forse l'anno precedente) si trasferì a Pisa per gli studi di medicina voluti dal padre. Mancano notizie sugli anni pisani: riferendo da un manoscritto attribuito a Filippo Buonarroti il Baccini (Scritti ined., p. XIX) dice che in questa città si trattenne più a lungo di quanto occorresse per la laurea. Neppure risulta dai registri dell'ateneo pisano che il C. conseguisse il dottorato: poiché tuttavia il titolo è attestato varie volte, anche in scritti autografi, il Baccini suppone che il C. si fosse trasferito in un'altra università (pp. XX s.). Non sappiamo quando tornasse in patria: certo non vi professò la medicina e a questo forse va addebitata una temporanea rottura col padre. Si allontanò dalla famiglia per vivere dapprima in una sua casa sul poggio Turlaccio poi in una villa detta "Domus Quietis", l'una e l'altra nei dintorni di Barberino, e vi coltivò tranquillamente - soprattutto dopo la riappacificazione col padre - i suoi interessi letterari e musicali.
Nel 1638 cominciò la stesura degli Annali di Barberino e la proseguì per undici anni, sino al '46 (l'opera è in Scritti ined, pp. 133-198).
Dopo alcune notizie introduttive sul carattere e le attività dei Barberinesi, registra in modo generalmente asciutto la cronaca cittadina, quasi sempre di scarso rilievo: l'arrivo di funzionari granducali o di un maestro di scherma, qualche fatto di sangue, il susseguirsi di preti-maestri, imposizioni fiscali, recite teatrali. La guerra che nel 1643 oppose la lega di Toscana, Modena e Venezia a UrbanoVIII è l'avvenimento di maggiore spicco, considerato dalla specola di una terra battuta e depredata da truppe contrapposte, con qualche tratto di autentica e commossa pietà.
Dagli Annali risulta anche una modesta partecipazione del C. alla vita pubblica. Per due volte (1640 e 1646) fu governatore di una confraternita barberinese, la Compagnia dei SS. Sebastiano e Rocco, e qualche anno dopo, nel '49, in occasione di una grave carestia ebbe funzioni ispettive sulla fabbricazione e sullo smercio del pane. Poco più che onorifico dovette essere il segretariato delle armi del Mugello, conferitogli dal granduca Ferdinando II in occasione della lega antibarberiniana.
In questa vita tranquilla un episodio sfortunato fu il tardivo matrimonio con una donna di trent'anni più giovane di lui, Margherita di Simone Ricoveri. Dal matrimonio, avvenuto il 19 genn. 1653, nacque l'8 ott. 1654 il figlio Evandro, morto poi prematuramente il 20 marzo 1679, sei anni dopo il padre. Il matrimonio fu infelice: la giovane moglie si beffò in vario modo del C. e lo abbandonò intorno al 1660 lasciandogli il figlio, all'educazione del quale il C. si dedicò affettuosamente, ritirandosi nella casa paterna di Barberino. L'esperienza personale acuì la vena misogina già presente nello scrittore: sono numerosi gli epigrammi e altri versi antiuxori (Scritti ined., pp. 115-128), dove il risentimento si fregia talvolta di estri inventivi e beffardi che distorcono il dettato evangelico in acre parodia o conferiscono slancio grottesco ai riferimenti letterari.
Non sono noti i tempi di composizione dell'opera maggiore, il poema eroicomico in venti canti Il Torracchione desolato: siindicano in genere gli anni intorno al 1660 (Baccini, in Scritti ined., p. LXXV,e prefaz. al poema, 1887, p. XXV). Il poema restò inedito per più di un secolo: intorno al 1740 se ne trattava la stampa in Bologna (Quadrio, VI, p. 729), ma solo nel 1768 Giuseppe Conti lo pubblicò a Parigi, sotto lo pseudonimo di Meo Crisoni e con gli argomenti dei canti composti dal vallombrosano padre Benedetto Bertia, presentandolo come uno dei migliori esempi di racconto eroicomico (il poema ebbe cinque ristampe: Leida [ma Firenze] 1791; Amsterdam [ma Livorno] 1822; Venezia 1842, come volume VII del Parnaso italiano; Firenze 1843, nel III volume della Raccolta dei più celebri poemi eroicomici; ibid. 1887; per i codici del Torracchione vedi Baccini, in Scritti ined., pp. LXIV-LXXI e CXXIII; l'autografo conservato nel seminario fiorentino reca in fine altri argomenti dei canti dovuti a un amico del poeta, Simone del Macchia, sotto lo pseudonimo di Ismeno Cadelmachi, assai diversi da quelli del Bertia).
Il torracchione del titolo allude forse a un avanzo diroccato presso Barberino ma non risultano storie locali che possano esser servite come fonte. Il carattere folclorico del poema è dunque da cercare altrove, in alcuni episodi di magia o riprese del meraviglioso mitologico o riferimenti a feste e riti popolari. Vi si narra che durante una festa rusticale a Cirignano in onore di Cerere il cavaliere Bruno, figlio di Lazzaraccio signore del Torracchione, e il gigante Giuntone rapiscono la bella Elisea, figlia del Banchella (che è in realtà il re di Radicofani fuggiasco). I due rapitori incontrano di notte in un bosco una giovane donna che sta per gettarsi disperata da una rupe. Bruno salva Margherita, ma il gigante approfitta della distrazione del compagno per fuggire con Elisea verso un castello sul monte Falterona dove la maga Sirmalia ha accolto uomini e donne che vi praticano la più turpe lussuria. Bruno affida al padre Margherita e parte poi alla ricerca del gigante. Quando i messi di Alcidamante, conte di Mangone, che è innamorato di Elisea, giungono al Torracchione e chiedono che la fanciulla sia restituita, l'ignaro Lazzaraccio consegna Margherita. Credendo che lo scambio sia volontario, Alcidamante giura di punire Lazzaraccio e di distruggere il Torracchione. Così scoppia la guerra, e anche gli dei, convenuti a concilio, decidono di sostenere il conte di Mangone. Dopo alterne vicende Alcidamante distrugge vari castelli di Lazzaraccio e, istruito da Mercurio sui modi di resistere alle lusinghe di Sirmalia, dissolve anche il palazzo incantato e ritrova così Elisea, che durante la lunga prigionia ha saputo resistere alle lusinghe del luogo. Alle nozze del conte e di Elisea segue la fase finale della guerra, con la morte di Bruno e di Giuntone e con la rovina del Torracchione cinto d'assedio: Lazzaraccio atterrito si nasconde in un sotterraneo, ma la terra gli si apre sotto i piedi e l'inghiotte, mentre una grande fiamma avvolge il castello e lo distrugge.
Rispetto ad altri poeti eroicomici il C. si vale di una maggiore indipendenza nel trattamento della materia, ciò che conferisce all'opera quel carattere romanzesco, più volte rilevato, che si manifesta non tanto nella complicazione del racconto quanto nella frequente commistione, tipica della poetica secentesca del romanzo, di materiali tematicamente e stilisticamente assai diversi. Nell'ambito del genere eroicomico, il rilievo dato agli aspetti romanzeschi è un altro segno della stanchezza che il genere cominciava a denunciare: in tal senso è pure significativo che solo nel Settecento, come anche avvenne in altri casi, il poema potesse esser pubblicato.
Nel suo insieme l'opera è tributaria del tradizionale linguaggio letterario toscano ed è stata in particolare accostata al Malmantile racquistato del Lippi. Parti di solenne intonazione epica si alternano alla caricatura della società provinciale, a temi patetici, a toni schemevoli. La vena scurrile di comica festevolezza, tradizionale nel "genere", trasmoda talvolta verso forme di una torbida oscenità. Un episodio di particolare compiacimento lascivo 0 riti erotici nel castello di Sirmalia nel canto VI) è stato richiamato dal Croce (Nuovi saggi sulla letteratura ital. del Seicento [1931], Bari 1968, pp. 306-09) a proposito di un romanzo di Annie Vivanti, Naja tripudians. Altre storie del poema si possono isolare come novelle: quella di Lesbina e Casimiro (canto XI, 52-75) è in Poesie giocose inedite o rare, a cura di A. Mabellini, Firenze 1884, pp. 120-25.
Non è raro nel poema il riferimento, spesso con intenti parodistici, a episodi della tradizione letteraria, dall'Odissea alle Metamorfosi ovidiane, al Tasso. Un capitolo rilevante nell'attività letteraria del C. è appunto quello delle traduzioni. Volgarizzò il primo libro e pochi versi del secondo dell'Odissea (Scritti ined., pp. 2353), ma la coloritura parossistica più che irriverente è superficiale, mentre più congeniale gli fu il chiaro e discorsivo ideale stoico dichiarato nel Manuale di Epitteto, che tradusse col singolare titolo I pannicei caldi, intendendo dire che quelle savie massime non avrebbero comunque potuto arrestare l'incancrenita corruttela del tempo (l'autografo è nella Bibl. Laurenziana, cod. Ashburnh. 454, pubblicato una prima volta da L. Fiacchi, Firenze 1815, poi dal Baccini, Firenze 1887).
La traduzione di maggiore spicco è quella di Anacreonte, il solo lavoro che venisse pubblicato vivente il C., a Parigi nel 1672, per impulso del cardinale Leopoldo de' Medici e a cura del Desmarais; poi più volte riproposta con le versioni di altri autori (Napoli 1700; Firenze 1723; Venezia 1736; e ancora nell'Ottocento) nel quadro del crescente interesse settecentesco per il poeta di Teo; studiata ancora dall'Alfieri (G. Mazzatinti, Ancora delle carte alfieriane di Montpellier, in Giorn. stor. della lett. ital., IX [1887], pp. 54 s.). La traduzione gli valse l'apprezzamento della Crusca e forse - come pensa il Baccini (Scritti ined., pp. XXIXXII) - vi furono i preparativi per una ammissione, poi non perfezionata, all'Accademia.
Tra le molte traduzioni secentesche di Anacreonte (A. Marchetti, A. M. Salvini, F-S. Régnier-Desmarais) quella del C. è parsa sgraziata e pretenziosa (Saccenti, p. 317) e sembra più giusto vedervi non un anticipo del gusto arcadico ma piuttosto un recupero di modi chiabreriani; tesi che la sperimentazione metrica rende plausibile: come ha provato lo Spongano (pp. 52 s.) il C. predilesse i metri brevi (strofette di quinari, settenari, ottonari e persino di ternari), largamente preferiti al sonetto e all'ottava. Le grazie e l'estro dell'originale gli restarono in sostanza estranei, ché il C. non aveva certo cultura e gusto adeguati a un compito così arduo.
Negli ultimi anni si spense la vena gioviale e giocosa di matrice bernesca e prevalse in modo deciso un orientamento meditativo, rappresentato dalle laudi spirituali raccolte, sotto lo pseudonimo di Orotelambo Crisoni, nel cod. Riccardiano 2643 e musicate da G. B. Balduzzi (cinque Laudi della Settimana santa furono stampate a Prato nel 1820 e ristampate a Barberino nel 1871).
Il C. è un esempio quasi paradigmatico di scrittore vissuto sempre in un chiuso ambiente provinciale, privo di relazioni significative e incapace di aperture.È stato osservato dal Varese (p. 884) che in questa condizione ogni piccola cosa può prendere una misura sproporzionata; e comunque è certo che siffatta chiusura provinciale rendeva quanto meno difficile l'orientamento e la scelta tra le molteplici esperienze della cultura letteraria contemporanea. Se è vero che il C. è omogeneo rispetto alla situazione letteraria toscana, che si difese con il buonsenso e l'amore per l'ordine razionale dagli influssi più inquieti, bizzarri o eccessivi del gusto barocco, anche è vero che egli non riuscì mai a individuare una precisa linea espressiva, perseguendovi risultati compiuti e coerenti, ma colse, come orecchiante e da lontano) stimoli vari e contraddittori. Eloquente è per questo la citata raccolta di Scritti inediti messa insieme da G. Baccini, soprattutto per la sezione delle rime, dove temi devoti si alternano a soggetti apertamente osceni, esercizi parodistici in linguaggio rusticale stanno insieme con esempi del più trito tardopetrarchismo.
Il C. morì a Barberino il 24 marzo 1673 e fu sepolto nella chiesa di S. Silvestro.
Fonti e Bibl.: F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, Bologna-Milano 1739-1752, ad Indices; G.Fontanini-A. Zeno, Biblioteca dell'eloquenza ital., Venezia 1753, 11, p. 103; G.Baccini, prefaz. agli Scritti inediti del C., Firenze 1883 (rec. in Giorn. stor. della lett. ital., II [1883], pp. 225-27); L. Chini, Intorno agli .scritti ined. di B. C., in Arte e storia, II (1883), 36, pp. 128 s.; G. Baccini, Sulla storia antica e moderna del Mugello, Firenze 1883, ad Ind.; Id., Introduz. al Torracchione desolato, Firenze 1887; G. Zaccagnini, I vari elementi comico-satirici in due poemi eroicomici minori, Pistoia 1898, passim; C. Previtera, La poesia giocosa e l'umorismo, Milano 1942, II, pp. 40-44. 73; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1955, pp. 160, 272-275, 355; R. Spongano, Il primo Parini, Bologna 1963, pp. 52 s., 71 s., 74, 91; C. Jannaco, Il Seicento, Milano 1963, pp. 451-53, 481. 487; M. Saccenti, Lucrezio in Toscana. Saggio su A. Marchetti, Firenze 1966, pp. 282, 315, 317 s.; B. Croce, Storia dell'età barocca, Bari 1967, pp. 389-391; C. Varese, in Storia della lett. ital., V, Il Seicento, Milano 1967, pp. 831, 884. 926.